lunedì 30 marzo 2009
Fare, saper fare, dar da fare, lasciar fare...
Chiesero a Papa Giovanni XXIII: “ Come fa, Santo Padre, a realizzare tante cose?”. Rispose: “tenendo sempre presente questa massima: Fare, saper fare, dar da fare, lasciar fare!”
domenica 29 marzo 2009
Vivo del tuo sguardo
Vivo del tuo sguardo,
Dio,
non ho nulla di me stesso:
tutto è tuo dono e sarà mio
solo se lo riceverà da te.
Sempre ricevo me
dalla tua mano.
È così e così deve essere.
Questa è la mia verità
e la mia gioia.
Di continuo il tuo occhio mi guarda
e io vivo del tuo sguardo,
o mio Creatore e mia salvezza.
Insegnami a capire
nella calma del tuo presente,
che io sono;
e che io sono per opera tua,
e davanti a te e per te.
Romano Guardini, prete, teologo, scrittore (1885 - 1968)
Dio,
non ho nulla di me stesso:
tutto è tuo dono e sarà mio
solo se lo riceverà da te.
Sempre ricevo me
dalla tua mano.
È così e così deve essere.
Questa è la mia verità
e la mia gioia.
Di continuo il tuo occhio mi guarda
e io vivo del tuo sguardo,
o mio Creatore e mia salvezza.
Insegnami a capire
nella calma del tuo presente,
che io sono;
e che io sono per opera tua,
e davanti a te e per te.
Romano Guardini, prete, teologo, scrittore (1885 - 1968)
Donami occhi per vedere le necessità del mondo
Donami, Signore,
occhi per vedere le necessità del mondo
e un cuore per amare l’universo che tu ami.
Donami un cuore di carne,
non un cuore di pietra,
per amare Dio e gli uomini.
Donami il tuo stesso cuore
per amare veramente
dimenticandomi di me stesso.
Donami la tua luce,
per riconoscere i tuoi segni.
Donami di riconoscerti negli altri
e di conoscere in loro la tua voce e i tuoi pensieri.
Signore,
ho bisogno dei tuoi occhi:
dammi una fede viva.
Ho bisogno del tuo cuore:
dammi carità a tutta forza.
Ho bisogno del tuo soffio:
dammi la tua speranza per me e la tua Chiesa.
Dammi la capacità
di compiere pienamente ciò che tu mi chiedi.
occhi per vedere le necessità del mondo
e un cuore per amare l’universo che tu ami.
Donami un cuore di carne,
non un cuore di pietra,
per amare Dio e gli uomini.
Donami il tuo stesso cuore
per amare veramente
dimenticandomi di me stesso.
Donami la tua luce,
per riconoscere i tuoi segni.
Donami di riconoscerti negli altri
e di conoscere in loro la tua voce e i tuoi pensieri.
Signore,
ho bisogno dei tuoi occhi:
dammi una fede viva.
Ho bisogno del tuo cuore:
dammi carità a tutta forza.
Ho bisogno del tuo soffio:
dammi la tua speranza per me e la tua Chiesa.
Dammi la capacità
di compiere pienamente ciò che tu mi chiedi.
Il Signore ci ha messo in questo mondo meraviglioso per essere felici e godere la vita...
Cari Scout,
se avete visto la commedia di Peter Pan vi ricorderete che il capo dei pirati ripeteva ad ogni occasione il suo ultimo discorso, per paura di non avere il tempo di farlo quando fosse giunto per lui il momento di morire davvero. Succede lo stesso anche a me, e per quanto non sia ancora in punto di morte quel momento verrà, un giorno o l’altro; così desidero mandarvi un ultimo saluto, prima che ci separiamo per sempre. Ricordate che sono le ultime parole che udrete da me: meditatele. Io ho trascorso una vita felicissima e desidero che ciascuno di voi abbia una vita altrettanto felice. Credo che il Signore ci abbia messo in questo mondo meraviglioso per essere felici e godere la vita. La felicità non dipende dalle ricchezze né dal successo, né dalla carriera, né dal cedere alle nostre voglie. Un passo verso la felicità lo farete conquistandovi salute e robustezza finché siete ragazzi, per poter essere utili e godere la vita pienamente una volta fatti uomini. Lo studio della natura vi mostrerà di quante cose belle e meravigliose Dio ha riempito il mondo per la vostra felicità. Contentatevi di quello che avete e cercate di trarne tutto il profitto che potete. Guardate al lato bello delle cose e non al lato brutto. Ma il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri. Preoccupatevi di lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo avete trovato e, quando suonerà la vostra ora di morire, potrete morire felici nella coscienza di non aver sprecato il vostro tempo, ma di avere fatto "del vostro meglio". "Siate preparati" così, a vivere felici e a morire felici: mantenete la vostra promessa di esploratori, anche quando non sarete più ragazzi, e Dio vi aiuti in questo.
Il vostro amico,
Lord Baden Powell of Gilwell (1857 - 1941)
se avete visto la commedia di Peter Pan vi ricorderete che il capo dei pirati ripeteva ad ogni occasione il suo ultimo discorso, per paura di non avere il tempo di farlo quando fosse giunto per lui il momento di morire davvero. Succede lo stesso anche a me, e per quanto non sia ancora in punto di morte quel momento verrà, un giorno o l’altro; così desidero mandarvi un ultimo saluto, prima che ci separiamo per sempre. Ricordate che sono le ultime parole che udrete da me: meditatele. Io ho trascorso una vita felicissima e desidero che ciascuno di voi abbia una vita altrettanto felice. Credo che il Signore ci abbia messo in questo mondo meraviglioso per essere felici e godere la vita. La felicità non dipende dalle ricchezze né dal successo, né dalla carriera, né dal cedere alle nostre voglie. Un passo verso la felicità lo farete conquistandovi salute e robustezza finché siete ragazzi, per poter essere utili e godere la vita pienamente una volta fatti uomini. Lo studio della natura vi mostrerà di quante cose belle e meravigliose Dio ha riempito il mondo per la vostra felicità. Contentatevi di quello che avete e cercate di trarne tutto il profitto che potete. Guardate al lato bello delle cose e non al lato brutto. Ma il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri. Preoccupatevi di lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo avete trovato e, quando suonerà la vostra ora di morire, potrete morire felici nella coscienza di non aver sprecato il vostro tempo, ma di avere fatto "del vostro meglio". "Siate preparati" così, a vivere felici e a morire felici: mantenete la vostra promessa di esploratori, anche quando non sarete più ragazzi, e Dio vi aiuti in questo.
Il vostro amico,
Lord Baden Powell of Gilwell (1857 - 1941)
venerdì 27 marzo 2009
Dio qualche volta si nasconde...
Dio qualche volta
si nasconde,
come si legge nella sacra Scrittura,
e si nasconde per invitarci
a cercarlo di più,
con maggiore forza.
Benedetto XVI / Joseph Ratzinger (1927 - 2022), docente e teologo tedesco, papa
giovedì 26 marzo 2009
La causa ultima di tutto l'universo
Ille igitur qui considerat simpliciter altissimam causam totius universi, quae Deus est, maxime sapiens dicitur.
Tommaso d'Aquino (1225 - 1274), santo, sacerdote domenicano, teologo e filosofo
[ Summa Theologiae Iª q. 1 a. 6 co. ]
Tommaso d'Aquino (1225 - 1274), santo, sacerdote domenicano, teologo e filosofo
“Per questo Io ho avuto pietà di te!..”
Abu Bakr, il mistico di Bagdad, morì nel 945. Dopo la sua morte apparve in sogno a un amico che gli chiese: "Come ti ha trattato Dio?" Egli rispose: "Mi ha posto al suo cospetto e mi ha chiesto: 'Abu Bakr, sai perché ti ho perdonato?' Risposi: 'A causa delle mie buone azioni.' Lui disse 'No.' Io dissi: 'Perché ero sincero nella mia devozione.' Lui disse: 'No.' Io dissi: 'Grazie al mio pellegrinaggio e al mio digiunare e alle mie preghiere.' Lui disse: 'No, non per questo ti ho perdonato.' Io dissi: 'Grazie ai miei viaggi per acquisire sapere e perché mi sono recato presso i devoti.' Egli disse: 'No.' Io dissi: 'O Signore, queste sono le opere che conducono alla salvezza, esse ho posto sopra di tutto e compiendole pensavo che grazie ad esse mi avresti perdonato.' Egli disse: 'Eppure non ti ho perdonato per tutte queste cose!' Io dissi: 'Perché allora, o Signore?' Lui disse: 'Ricordi quando camminando per le strade di Bagdad trovasti un gattino, che il freddo aveva reso debolissimo e che si muoveva da un muro all'altro per cercare riparo dal freddo e dalla neve e tu, preso da compassione, lo sollevasti e tenesti sotto la pelliccia che portavi, e così facendo lo proteggesti dal tormento del gelo?' Io dissi: 'Sì, lo ricordo.' Lui disse: 'Perché avesti pietà di quel gatto, per questo Io ho avuto pietà di te'"
[cit. in: Paul Watzlawick, DI BENE IN PEGGIO - Istruzioni per un successo catastrofico, Universale Economica - Saggi Feltrinelli]
mercoledì 18 marzo 2009
50 Euro
Paolo, con la faccia triste e abbattuta, si ritrovò con la sua amica Carla in un bar per prendere un caffè. Depresso, scaricò su di lei tutte le sue preoccupazioni... e il lavoro... e i soldi... e i rapporti con la sua ragazza...e la sua vocazione!...
Tutto sembrava andar male nella sua vita.
Carla introdusse la mano nella borsa, prese un biglietto da 50 EURO e gli disse:
Vuoi questo biglietto?
Paolo, un po' confuso, all'inizio le rispose:
Certo Carla... sono 50 EURO, chi non li vorrebbe?
Allora Carla prese il biglietto in una mano, lo strinse forte fino a farlo diventare una piccola pallina.
Mostrando la pallina accartocciata a Paolo, gli chiese un'altra volta:
E adesso, lo vuoi ancora?
- Carla, non so cosa intendi con questo, però continuano ad essere 50 EURO.
Certo che lo prenderò anche così, se me lo dai.
Carla spiegò il biglietto, lo gettò al suolo e lo stropicciò
ulteriormente con il piede, riprendendolo quindi sporco e segnato.
- Continui a volerlo?
- Ascolta Carla, continuo a non capire dove vuoi arrivare, rimane comunque un biglietto da 50 EURO, e finchè non lo rompi, conserva il suo valore....
- Paolo, devi sapere che anche se a volte qualcosa non esce come vuoi, anche se la vita ti piega o accartoccia, continui a essere tanto importante come lo sei stato sempre...
Quello che devi chiederti è quanto vali in realtà, e non quanto puoi essere abbattuto in un particolare momento.
Paolo si paralizzò guardando Carla senza dire una parola, mentre l'impatto del messaggio entrava profondamente nella sua testa.
Carla mise il biglietto spiegazzato di fianco a lui, sul tavolo, e con un sorriso complice disse:
- Prendilo, ritiralo perchè ti ricordi di questo momento quando ti senti male... però mi devi un biglietto nuovo da 50 EURO per poterlo usare con il prossimo amico che ne abbia bisogno.
Gli diede un bacio sulla guancia e si allontanò verso la porta.
Paolo tornò a guardare il biglietto, sorrise, lo guardò e con una nuova energia chiamò il cameriere per pagare il conto...
Quante volte dubitiamo del nostro valore, di cosa meritiamo veramente e che possiamo conseguirlo se ce lo promettiamo?
Certo che non basta con il solo proposito... Si richiede azione ed esistono molte strade da seguire.
Tutto sembrava andar male nella sua vita.
Carla introdusse la mano nella borsa, prese un biglietto da 50 EURO e gli disse:
Vuoi questo biglietto?
Paolo, un po' confuso, all'inizio le rispose:
Certo Carla... sono 50 EURO, chi non li vorrebbe?
Allora Carla prese il biglietto in una mano, lo strinse forte fino a farlo diventare una piccola pallina.
Mostrando la pallina accartocciata a Paolo, gli chiese un'altra volta:
E adesso, lo vuoi ancora?
- Carla, non so cosa intendi con questo, però continuano ad essere 50 EURO.
Certo che lo prenderò anche così, se me lo dai.
Carla spiegò il biglietto, lo gettò al suolo e lo stropicciò
ulteriormente con il piede, riprendendolo quindi sporco e segnato.
- Continui a volerlo?
- Ascolta Carla, continuo a non capire dove vuoi arrivare, rimane comunque un biglietto da 50 EURO, e finchè non lo rompi, conserva il suo valore....
- Paolo, devi sapere che anche se a volte qualcosa non esce come vuoi, anche se la vita ti piega o accartoccia, continui a essere tanto importante come lo sei stato sempre...
Quello che devi chiederti è quanto vali in realtà, e non quanto puoi essere abbattuto in un particolare momento.
Paolo si paralizzò guardando Carla senza dire una parola, mentre l'impatto del messaggio entrava profondamente nella sua testa.
Carla mise il biglietto spiegazzato di fianco a lui, sul tavolo, e con un sorriso complice disse:
- Prendilo, ritiralo perchè ti ricordi di questo momento quando ti senti male... però mi devi un biglietto nuovo da 50 EURO per poterlo usare con il prossimo amico che ne abbia bisogno.
Gli diede un bacio sulla guancia e si allontanò verso la porta.
Paolo tornò a guardare il biglietto, sorrise, lo guardò e con una nuova energia chiamò il cameriere per pagare il conto...
Quante volte dubitiamo del nostro valore, di cosa meritiamo veramente e che possiamo conseguirlo se ce lo promettiamo?
Certo che non basta con il solo proposito... Si richiede azione ed esistono molte strade da seguire.
Diogene e il rifiuto
Trovarono un giorno Diogene con la mano tesa davanti a una statua come se chiedesse l'elemosina. Gli domandarono che cosa stesse facendo. "Chiedo l'elemosina a una statua - rispose - per abituarmi ai rifiuti!".
É importante allenarsi - come faceva Diogene - al rifiuto perché la vita non è un cammino su un tappeto di fiori. Ci si scontra con la grettezza e l'egoismo o anche col rifiuto motivato ed è giusto non abbattersi ma continuare a lottare e a impegnarsi. C'è, dunque, un tempo in cui ci si imbatte nella porta chiusa e un tempo in cui quella porta si aprirà. La sapienza è esser capace di seguire i ritmi della vita.
É importante allenarsi - come faceva Diogene - al rifiuto perché la vita non è un cammino su un tappeto di fiori. Ci si scontra con la grettezza e l'egoismo o anche col rifiuto motivato ed è giusto non abbattersi ma continuare a lottare e a impegnarsi. C'è, dunque, un tempo in cui ci si imbatte nella porta chiusa e un tempo in cui quella porta si aprirà. La sapienza è esser capace di seguire i ritmi della vita.
Paraolimpiadi
Qualche anno fa, alle paraolimpiadi di Seattle, nove atleti, tutti mentalmente o fisicamente disabili erano pronti sulla linea di partenza dei 100 metri. Allo sparo della pistola, iniziarono la gara, non tutti correndo, ma con la voglia di arrivare e vincere. Mentre correvano, un piccolo ragazzino cadde sull'asfalto, fece un paio di capriole e cominciò a piangere. Gli altri otto sentirono il ragazzino piangere. Rallentarono e guardarono indietro. Si fermarono e tornarono indietro.. ciascuno di loro. Una ragazza con la sindrome di Down si sedette accanto a lui e cominciò a baciarlo e a dire: "Adesso stai meglio?" Allora, tutti e nove si abbracciarono e camminarono verso la linea del traguardo. Tutti nello stadio si alzarono e gli applausi andarono avanti per parecchi minuti. Persone che erano presenti raccontano ancora la storia.
Perché?
Perché dentro di noi sappiamo che:
La cosa importante nella vita va oltre il vincere per se stessi.
La cosa importante in questa vita è aiutare gli altri a vincere, anche se comporta rallentare e cambiare la nostra corsa, perchè è importante vincere insieme!
Perché?
Perché dentro di noi sappiamo che:
La cosa importante nella vita va oltre il vincere per se stessi.
La cosa importante in questa vita è aiutare gli altri a vincere, anche se comporta rallentare e cambiare la nostra corsa, perchè è importante vincere insieme!
Ci impegnamo
Ci impegniamo,
noi e non gli altri
unicamente noi e non gli altri,
né chi sta in basso, né chi sta in alto,
né chi crede, né chi non crede.
Ci impegniamo,
senza pretendere che altri si impegni
con noi o per suo conto,
come noi o in altro modo;
Ci impegniamo
senza giudicare chi non si impegna,
senza accusare chi non si impegna
senza condannare chi non si impegna,
senza cercare perché non si impegna.
senza disimpegnarci perché altri non si impegna.
Sappiamo di non poter nulla su alcuno,
ne' vogliamo forzare la mano ad alcuno,
devoti come siamo e come intendiamo
essere al libero movimento di ogni spirito
più che al successo di noi stessi o dei nostri convincimenti.
Noi non possiamo nulla sul nostro mondo,
su questa realtà che è il nostro mondo di fuori,
poveri come siamo e come intendiamo rimanere, - e senza nome.
Se qualcosa sentiamo di potere – e lo vogliamo fermamente –
è su di noi, soltanto su di noi.
Il mondo si muove se noi ci muoviamo,
si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo
se alcuno si fa nuova creatura,
imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi.
L'ordine nuovo incomincia
se alcuno si sforza di divenire uomo nuovo.
La primavera comincia con il primo fiore,
la notte con la prima stella,
il fiume con la prima goccia d’acqua,
l’amore con il primo sogno.
Ci impegnamo per trovare un senso alla vita,
a questa vita, alla nostra vita;
una ragione che non sia una delle tante ragioni
che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore;
un utile che non sia una delle solite trappole
generosamente offerte da chi la sa lunga.
Si vive una sola volta e non vogliamo essere “giocati”,
in nome di qualche piccolo interesse.
Non ci interessa la carriera,
non ci interessa il denaro,
non ci interessa la donna
se ce la presentano come femmina soltanto.
Non ci interessa il successo
né di noi stessi, né delle nostre idee.
Non ci interessa passare alla storia.
Abbiamo il cuore giovane
e ci fa paura il freddo della carta e dei marmi.
Ci interessa perderci per qualcosa e per qualcuno
che rimarrà anche dopo che noi saremo passati
e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci.
Ci interessa portare un destino eterno nel tempo,
sentirci responsabili di tutto e di tutti,
ci interessa avviarci all’Amore.
Ci impegniamo non per riordinare il mondo,
non per rifarlo su misura;
ma per amarlo.
Per amare anche quello che non possiamo accettare,
anche quello che non è amabile,
anche quello che pare rifiutarsi all'amore,
poiché dietro ogni volto e sotto ogni errore
c'è insieme una grande sete d'amore:
il volto ed il cuore dell'Amore.
Perché noi crediamo all'Amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta per impegnarci perdutamente.
Don Primo Mazzolari (1890 - 1959), prete, scrittore e partigiano italiano
noi e non gli altri
unicamente noi e non gli altri,
né chi sta in basso, né chi sta in alto,
né chi crede, né chi non crede.
Ci impegniamo,
senza pretendere che altri si impegni
con noi o per suo conto,
come noi o in altro modo;
Ci impegniamo
senza giudicare chi non si impegna,
senza accusare chi non si impegna
senza condannare chi non si impegna,
senza cercare perché non si impegna.
senza disimpegnarci perché altri non si impegna.
Sappiamo di non poter nulla su alcuno,
ne' vogliamo forzare la mano ad alcuno,
devoti come siamo e come intendiamo
essere al libero movimento di ogni spirito
più che al successo di noi stessi o dei nostri convincimenti.
Noi non possiamo nulla sul nostro mondo,
su questa realtà che è il nostro mondo di fuori,
poveri come siamo e come intendiamo rimanere, - e senza nome.
Se qualcosa sentiamo di potere – e lo vogliamo fermamente –
è su di noi, soltanto su di noi.
Il mondo si muove se noi ci muoviamo,
si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo
se alcuno si fa nuova creatura,
imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi.
L'ordine nuovo incomincia
se alcuno si sforza di divenire uomo nuovo.
La primavera comincia con il primo fiore,
la notte con la prima stella,
il fiume con la prima goccia d’acqua,
l’amore con il primo sogno.
Ci impegnamo per trovare un senso alla vita,
a questa vita, alla nostra vita;
una ragione che non sia una delle tante ragioni
che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore;
un utile che non sia una delle solite trappole
generosamente offerte da chi la sa lunga.
Si vive una sola volta e non vogliamo essere “giocati”,
in nome di qualche piccolo interesse.
Non ci interessa la carriera,
non ci interessa il denaro,
non ci interessa la donna
se ce la presentano come femmina soltanto.
Non ci interessa il successo
né di noi stessi, né delle nostre idee.
Non ci interessa passare alla storia.
Abbiamo il cuore giovane
e ci fa paura il freddo della carta e dei marmi.
Ci interessa perderci per qualcosa e per qualcuno
che rimarrà anche dopo che noi saremo passati
e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci.
Ci interessa portare un destino eterno nel tempo,
sentirci responsabili di tutto e di tutti,
ci interessa avviarci all’Amore.
Ci impegniamo non per riordinare il mondo,
non per rifarlo su misura;
ma per amarlo.
Per amare anche quello che non possiamo accettare,
anche quello che non è amabile,
anche quello che pare rifiutarsi all'amore,
poiché dietro ogni volto e sotto ogni errore
c'è insieme una grande sete d'amore:
il volto ed il cuore dell'Amore.
Perché noi crediamo all'Amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta per impegnarci perdutamente.
Don Primo Mazzolari (1890 - 1959), prete, scrittore e partigiano italiano
Ma l'amore non è una malattia
L'amore non è una malattia.
È la più benefica e universale e santa di tutte le forze naturali, per la quale l'uomo può evadere dalla clausura dell'io per donarsi, può rompere il bozzolo angusto dell'egoismo per prendere contatto con le cose e con gli uomini, in comunione di gaudio e di dolore con essi e infine può diventare fonte viva e luminosa di altre vite nel mondo.
Don Carlo Gnocchi (1902 - 1956), presbitero, educatore, attivista e scrittore italiano, Beato
È la più benefica e universale e santa di tutte le forze naturali, per la quale l'uomo può evadere dalla clausura dell'io per donarsi, può rompere il bozzolo angusto dell'egoismo per prendere contatto con le cose e con gli uomini, in comunione di gaudio e di dolore con essi e infine può diventare fonte viva e luminosa di altre vite nel mondo.
[Da: "Educazione del cuore" ]
Un mistero
La vocazione sacerdotale è un mistero.
È il mistero di un meraviglioso scambio tra Dio e l'uomo [...].
Se non si coglie il mistero di questo scambio, non si riesce a capire come possa avvenire che un giovane, ascoltando la parola "Seguimi!", giunga a rinunciare a tutto per Cristo, nella certezza che per questa strada la sua personalità umana si realizzerà pienamente".
È il mistero di un meraviglioso scambio tra Dio e l'uomo [...].
Se non si coglie il mistero di questo scambio, non si riesce a capire come possa avvenire che un giovane, ascoltando la parola "Seguimi!", giunga a rinunciare a tutto per Cristo, nella certezza che per questa strada la sua personalità umana si realizzerà pienamente".
[ Da: Dono e Mistero ]
Giovanni Paolo II (Karol Jozef Wojtyla), papa (1920 - 2005)
Un dialogo vero
Credo, nonostante tutto, che in quest'ora i popoli possano entrare in un dialogo, in un dialogo vero.
Un vero dialogo avviene quando l'intercultore vede nell'altro, anche quando gli si contrappone, un altro esistente, e lo approva e lo conferma come tale.
Solo così il contrasto potrà esser non eliminato, ma perlomeno, umanamente definito e superato. Il vivere insieme, da uomo a uomo, può accadere soltanto laddove gli uomini sperimentano insieme, discutono insieme e amministrano insieme gli aspetti più veri della loro vita in comune.
Martin Buber (1878 - 1965), filosofo, teologo, pedagogista austriaco
Un vero dialogo avviene quando l'intercultore vede nell'altro, anche quando gli si contrappone, un altro esistente, e lo approva e lo conferma come tale.
Solo così il contrasto potrà esser non eliminato, ma perlomeno, umanamente definito e superato. Il vivere insieme, da uomo a uomo, può accadere soltanto laddove gli uomini sperimentano insieme, discutono insieme e amministrano insieme gli aspetti più veri della loro vita in comune.
Martin Buber (1878 - 1965), filosofo, teologo, pedagogista austriaco
Se dimentichi Cristo hai perso tutto
Se ci siamo incontrati e mi hai dimenticato,
non hai perso nulla...
Ma se incontri Gesù Cristo
e lo dimentichi, hai perso tutto!
Francesco di Paola, santo, religioso (1416 - 1507)
non hai perso nulla...
Ma se incontri Gesù Cristo
e lo dimentichi, hai perso tutto!
Francesco di Paola, santo, religioso (1416 - 1507)
L'obiettivo della vita
L'obiettivo della vita non è quello di vivere senza ansie, ma quello di vivere decorosamente e non essere una nullità e la zavorra del proprio paese. Se nasci in periodo burrascoso della vita storica del tuo paese e anche di tutto il mondo, se sono in gioco problemi mondiali, ciò, certamente, è difficile, richiede sforzi e sofferenze; ma proprio allora devi dimostrare che sei un uomo e manifestare la tua dignità.
Pavel Florenskij, prete, filosofo e matematico russo (1882-1937)
Pavel Florenskij, prete, filosofo e matematico russo (1882-1937)
Se, anche Dio ama la notte...
Dono del tempo, segno dell’amore.
Tanti ragazzi rischiano di buttare via il tempo, frammentati in attività e occupazioni insignificanti. Corrono per risparmiare il tempo e, quando ce l'hanno, non sanno come fare per ammazzarlo! In molti Paesi africani si suol dire: "Quando Dio creò il tempo, ne creò tanto". Questa affermazione non vuole giustificare la perdita di tempo, bensì sottolineare che esso va regalato agli amici.La Bibbia, parlando di Giobbe, per far capire che il Signore lo ricompensò per avere superato egregiamente tante prove, tanto dolore, afferma: "Lo saziò di giorni". Cioè aggiunse giorni a giorni, affinché potesse godere fino in fondo la vita, anche nella vecchiaia. Ciò significa che i nostri giorni vanno vissuti bene, il tempo va speso con intelligenza e amore, perché non torna indietro. Se si riscrivesse la Bibbia, anche Dio si aggiornerebbe: "Lo saziò di giorni e di notti"... É un privilegio svegliarsi ogni mattina col sorriso sulle labbra al pensiero: "Anche oggi potrò amare, capire, lodare, sognare, stare con gli amici, ricevere e dare felicità". E cos'è la felicità se non sentirsi bene nello scorrere delle ore, assieme a persone che vogliono vivere il tempo come grazia e come vita? Vita che è tale solo quando si sperimenta di amare e di essere amati.
Se, poi, uno ha anche il privilegio di credere nella vita eterna, allora non vive l'effimero istante presente con angoscia, perché tutto è preludio dell'eternità. Là, ogni gesto d'amore sarà sublimato: lo sguardo, la carezza, la parola usata non per passare il tempo, ma come dono, saranno scritti nel libro della vita, che non conosce banalità, ma solo gli eccessi dell'amore.
Tanti ragazzi rischiano di buttare via il tempo, frammentati in attività e occupazioni insignificanti. Corrono per risparmiare il tempo e, quando ce l'hanno, non sanno come fare per ammazzarlo! In molti Paesi africani si suol dire: "Quando Dio creò il tempo, ne creò tanto". Questa affermazione non vuole giustificare la perdita di tempo, bensì sottolineare che esso va regalato agli amici.La Bibbia, parlando di Giobbe, per far capire che il Signore lo ricompensò per avere superato egregiamente tante prove, tanto dolore, afferma: "Lo saziò di giorni". Cioè aggiunse giorni a giorni, affinché potesse godere fino in fondo la vita, anche nella vecchiaia. Ciò significa che i nostri giorni vanno vissuti bene, il tempo va speso con intelligenza e amore, perché non torna indietro. Se si riscrivesse la Bibbia, anche Dio si aggiornerebbe: "Lo saziò di giorni e di notti"... É un privilegio svegliarsi ogni mattina col sorriso sulle labbra al pensiero: "Anche oggi potrò amare, capire, lodare, sognare, stare con gli amici, ricevere e dare felicità". E cos'è la felicità se non sentirsi bene nello scorrere delle ore, assieme a persone che vogliono vivere il tempo come grazia e come vita? Vita che è tale solo quando si sperimenta di amare e di essere amati.
Se, poi, uno ha anche il privilegio di credere nella vita eterna, allora non vive l'effimero istante presente con angoscia, perché tutto è preludio dell'eternità. Là, ogni gesto d'amore sarà sublimato: lo sguardo, la carezza, la parola usata non per passare il tempo, ma come dono, saranno scritti nel libro della vita, che non conosce banalità, ma solo gli eccessi dell'amore.
[ Da: V. Savoldi, Anche Dio ama la notte, Brescia, Ed. Queriniana, 2001, p. 86 (Lettere ai giovani, 6) ]
Valentino Savoldi
Quando finisce la notte
Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno. "Forse da quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?". "No", disse il rabbino. "Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?". "No", ripeté il rabbino. "Ma quand'è, allora?", domandarono gli allievi. Il rabbino rispose: "É quando guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci un fratello o una sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore".
Quando il sacerdote sale all’altare
Quando il sacerdote sale all’altare,
porta se stesso e tutti quelli che ha incontrato.
Con lui salgono davanti a Dio
quelli che, lo sappiano o no, cercano la verità, la vita.
Pur essendo uomo è un grande:
c’è in tutto questo un mistero
che non capirà mai abbastanza,
ma sicuramente spesso potrà dire: “grazie”!
porta se stesso e tutti quelli che ha incontrato.
Con lui salgono davanti a Dio
quelli che, lo sappiano o no, cercano la verità, la vita.
Pur essendo uomo è un grande:
c’è in tutto questo un mistero
che non capirà mai abbastanza,
ma sicuramente spesso potrà dire: “grazie”!
martedì 17 marzo 2009
Tutto quello che voglio
Tutto quello che voglio, Gesù,
è abbandonare sempre più
ogni cosa a te.
Più vado avanti,
e più mi rendo conto
di non saper dove io stia andando.
Guidami e assumi
il pieno controllo di me.
Thomas Merton, monaco e scrittore statunitense (1915 - 1968)
è abbandonare sempre più
ogni cosa a te.
Più vado avanti,
e più mi rendo conto
di non saper dove io stia andando.
Guidami e assumi
il pieno controllo di me.
Thomas Merton, monaco e scrittore statunitense (1915 - 1968)
L'incantatore morso dal serpente
Grida il saggio:
"chi avrà compassione di un incantatore morso da un serpente?"
E io grido con lui: "pazzo e insensato, pensavi di domare l'amore per dosarlo a tuo piacimento!
Volevi divertirti con lui, ma egli ti ha punto e morso profondamente.
Sai cosa dirà la gente?
Rideranno di te perchè hai voluto incantare l'amore".
E io grido con lui: "pazzo e insensato, pensavi di domare l'amore per dosarlo a tuo piacimento!
Volevi divertirti con lui, ma egli ti ha punto e morso profondamente.
Sai cosa dirà la gente?
Rideranno di te perchè hai voluto incantare l'amore".
[Da: Filotea ]
Francesco di Sales, santo, vescovo, (1567 - 1622)
La rana e lo scorpione
Una rana stava serenamente sguazzando in un fiume quando ad una sponda si avvicinò uno scorpione. "Devo passare dall'altra parte" disse "ma non so come fare, io non so nuotare e se provo affogherò. Tu potresti aiutarmi trasportandomi sul tuo dorso, te ne sarei molto grato".
La rana perplessa rispose: "Ma se io ti lascio salire sul mio dorso tu potresti pungermi ed uccidermi!". Lo scorpione rassicurò la rana: "Non ti preoccupare, perchè dovrei farlo, se ti pungessi morirei anch'io perchè affogheremmo entrambi nel fondo".
La rana si sentì rassicurata dalle spiegazioni dello scorpione e lo fece salire. Quando furono a metà del fiume, lo scorpione punse la rana. La rana stupita dal gesto dello scorpione mentre stava affondando insieme a lui trovò la forza di chiedergli: "Ma perchè l'hai fatto adesso moriremo entrambi?" Lo scorpione rispose "Non ho potuto farne a meno, questa è la mia natura".
Fiaba americana
La rana perplessa rispose: "Ma se io ti lascio salire sul mio dorso tu potresti pungermi ed uccidermi!". Lo scorpione rassicurò la rana: "Non ti preoccupare, perchè dovrei farlo, se ti pungessi morirei anch'io perchè affogheremmo entrambi nel fondo".
La rana si sentì rassicurata dalle spiegazioni dello scorpione e lo fece salire. Quando furono a metà del fiume, lo scorpione punse la rana. La rana stupita dal gesto dello scorpione mentre stava affondando insieme a lui trovò la forza di chiedergli: "Ma perchè l'hai fatto adesso moriremo entrambi?" Lo scorpione rispose "Non ho potuto farne a meno, questa è la mia natura".
Fiaba americana
Cominciare da se stessi
Alcune persone eminenti di Israele erano un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde sull'importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa. «Tutto volge al bene, dicevano, se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava». Ma Rabbi Isacco non condivideva l'opinione generale. «Ero anch'io dello stesso avviso, disse, finché il mio maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da giovani, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. "Perché ti rivolgi a me? - rispose -Rivolgiti a te stesso!". Dovetti riflettere a lungo su queste parole prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole del Baal-Shem: "Ci sono il pensiero, la parola e l'azione. Il pensiero corrisponde alla moglie, la parola ai figli, l'azione ai servitori. Tutto si volgerà al bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito". Allora compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me».
da: II cammino dell'uomo
Martin Buber (1878 - 1965), filosofo, teologo, pedagogista austriaco
Matilde e la ricotta
C'era una volta una citta chiamata Metilde, che non aveva da mangiare. Dice così — È meglio ch'io vada da quel contadinaccio per vedere se mi da una ricottina; quando me l'ha data, io vado alla città e la vendo.
Va da questo contadino, e lui gli da una ricottina. Quando ha preso la ricottina, fa una corollina di felce e se la mette in capo. Quando è per la strada, pensa: — Ora vado alla città, vendo la ricotta e piglio due soldi. Con questi soldi comprerò due ova; queste ova le metterò sotto la chioccia, e nascerà du' pulcini: poi di questi pulcini farò due bei pollastri, due polli grossi grossi. Quando li avrò fatti grossi, li venderò, e comprerò una agnellina. Dopo, l'agnellina mi figlierà, e mi farà due agnellini; li farò belli grossi grossi: comprerò una vitellina; questa vitellina, quando sarà fatta grossa, la venderò e comprerò due vitelli. Quando questi due vitelli saranno fatti grossi, li venderò e mi farò una bella casina; in questa casina ci sarà un bel terrazzino, mi ci metterò a sedere, e la gente che passeranno mi diranno: «Signora Metilde... E qui lei fece una riverenza... e la ricotta schizzò in mezzo alla strada.
Va da questo contadino, e lui gli da una ricottina. Quando ha preso la ricottina, fa una corollina di felce e se la mette in capo. Quando è per la strada, pensa: — Ora vado alla città, vendo la ricotta e piglio due soldi. Con questi soldi comprerò due ova; queste ova le metterò sotto la chioccia, e nascerà du' pulcini: poi di questi pulcini farò due bei pollastri, due polli grossi grossi. Quando li avrò fatti grossi, li venderò, e comprerò una agnellina. Dopo, l'agnellina mi figlierà, e mi farà due agnellini; li farò belli grossi grossi: comprerò una vitellina; questa vitellina, quando sarà fatta grossa, la venderò e comprerò due vitelli. Quando questi due vitelli saranno fatti grossi, li venderò e mi farò una bella casina; in questa casina ci sarà un bel terrazzino, mi ci metterò a sedere, e la gente che passeranno mi diranno: «Signora Metilde... E qui lei fece una riverenza... e la ricotta schizzò in mezzo alla strada.
[ Da: G. Lipparini, L'idioma d'Italia, Milano [1933] Ed. Signorelli, vol. II, p. 115 ]
Giuseppe Pitrè, scrittore (1841 - 1916)
lunedì 16 marzo 2009
Signore e sovrano della mia vita
Signore e sovrano della mia vita,
non mi lasciare in balia
dello spirito dell'ozio,
della leggerezza, della superbia
e della loquacità.
Concedi invece al tuo servo
Spirito di prudenza, di umiltà,
di pazienza e di carità.
Sì, o sovrano Signore,
fa' che io veda le mie colpe,
e che non condanni il mio fratello,
perché Tu solo sei benedetto
nei secoli dei secoli.
Amen
Efrem il Siro, santo, teologo, poeta (306 - 373)
non mi lasciare in balia
dello spirito dell'ozio,
della leggerezza, della superbia
e della loquacità.
Concedi invece al tuo servo
Spirito di prudenza, di umiltà,
di pazienza e di carità.
Sì, o sovrano Signore,
fa' che io veda le mie colpe,
e che non condanni il mio fratello,
perché Tu solo sei benedetto
nei secoli dei secoli.
Amen
Efrem il Siro, santo, teologo, poeta (306 - 373)
Si è sempre contestato!
«II mondo sta attraversando un periodo tormentato. La gioventù di oggi non pensa più a niente, pensa solo a se stessa, non ha più rispetto per i genitori e per i vecchi; i giovani sono intolleranti di ogni freno, parlano come se sapessero tutto. Quello che noi credevamo sapiente, loro lo credono stupido. Le ragazze poi sono stupide, vuote e sciocche, immodeste e senza dignità nel parlare, nel vestire e nel vivere».
[ Parole enunciate da Pier l'Eremita nel 1095 durante la predicazione della prima crociata ]
Pier l'Eremita (Pietro d'Amiens), monaco (1050 - 1115)
Decalogo della bontà
- Essere buono
è dimenticare se stessi per pensare agli altri.
- Essere buono
è perdonare pensando che la miseria umana è più grande della cattiveria.
- Essere buono
è avere pietà della debolezza altrui pensando che noi non siamo diversi dagli altri e nelle loro condizioni forse saremmo peggiori.
- Essere buono
è chiudere gli occhi davanti all'ingratitudine.
- Essere buono
è dare anche quando non si riceve, sorridendo a chi non comprende o non apprezza la nostra generosità.
- Essere buono
è sacrificarsi aggiungendo al peso delle nostre pene di ogni giorno quello delle pene altrui.
- Essere buono
è tenere ben stretto il proprio cuore per riuscire a soffocare le sofferenze e sorridere costantemente.
- Essere buono
è accettare il fatto poco simpatico che più doneremo più ci sarà domandato.
- Essere buono
è acconsentire a non avere più nulla riservato a se stessi tranne la gioia della coscienza pura.
- Essere buono
è riconoscere con semplicità che davvero buono è solo Dio.
Giovanni XXIII / Angelo Giuseppe Roncalli (1881 - 1963), santo, papa
è dimenticare se stessi per pensare agli altri.
- Essere buono
è perdonare pensando che la miseria umana è più grande della cattiveria.
- Essere buono
è avere pietà della debolezza altrui pensando che noi non siamo diversi dagli altri e nelle loro condizioni forse saremmo peggiori.
- Essere buono
è chiudere gli occhi davanti all'ingratitudine.
- Essere buono
è dare anche quando non si riceve, sorridendo a chi non comprende o non apprezza la nostra generosità.
- Essere buono
è sacrificarsi aggiungendo al peso delle nostre pene di ogni giorno quello delle pene altrui.
- Essere buono
è tenere ben stretto il proprio cuore per riuscire a soffocare le sofferenze e sorridere costantemente.
- Essere buono
è accettare il fatto poco simpatico che più doneremo più ci sarà domandato.
- Essere buono
è acconsentire a non avere più nulla riservato a se stessi tranne la gioia della coscienza pura.
- Essere buono
è riconoscere con semplicità che davvero buono è solo Dio.
Giovanni XXIII / Angelo Giuseppe Roncalli (1881 - 1963), santo, papa
domenica 15 marzo 2009
Che il mio cuore sia più grande
Che il mio cuore sia più grande, Signore,
sempre più grande, più ampio e più aperto!
Che il mio cuore sia più grande per accogliere il tuo in tutta la sua grandezza, e ricevere l'amore immenso, generoso, di cui vuoi colmarlo!
Che il mio cuore sia più grande di tutti i miei pensieri, di tutti i miei giudizi, e che sia liberato da tutti i pregiudizi. che l'opprimono!
Che il mio cuore sia più grande di tutti i miei dolori, di tutte le mie fatiche: che diventi più forte riposando in te nonostante le sue debolezze!
Che il mio cuore sia più grande di tutte le offese, di tutte le ingiustizie: che sappia perdonare e amare ancor più quando si sente ferito.
Che il mio cuore sia più grande di tutte le tristezze, di tutte le delusioni; che conservi una speranza tenace, una gioia invincibile!
Che il mio cuore sia più grande per abbracciare il mondo con la tua carità, per amare tutti gli uomini e per testimoniare loro la tua bontà senza limiti!
sempre più grande, più ampio e più aperto!
Che il mio cuore sia più grande per accogliere il tuo in tutta la sua grandezza, e ricevere l'amore immenso, generoso, di cui vuoi colmarlo!
Che il mio cuore sia più grande di tutti i miei pensieri, di tutti i miei giudizi, e che sia liberato da tutti i pregiudizi. che l'opprimono!
Che il mio cuore sia più grande di tutti i miei dolori, di tutte le mie fatiche: che diventi più forte riposando in te nonostante le sue debolezze!
Che il mio cuore sia più grande di tutte le offese, di tutte le ingiustizie: che sappia perdonare e amare ancor più quando si sente ferito.
Che il mio cuore sia più grande di tutte le tristezze, di tutte le delusioni; che conservi una speranza tenace, una gioia invincibile!
Che il mio cuore sia più grande per abbracciare il mondo con la tua carità, per amare tutti gli uomini e per testimoniare loro la tua bontà senza limiti!
[da “Amarti senza vederti, 1976”]
Jean Galot, Gesuita, Teologo (1919 – 2008)
Il silenzio di Dio
Il tuo silenzio, o Dio, lo leggo sui volti, lo sento per le strade, lo vedo nella vita.
Sono il dubbio e nessuno mi illumina.
Sono l'arsura e nessuno mi placa.
Sono il dolore e nessuno mi ascolta.
E' piu tremenda della notte la tua assenza.
Tu taci quando nego l'amore, taci quando non voglio donarmi, taci e io mi sento solo.
Tu mi conosci, sono io che ho bisogno di parlarti.
Tu mi ami, sono io che ho bisogno di credere al tuo amore.
Tu mi senti e mi prendi per mano, mi porti dove è la vita, mi dai certezza nel dubbio, coraggio nel deserto, sicurezza nel vivere.
Ti ringrazio, perché mi parli nel silenzio.
Sono il dubbio e nessuno mi illumina.
Sono l'arsura e nessuno mi placa.
Sono il dolore e nessuno mi ascolta.
E' piu tremenda della notte la tua assenza.
Tu taci quando nego l'amore, taci quando non voglio donarmi, taci e io mi sento solo.
Tu mi conosci, sono io che ho bisogno di parlarti.
Tu mi ami, sono io che ho bisogno di credere al tuo amore.
Tu mi senti e mi prendi per mano, mi porti dove è la vita, mi dai certezza nel dubbio, coraggio nel deserto, sicurezza nel vivere.
Ti ringrazio, perché mi parli nel silenzio.
sabato 14 marzo 2009
Come nacque il deserto
Molti secoli fa, che ci crediate o no, la terra era verde e fresca, migliaia di ruscelli la percorrevano, gli alberi erano ricchi d'ogni genere di frutta e gli uomini, che ignoravano il male, vivevano felici senza farsi la guerra. Dio aveva detto agli uomini: "Questo bel giardino è vostro e vostri sono i suoi frutti, dovete però sempre agire con giustizia, altrimenti lascerò cadere un granello di sabbia sulla terra per ogni vostra azione malvagia e un giorno tutto questo verde e tutta questa frescura potrebbero anche sparire. Per molto tempo tutti si ricordarono di questo monito, ma un brutto giorno due uomini litigarono per il possesso di un cammello e appena la prima parolaccia fu pronunziata Dio fece cadere sulla terra un granello di sabbia così minuscolo che nessuno se ne accorse. Ben presto i due litiganti dopo le parole vennero alle mani e gli uomini si accorsero che un mucchietto di sabbia stava crescendo lentamente. Chiesero allora ad Dio di cosa si trattasse e Dio rispose che era il frutto della loro cattiveria e che ogni volta si fosse verificata una cattiva azione, un granello di sabbia sarebbe sceso ad aggiungersi agli altri e forse un giorno la sabbia avrebbe coperto la terra. Gli uomini si misero a ridere e pensarono: "Anche se fossimo estremamente malvagi ci vorrebbero milioni e milioni di anni prima che questa polvere leggera copra la nostra terra e ci possa danneggiare. Così iniziarono a combattersi gli uni contro gli altri, tribù contro tribù finché la sabbia seppellì campi e pascoli, cancellò i ruscelli e spinse le bestie lontano in cerca di cibo. In questo modo fu creato il deserto e da allora le tribù andarono vagando tra le dune, vivendo in tende, aiutate solo dai cammelli per i lunghi spostamenti, e si portarono nel cuore l'immagine delle terra perduta. Anzi, perché non dimenticassero, Dio volle che ogni tanto si presentasse ai loro occhi l'immagine delle piante e delle acque scomparse. Per questo ogni tanto chi cammina nel deserto, vede cose che non ci sono tende le braccia per toccarle, ma la visione subito svanisce. Sono come i sogni ad occhi ad aperti e la gente li chiama miraggi. Solo dove gli uomini hanno osservato le leggi di Dio ci sono ancora ruscelli e palmeti, e la sabbia non può cancellarli ma li circonda come il mare l'isola. Questi luoghi si chiamano oasi e là gli uomini si fermano per trovare acqua, cibo, riposo ricordando ogni volta le parole di Dio: "Non trasformate il mio mondo verde in un deserto infinito".
Racconto arabo
Racconto arabo
...come se il Paradiso fosse sulla Terra
Se si potesse ridurre la popolazione del Mondo intero a un villaggio di 100 persone mantenendo le proporzioni di tutti i popoli esistenti al Mondo, tale villaggio sarebbe composto in questo modo:
· 57 Asiatici
· 21 Europei
· 14 Americani (Nord Centro e Sud America)
· 8 Africani
Ci sarebbero:
· 52 donne e 48 uomini
· 30 bianchi e 70 non bianchi
· 30 cristiani e 70 non cristiani
· 79 eterosessuali e 11 omosessuali
· 6 persone possederebbero il 59% della ricchezza del Mondo intero e tutti e 6 sarebbero statunitensi
· 80 vivrebbero in case senza abitabilità
· 70 sarebbero analfabeti
· 50 soffrirebbero di malnutrizione
· 1 starebbe per morire
· 1 starebbe per nascere
· 1 possiederebbe un computer
· 1 (si, uno solo, avrebbe la laurea)
Se si considera il mondo da questa prospettiva, il bisogno di accettare e di capire diventa evidente.
Prendete in considerazione anche questo:
· Se vi siete svegliati questa mattina con più salute che malattia, siete più fortunati del milione di persone che non vedranno la prossima settimana.
· Se non avete mai provato il pericolo di una battaglia, la solitudine dell’imprigionamento, l’agonia della tortura, i morsi della fame, state meglio di 500 milionidi abitanti di questo Mondo.
· Se potete andare in chiesa senza la paura di essere minacciati, arrestati, torturati o uccisi, siete più fortunati di 3 miliardi di persone di questo Mondo.
Se avete del cibo nel frigorifero, dei vestiti addosso, un tetto sopra la testa e un posto per dormire, siete più ricchi del 75% degli abitanti del Mondo.
· Se avete soldi in banca, nel vostro portafoglio e degli spiccioli da qualche parte in una ciotola, fate parte dell’8% delle persone più benestanti al Mondo.
· Se i vostri genitori sono ancora vivi ed ancora sposati, siete delle persone veramente rare.
· Se potete leggere questo messaggio, avete appena ricevuto una doppia benedizione, perché qualcuno ha pensato a Voi e perchè non siete fra i due miliardi dipersone che non sanno leggere.
Lavora come se non avessi bisogno dei soldi.
Ama come se nessuno ti abbia mai fatto soffrire.
Balla come se nessuno ti stesse guardando.
Canta come se nessuno ti stesse sentendo.
Vivi come se il Paradiso fosse sulla Terra.
· 57 Asiatici
· 21 Europei
· 14 Americani (Nord Centro e Sud America)
· 8 Africani
Ci sarebbero:
· 52 donne e 48 uomini
· 30 bianchi e 70 non bianchi
· 30 cristiani e 70 non cristiani
· 79 eterosessuali e 11 omosessuali
· 6 persone possederebbero il 59% della ricchezza del Mondo intero e tutti e 6 sarebbero statunitensi
· 80 vivrebbero in case senza abitabilità
· 70 sarebbero analfabeti
· 50 soffrirebbero di malnutrizione
· 1 starebbe per morire
· 1 starebbe per nascere
· 1 possiederebbe un computer
· 1 (si, uno solo, avrebbe la laurea)
Se si considera il mondo da questa prospettiva, il bisogno di accettare e di capire diventa evidente.
Prendete in considerazione anche questo:
· Se vi siete svegliati questa mattina con più salute che malattia, siete più fortunati del milione di persone che non vedranno la prossima settimana.
· Se non avete mai provato il pericolo di una battaglia, la solitudine dell’imprigionamento, l’agonia della tortura, i morsi della fame, state meglio di 500 milionidi abitanti di questo Mondo.
· Se potete andare in chiesa senza la paura di essere minacciati, arrestati, torturati o uccisi, siete più fortunati di 3 miliardi di persone di questo Mondo.
Se avete del cibo nel frigorifero, dei vestiti addosso, un tetto sopra la testa e un posto per dormire, siete più ricchi del 75% degli abitanti del Mondo.
· Se avete soldi in banca, nel vostro portafoglio e degli spiccioli da qualche parte in una ciotola, fate parte dell’8% delle persone più benestanti al Mondo.
· Se i vostri genitori sono ancora vivi ed ancora sposati, siete delle persone veramente rare.
· Se potete leggere questo messaggio, avete appena ricevuto una doppia benedizione, perché qualcuno ha pensato a Voi e perchè non siete fra i due miliardi dipersone che non sanno leggere.
Lavora come se non avessi bisogno dei soldi.
Ama come se nessuno ti abbia mai fatto soffrire.
Balla come se nessuno ti stesse guardando.
Canta come se nessuno ti stesse sentendo.
Vivi come se il Paradiso fosse sulla Terra.
venerdì 13 marzo 2009
Non un errore ma un traguardo necessario
L'episodio di Lazzaro ci illumina proprio su questo: cos'è la morte, se non un errore?
Non direi che la morte è un errore, bensì un traguardo necessario. La morte è il compimento necessario del processo attraverso il quale diventiamo persone capaci di assumere una forma nuova e definitiva di esistenza. Come per il feto nel senso dalla madre, uscire da quella situazione e rompere il cordone ombelicale, non è un errore bensì una gioiosa necessità, anche se si presenta con il trauma della nascita e il pianto del primo respiro. Auguri di un gioioso cammino di fede verso la morte per la vita nuova.
Carlo Molari, Teologo (12. 09.02)
Non direi che la morte è un errore, bensì un traguardo necessario. La morte è il compimento necessario del processo attraverso il quale diventiamo persone capaci di assumere una forma nuova e definitiva di esistenza. Come per il feto nel senso dalla madre, uscire da quella situazione e rompere il cordone ombelicale, non è un errore bensì una gioiosa necessità, anche se si presenta con il trauma della nascita e il pianto del primo respiro. Auguri di un gioioso cammino di fede verso la morte per la vita nuova.
Carlo Molari, Teologo (12. 09.02)
Semina, semina...
Semina, semina,
l’importante è seminare,
un po’, molto, tutto il grano della speranza.
Semina la tua energia
la speranza di combattere la battaglia
quando sembra perduta.
Semina il coraggio per risollevare quello degli altri.
Semina il tuo entusiasmo per infiammare quello di tuo fratello.
Semina i tuoi desideri, la tua fiducia, la tua vita.
Semina tutto ciò che c’è di bello in te,
le più piccole cose, i nonnulla, semina e abbi fiducia.
Giovanni XXIII / Angelo Giuseppe Roncalli (1881 - 1963), santo, papa
Decalogo della quotidianità
Solo per oggi,
cercherò di vivere alla giornata senza voler risolvere i problemi della mia vita tutti in una volta.
Solo per oggi,
avrò la massima cura del mio aspetto: vestirò con sobrietà, non alzerò la voce, sarò cortese nei modi, non criticherò nessuno, non cercherò di migliorare o disciplinare nessuno tranne me stesso.
Solo per oggi,
sarò felice nella certezza che sono stato creato per essere felice non solo nell’altro mondo, ma anche in questo.
Solo per oggi,
mi adatterò alle circostanze, senza pretendere che le circostanze si adattino ai miei desideri.
cercherò di vivere alla giornata senza voler risolvere i problemi della mia vita tutti in una volta.
Solo per oggi,
avrò la massima cura del mio aspetto: vestirò con sobrietà, non alzerò la voce, sarò cortese nei modi, non criticherò nessuno, non cercherò di migliorare o disciplinare nessuno tranne me stesso.
Solo per oggi,
sarò felice nella certezza che sono stato creato per essere felice non solo nell’altro mondo, ma anche in questo.
Solo per oggi,
mi adatterò alle circostanze, senza pretendere che le circostanze si adattino ai miei desideri.
Solo per oggi,
dedicherò dieci minuti del mio tempo a sedere in silenzio ascoltando Dio, ricordando che come il cibo è necessario alla vita del corpo, così il silenzio e l’ascolto sono necessari alla vita dell’anima.
Solo per oggi,
compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno.
Solo per oggi,
compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno.
Solo per oggi, farò almeno una cosa che non desidero fare;
e se mi sentirò offeso nei miei sentimenti, farò in modo che nessuno se ne accorga.
Solo per oggi,
mi farò un programma: forse non lo seguirò perfettamente, ma lo farò.
E mi guarderò da due malanni: la fretta e l’indecisione.
Solo per oggi,
crederò fermamente, nonostante le apparenze, che la buona Provvidenza di Dio si occupa di me come se nessun altro esistesse al mondo.
Solo per oggi,
non avrò timori. In modo particolare non avrò paura di godere di ciò che è bello e di credere nella bontà.
Posso ben fare per dodici ore ciò che mi sgomenterebbe se pensassi di doverlo fare tutta la vita!
"A ciascun giorno basta la sua pena!" (Mt 6,34).
Giovanni XXIII / Angelo Giuseppe Roncalli (1881 - 1963), santo, papa
Preghiera a Cristo
"Gesù, sei ancora, ogni giorno, in mezzo a noi. E sarai con noi per sempre. Vivi tra noi, accanto a noi, sulla terra ch'è tua e nostra, su questa terra che ti accolse fanciullo tra i fanciulli e giustiziabile tra i ladri; vivi coi vivi, sulla terra dei viventi che ti piacque e che ami, vivi d'una vita non umana sulla terra degli uomini, forse invisibile anche a quelli che ti cercano, forse sotto l'aspetto d'un Povero che compra il suo pane da sé e nessuno lo guarda. Ma ora è giunto il tempo che devi riapparire a tutti noi e dare un segno perentorio e irrecusabile a questa generazione.
Tu vedi, Gesù, il nostro bisogno; tu vedi fino a che punto è grande il nostro grande bisogno; non puoi fare a meno di conoscere quanto è improrogabile la nostra necessità, come è dura e vera la nostra angustia, la nostra indigenza, la nostra disperazione; tu sai quanto abbisogniamo d'un tuo intervento, quant'è necessario un tuo ritorno. Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa, subito seguìta da un'improvvisa scomparsa; un'apparizione sola, un arrivare e un ripartire, una parola sola nel giungere, una parola sola nello sparire, un segno solo, un avviso unico, un balenamento nel cielo, un lume nella notte, un aprirsi del cielo, un risplendere nella notte, un'ora sola della tua eternità, una parola sola per tutto il tuo silenzio.
Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c'è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell'atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell'anima, il bene che salva.
Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che lo sanno. L'affamato s'immagina di cercare il pane e ha fame di te; l'assetato crede di voler l'acqua e ha sete di te; il malato s'illude di agognare la salute e il suo male è l'assenza di te. Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l'unica verità degna d'esser saputa; e chi s'affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti.
Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro".
“Sei venuto, la prima volta, per salvare; nascesti per salvare; parlasti per salvare; ti facesti crocifiggere per salvare: la tua arte, la tua opera, la tua missione, la tua vita è di salvare. E noi abbiamo oggi, in questi giorni grigi e maligni, in questi anni che sono un condensamento e un accrescimento insopportabile d'orrore e dolore, abbiamo bisogno, senza ritardi, d'esser salvati! Se tu fossi un Dio geloso e acrimonioso, un Dio che tiene il rancore, un Dio vendicativo, un Dio solamente giusto, allora non daresti ascolto alla nostra preghiera.
Perché tutto quello che gli uomini potevan farti di male, anche dopo la tua morte, e più dopo la tua morte che in vita, gli uomini l'hanno fatto; noi tutti, quello stesso che ti parla insieme agli altri, l'abbiamo fatto. Milioni di Giuda ti hanno baciato dopo averti venduto, e non per trenta denari soli, e neppure una volta sola; legioni di Farisei, sciami di Caifa ti hanno sentenziato malfattore, degno d'esser rinchiodato; e milioni di volte, col pensiero e la volontà, ti hanno crocifisso; e un'eterna canaia di fecciosi esaltati t'ha ricoperto il viso di saliva e di schiaffi; e gli staffieri, gli scaccini, i portinai, la gente d'arme degli ingiusti detentori d'argento e di potestà ti hanno frustato le spalle e insanguinata la fronte; e migliaia di Pilati, vestiti di nero o di vermiglio, e usciti appena dal bagno, profumati d'unguenti, ben pettinati e rasati, ti hanno consegnato migliaia di volte agl'impiccatori dopo averti riconosciuto innocente; e innumerevoli bocche flatulenti e vinose hanno chiesto innumerevoli volte la libertà dei ladri sediziosi, dei criminali confessi, degli assassini conosciuti, perché tu fossi innumerevoli volte trascinato sul Teschio e affisso all'albero con cavicchi di ferro fucinati dalla paura e ribattuti dall'odio".
"La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall'Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d'una promessa e d'una minaccia s'è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d'un tuo ritorno. Se non vieni a destare i dormenti accovati nella melma puzzante del nostro inferno, è segno che il castigo ti sembra ancor troppo corto e leggero per il nostro tradimento e che non vuoi mutare l'ordine delle tue leggi. E sia la tua volontà ora e sempre, in cielo e sulla terra. Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d'ogni impossibile. E tutto l'amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore".
Giovanni Papini, Scrittore (1881 - 1956)
Tu vedi, Gesù, il nostro bisogno; tu vedi fino a che punto è grande il nostro grande bisogno; non puoi fare a meno di conoscere quanto è improrogabile la nostra necessità, come è dura e vera la nostra angustia, la nostra indigenza, la nostra disperazione; tu sai quanto abbisogniamo d'un tuo intervento, quant'è necessario un tuo ritorno. Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa, subito seguìta da un'improvvisa scomparsa; un'apparizione sola, un arrivare e un ripartire, una parola sola nel giungere, una parola sola nello sparire, un segno solo, un avviso unico, un balenamento nel cielo, un lume nella notte, un aprirsi del cielo, un risplendere nella notte, un'ora sola della tua eternità, una parola sola per tutto il tuo silenzio.
Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c'è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell'atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell'anima, il bene che salva.
Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che lo sanno. L'affamato s'immagina di cercare il pane e ha fame di te; l'assetato crede di voler l'acqua e ha sete di te; il malato s'illude di agognare la salute e il suo male è l'assenza di te. Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l'unica verità degna d'esser saputa; e chi s'affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti.
Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro".
“Sei venuto, la prima volta, per salvare; nascesti per salvare; parlasti per salvare; ti facesti crocifiggere per salvare: la tua arte, la tua opera, la tua missione, la tua vita è di salvare. E noi abbiamo oggi, in questi giorni grigi e maligni, in questi anni che sono un condensamento e un accrescimento insopportabile d'orrore e dolore, abbiamo bisogno, senza ritardi, d'esser salvati! Se tu fossi un Dio geloso e acrimonioso, un Dio che tiene il rancore, un Dio vendicativo, un Dio solamente giusto, allora non daresti ascolto alla nostra preghiera.
Perché tutto quello che gli uomini potevan farti di male, anche dopo la tua morte, e più dopo la tua morte che in vita, gli uomini l'hanno fatto; noi tutti, quello stesso che ti parla insieme agli altri, l'abbiamo fatto. Milioni di Giuda ti hanno baciato dopo averti venduto, e non per trenta denari soli, e neppure una volta sola; legioni di Farisei, sciami di Caifa ti hanno sentenziato malfattore, degno d'esser rinchiodato; e milioni di volte, col pensiero e la volontà, ti hanno crocifisso; e un'eterna canaia di fecciosi esaltati t'ha ricoperto il viso di saliva e di schiaffi; e gli staffieri, gli scaccini, i portinai, la gente d'arme degli ingiusti detentori d'argento e di potestà ti hanno frustato le spalle e insanguinata la fronte; e migliaia di Pilati, vestiti di nero o di vermiglio, e usciti appena dal bagno, profumati d'unguenti, ben pettinati e rasati, ti hanno consegnato migliaia di volte agl'impiccatori dopo averti riconosciuto innocente; e innumerevoli bocche flatulenti e vinose hanno chiesto innumerevoli volte la libertà dei ladri sediziosi, dei criminali confessi, degli assassini conosciuti, perché tu fossi innumerevoli volte trascinato sul Teschio e affisso all'albero con cavicchi di ferro fucinati dalla paura e ribattuti dall'odio".
"La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall'Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d'una promessa e d'una minaccia s'è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d'un tuo ritorno. Se non vieni a destare i dormenti accovati nella melma puzzante del nostro inferno, è segno che il castigo ti sembra ancor troppo corto e leggero per il nostro tradimento e che non vuoi mutare l'ordine delle tue leggi. E sia la tua volontà ora e sempre, in cielo e sulla terra. Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d'ogni impossibile. E tutto l'amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore".
Giovanni Papini, Scrittore (1881 - 1956)
Il valore di un sorriso
Un sorriso non costa nulla e rende molto.
Arricchisce chi lo riceve,
senza impoverire chi lo dona.
Arricchisce chi lo riceve,
senza impoverire chi lo dona.
Non dura che un istante,
ma il suo ricordo è talora eterno.
Crea felicità in casa;
è sostegno negli affari;
è segno sensibile dell'amicizia profonda.
ma il suo ricordo è talora eterno.
Nessuno è così ricco da poterne fare a meno.
Nessuno è così povero da non poterlo dare.
Nessuno è così povero da non poterlo dare.
Crea felicità in casa;
è sostegno negli affari;
è segno sensibile dell'amicizia profonda.
Un sorriso dà riposo alla stanchezza;
nello scoraggiamento rinnova il coraggio;
nella tristezza è consolazione;
d'ogni pena è naturale rimedio.
nello scoraggiamento rinnova il coraggio;
nella tristezza è consolazione;
d'ogni pena è naturale rimedio.
Ma è bene che non si può comprare,
né prestare, né rubare,
poiché esso ha valore solo nell'istante in cui si dona.
né prestare, né rubare,
poiché esso ha valore solo nell'istante in cui si dona.
E se poi incontrerete talora chi non vi dona l'atteso sorriso,
siate generosi e date il vostro;
perché nessuno ha tanto bisogno di sorriso
come chi non sa darlo ad altri!
Frederik W. Faber (1814-1863), presbitero religioso, teologo e scrittore britannico
siate generosi e date il vostro;
perché nessuno ha tanto bisogno di sorriso
come chi non sa darlo ad altri!
Frederik W. Faber (1814-1863), presbitero religioso, teologo e scrittore britannico
Dormivo e sognavo...
Dormivo e sognavo
che la vita non era
che gioia.
Mi svegliai e vidi
che la vita non era
che servizio.
Servii e vidi
che il servizio non era
che gioia!
Rabindranath Tagore (1861 - 1941), scrittore, poeta e filosofo indiano
che la vita non era
che gioia.
Mi svegliai e vidi
che la vita non era
che servizio.
Servii e vidi
che il servizio non era
che gioia!
Rabindranath Tagore (1861 - 1941), scrittore, poeta e filosofo indiano
Caro bambù, ho bisogno di te...
C'era una volta un bellissimo giardino. Il suo padrone aveva l'abitudine di farsi una passeggiata ogni giorno.In questo giardino c'era un bambù di aspetto nobile. Era il più bello di tutti gli alberi e il Signore lo amava più di tutte le altre piante.
Un bel giorno, il Signore si avvicinò al suo albero amato e questo con grande venerazione chinò la testa. Il Signore gli disse: "Caro Bambù, ho bisogno di te".Con grande gioia rispose: "O Signore, sono pronto. Fa' di me l'uso che vuoi".
"Bambù, per usarti devo abbatterti".
"Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bell'albero del tuo giardino? No, per favore, no! Fa' uso di me per la tua gioia, ma per favore non abbattermi".
"Mio caro Bambù", disse il Signore, "se non posso abbatterti, non posso usarti". Nel giardino ci fu allora un gran silenzio.Molto lentamente il Bambù chinò ancora di più la testa, poi sussurrò: "Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fai di me quello che vuoi".
"Mio caro Bambù", disse di nuovo il Signore, "non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami". "O Signore", disse il Bambù, "non farmi questo. Lasciami almeno le foglie e i rami!" "Se non posso tagliarti , non posso usarti", disse il Signore. Il Bambù tremò e disse con voce appena udibile "Signore, tagliali".
"Mio caro Bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore". Il Bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.
Così il Signore del giardino abbatté il Bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due, ne estirpò il cuore. Poi portò il Bambù alla fonte di acqua fresca, vicino ai campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore depose l'amato Bambù a terra; un'estremità la collegò alla fonte, l'altra la diresse verso il campo arido.
La fonte dava l'acqua, l'acqua attraverso il Bambù si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semenza crebbe e venne il tempo della raccolta. Così il meraviglioso Bambù divenne una benedizione in tutta la sua povertà e umiltà.
Quando era grande, bello e grazioso, viveva e cresceva solo per se stesso. Al contrario, nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il campo.
Se il Bambù fosse rimasto alto, nobile, grazioso, se fosse rimasto Bambù con le sue foglie e rami verdeggianti, non avrebbe mai scoperto il senso della sua vita.
La preoccupazione di noi stessi, della nostra bellezza, del guadagno, della carriera, del divertimento, dell'immagine sono le nostre "foglie", i nostri "rami".
La vera gioia è donarsi, consegnarsi, dimenticarsi per rendere felici gli altri.
E' questo il segreto della Vita che Gesù ci ha rivelato, morendo sulla croce: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo,se invece muore porta molto frutto" (Gv 1,24).
Un bel giorno, il Signore si avvicinò al suo albero amato e questo con grande venerazione chinò la testa. Il Signore gli disse: "Caro Bambù, ho bisogno di te".Con grande gioia rispose: "O Signore, sono pronto. Fa' di me l'uso che vuoi".
"Bambù, per usarti devo abbatterti".
"Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bell'albero del tuo giardino? No, per favore, no! Fa' uso di me per la tua gioia, ma per favore non abbattermi".
"Mio caro Bambù", disse il Signore, "se non posso abbatterti, non posso usarti". Nel giardino ci fu allora un gran silenzio.Molto lentamente il Bambù chinò ancora di più la testa, poi sussurrò: "Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fai di me quello che vuoi".
"Mio caro Bambù", disse di nuovo il Signore, "non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami". "O Signore", disse il Bambù, "non farmi questo. Lasciami almeno le foglie e i rami!" "Se non posso tagliarti , non posso usarti", disse il Signore. Il Bambù tremò e disse con voce appena udibile "Signore, tagliali".
"Mio caro Bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore". Il Bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.
Così il Signore del giardino abbatté il Bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due, ne estirpò il cuore. Poi portò il Bambù alla fonte di acqua fresca, vicino ai campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore depose l'amato Bambù a terra; un'estremità la collegò alla fonte, l'altra la diresse verso il campo arido.
La fonte dava l'acqua, l'acqua attraverso il Bambù si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semenza crebbe e venne il tempo della raccolta. Così il meraviglioso Bambù divenne una benedizione in tutta la sua povertà e umiltà.
Quando era grande, bello e grazioso, viveva e cresceva solo per se stesso. Al contrario, nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il campo.
Se il Bambù fosse rimasto alto, nobile, grazioso, se fosse rimasto Bambù con le sue foglie e rami verdeggianti, non avrebbe mai scoperto il senso della sua vita.
La preoccupazione di noi stessi, della nostra bellezza, del guadagno, della carriera, del divertimento, dell'immagine sono le nostre "foglie", i nostri "rami".
La vera gioia è donarsi, consegnarsi, dimenticarsi per rendere felici gli altri.
E' questo il segreto della Vita che Gesù ci ha rivelato, morendo sulla croce: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo,se invece muore porta molto frutto" (Gv 1,24).
La pace con se stessi e con gli altri
Quindi per sé l'uso dei beni temporali è in relazione al godimento della pace terrena nella città terrena, nella città celeste è in relazione al godimento della pace eterna. Se fossimo animali irragionevoli, non tenderemmo ad altro che all'ordinata conformazione delle parti del corpo e alla placazione degli impulsi, a niente dunque fuorché all'appagamento della sensibilità e all'abbondanza delle soddisfazioni affinché la pace del corpo giovi alla pace dell'anima. Se manca la pace del corpo è ostacolata la pace dell'anima irragionevole perché non può raggiungere la placazione degli impulsi. L'una e l'altra insieme favoriscono quella pace che hanno l'anima e il corpo nel loro rapportarsi, cioè la pace di una vita ordinata in buona salute. Come infatti gli esseri viventi mostrano di amare la pace del corpo quando sfuggono al dolore e la pace dell'anima quando, per placare l'insorgere degli impulsi, cercano il piacere, così sottraendosi alla morte indicano chiaramente quanto amino la pace con cui si rapportano l'anima e il corpo. Ma poiché nell'uomo è operante l'anima ragionevole, egli sottopone alla pace dell'anima ragionevole tutto ciò che ha in comune con le bestie, per rappresentarsi un oggetto col pensiero e agire in conformità a tale oggetto, in modo che in lui vi sia un'ordinata armonia del conoscere e dell'agire, che avevo considerato come pace dell'anima ragionevole. Allo scopo necessariamente vuole non essere afflitto dal dolore, non turbato dallo stimolo, non distrutto dalla morte per conoscere il da farsi e in base a tale conoscenza organizzare vita e comportamento. Ma affinché nell'indagine sulla conoscenza, a motivo del potere ridotto dell'uman pensiero, non incorra nella falsità di qualche errore, ha bisogno del magistero divino al quale sottomettersi con certezza e dell'aiuto al quale sottomettersi con libertà. Ma finché è in questo corpo soggetto al divenire, è in viaggio lontano dal Signore, cammina nella fede e non nella visione. Perciò riferisce ogni pace tanto del corpo come dell'anima e insieme dell'anima e del corpo a quella pace che l'uomo, posto nel divenire, ha con Dio che è fuori del divenire, in modo che gli sia ordinata dalla fede con l'obbedienza sotto la legge eterna. Ora Dio maestro insegna due comandamenti principali, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo, nei quali l'uomo ravvisa tre oggetti che deve amare: Dio, se stesso, il prossimo, e che nell'amarsi non erra chi ama Dio. Ne consegue che provvede anche al prossimo affinché ami Dio perché gli è ordinato di amarlo come se stesso, così alla moglie, ai figli, ai familiari e alle altre persone che potrà e vuole che in tal modo dal prossimo si provveda a lui, se ne ha bisogno. Perciò sarà in pace con ogni uomo, per quanto dipende da lui, mediante la pace degli uomini, cioè con un'ordinata concordia nella quale v'è quest'ordine, prima di tutto che non faccia del male a nessuno, poi che faccia del bene a chi può. Dapprima dunque v'è in lui l'attenzione ai suoi cari, perché ha l'occasione più favorevole e facile di provvedere loro tanto nell'ordinamento della natura come della stessa convivenza umana. Dice l'Apostolo: Chi non provvede ai suoi cari e soprattutto ai familiari ha abiurato la fede ed è peggiore di un infedele. Da tali condizioni sorge appunto la pace della casa, cioè l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei familiari. Comandano infatti quelli che provvedono, come l'uomo alla moglie, i genitori ai figli, i padroni ai servi. Obbediscono coloro ai quali si provvede, come le donne ai mariti, i figli ai genitori, i servi ai padroni. Ma nella casa del giusto, che vive di fede ed è ancora esule dalla sublime città del cielo, anche coloro che comandano sono a servizio di coloro ai quali apparentemente comandano. Non comandano infatti nella brama del signoreggiare ma nel dovere di provvedere, non nell'orgoglio dell'imporsi, ma nella compassione del premunire.
La città di Dio, XIX, 14
Agostino di Ippona (354 – 430), Vescovo, Santo
La libertà bisogna prendersela...
"La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo" disse Pietro. "Si può vivere anche in paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L'uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto, è libero... .
Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l'assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi. Questo è il male, non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può..."
[ Pane e Vino, 1937 ]
Ignazio Silone (1900 - 1978), scrittore e politico italiano
L'eccesso della libertà
Quando un popolo assetato di libertà viene ad avere a suoi capi dei cattivi coppieri che lo inebriano di quella libertà più in là del bisogno, e i magistrati, se non siano del tutto remissivi e non largiscano in ampia dose la libertà, li punisce accusandoli come scellerati e non popolari.
E quelli che obbediscono alle autorità li oltraggia come schiavi volontari e di nessun valore, e loda invece e onora in pubblico e in privato quei governanti che siano simili ai governati, e i governati ai governanti. Non è proprio in una tal città che il principio della libertà abbia la sua più totale applicazione? E che penetri nelle case private e l'anarchia ingeneratasi vada a finire sino agli animali…
Che per esempio il padre si abitui a farsi simile al figlio e a temere i figli e il figlio a esser simile al padre, e a non aver più paura dei genitori, per esser libero […].
Queste ed altre piccolezze del genere sono solite accadere; il maestro in tale stato teme e accarezza gli scolari e gli scolari se ne infischiano dei maestri, e così degli educatori. E in genere i giovani si mettono alla pari dei vecchi, contendendo con loro nelle parole e nelle opere, e i vecchi abbassandosi al livello dei giovani si riempiono di giocosità e di piacevolezza, imitando i giovani per non sembrare essere sgradevoli e autoritari. E l'estremo della libertà del volgo, quanto ha luogo in una simile città, è allorché gli uomini e donne comprati siano non meno liberi di coloro che li comprano. Quale sia poi l'uguaglianza e la libertà tra le donne verso gli uomini, e tra gli uomini verso le donne, per poco non ci siamo scordati di dire […].
E la somma di tutte queste cose messe insieme, non pensi tu come renda suscettibile l'animo dei cittadini, di modo che se uno vi adduca qualsiasi briciolo di servitù, esso la sdegna e non lo sopporta? Giacché tu sai che finiscono con il non darsi più neanche alcun pensiero per le leggi scritte o non scritte affinché nessuno in nessun modo sia loro padrone.
Così bello dunque e prosperoso o amico è questo regime donde nasce la tirannide a quanto a me pare. Ma che succede, dopo ciò?
Quello stesso malanno che nato nell'oligarchia la mandò in rovina, fattosi in questa più violento per la libertà vigente, riduce in barbarie selvaggia la democrazia. Ed effettivamente lo spingere all'eccesso qualsiasi cosa suole produrre per converso gran mutamento nel senso opposto, nelle stagioni nelle piante e nei corpi, e non meno nei regimi politici.
L'eccesso della libertà, infatti, in niente altro sembra convertirsi se non nell'eccesso della servitù per l'individuo e per lo stato.
E quelli che obbediscono alle autorità li oltraggia come schiavi volontari e di nessun valore, e loda invece e onora in pubblico e in privato quei governanti che siano simili ai governati, e i governati ai governanti. Non è proprio in una tal città che il principio della libertà abbia la sua più totale applicazione? E che penetri nelle case private e l'anarchia ingeneratasi vada a finire sino agli animali…
Che per esempio il padre si abitui a farsi simile al figlio e a temere i figli e il figlio a esser simile al padre, e a non aver più paura dei genitori, per esser libero […].
Queste ed altre piccolezze del genere sono solite accadere; il maestro in tale stato teme e accarezza gli scolari e gli scolari se ne infischiano dei maestri, e così degli educatori. E in genere i giovani si mettono alla pari dei vecchi, contendendo con loro nelle parole e nelle opere, e i vecchi abbassandosi al livello dei giovani si riempiono di giocosità e di piacevolezza, imitando i giovani per non sembrare essere sgradevoli e autoritari. E l'estremo della libertà del volgo, quanto ha luogo in una simile città, è allorché gli uomini e donne comprati siano non meno liberi di coloro che li comprano. Quale sia poi l'uguaglianza e la libertà tra le donne verso gli uomini, e tra gli uomini verso le donne, per poco non ci siamo scordati di dire […].
E la somma di tutte queste cose messe insieme, non pensi tu come renda suscettibile l'animo dei cittadini, di modo che se uno vi adduca qualsiasi briciolo di servitù, esso la sdegna e non lo sopporta? Giacché tu sai che finiscono con il non darsi più neanche alcun pensiero per le leggi scritte o non scritte affinché nessuno in nessun modo sia loro padrone.
Così bello dunque e prosperoso o amico è questo regime donde nasce la tirannide a quanto a me pare. Ma che succede, dopo ciò?
Quello stesso malanno che nato nell'oligarchia la mandò in rovina, fattosi in questa più violento per la libertà vigente, riduce in barbarie selvaggia la democrazia. Ed effettivamente lo spingere all'eccesso qualsiasi cosa suole produrre per converso gran mutamento nel senso opposto, nelle stagioni nelle piante e nei corpi, e non meno nei regimi politici.
L'eccesso della libertà, infatti, in niente altro sembra convertirsi se non nell'eccesso della servitù per l'individuo e per lo stato.
[ La Repubblica IX, 562 ]
Platone (427 - 347 a.C.), filosofo greco
Libertà significa non dover mai chiedere scusa!
"La libertà figliolo significa non dover mai chiedere scusa!
Voglio che tu sia te stesso, il senso di colpa è come un sacco di mattoni, non devi far altro che scaricarlo.
Per chi è che ti incolli tutti quei mattoni si può sapere? Dio, è cosi? Dio?
Ti voglio dare una piccola informazione confidenziale a proposito di Dio...a Dio piace guardare, è un guardone giocherellone, riflettici un po',
lui da all'uomo gli istinti,ti concede questo straordinario dono e poi che cosa fa?
Te lo giuro che lo fa per il suo puro divertimento, per farsi il suo bravo cosmico spot pubblicitario del film: fissa le regole in contraddizione una stronzata universale: Guarda ma non toccare...
Tocca ma non gustare...
Gusta ma non inghiottire..., e mentre tu saltelli da un piede all'altro lui cosa fa?
Se ne sta lì a sbellicarsi dalle matte risate perché è un moralista,
è un gran sadico, è un padrone assenteista e uno dovrebbe adorarlo?No mai!!"
De Niro in "The devil's advocate"
Voglio che tu sia te stesso, il senso di colpa è come un sacco di mattoni, non devi far altro che scaricarlo.
Per chi è che ti incolli tutti quei mattoni si può sapere? Dio, è cosi? Dio?
Ti voglio dare una piccola informazione confidenziale a proposito di Dio...a Dio piace guardare, è un guardone giocherellone, riflettici un po',
lui da all'uomo gli istinti,ti concede questo straordinario dono e poi che cosa fa?
Te lo giuro che lo fa per il suo puro divertimento, per farsi il suo bravo cosmico spot pubblicitario del film: fissa le regole in contraddizione una stronzata universale: Guarda ma non toccare...
Tocca ma non gustare...
Gusta ma non inghiottire..., e mentre tu saltelli da un piede all'altro lui cosa fa?
Se ne sta lì a sbellicarsi dalle matte risate perché è un moralista,
è un gran sadico, è un padrone assenteista e uno dovrebbe adorarlo?No mai!!"
De Niro in "The devil's advocate"
Il gigante egoista
Ogni pomeriggio, non appena uscivano dalla scuola, i bambini avevano l'abitudine di andare a giocare nel giardino del Gigante. Era un grande e bel giardino, con soffice erba verde e, qua e là sull'erba, c'erano fiori belli come stelle, e c'erano dodici peschi che a primavera si aprivano in delicati fiori di rosa e perla, e in autunno davano frutti succosi.Un giorno il Gigante tornò. Era stato in visita dal suo amico, l'orco di Cornovaglia, ed era rimasto da lui per sette anni. Quando arrivò vide i bambini che giocavano nel giardino."Che cosa fate qui?" gridò con voce molto burbera, e i bambini scapparono via."Il mio giardino è mio - disse il Gigante - chiunque può capirlo, e non permetterò a nessuno di giocarci, soltanto io posso". Così vi costruì un alto muro tutto attorno e non fece più entrare nessuno. Era un gigante davvero egoista. I poveri bambini non avevano dove giocare.Poi venne la Primavera, e in tutto il paese c'erano fiorellini e uccellini. Solo nel giardino del Gigante Egoista era ancora inverno. Agli uccelli non interessava cantare in quel giardino perché non c'erano bambini, e gli alberi si dimenticarono di fiorire. La neve coprì l'erba con il suo grande manto bianco, e il Gelo dipinse tutti gli alberi d'argento. Poi invitarono il Vento del Nord a restare con loro, e lui venne. Poi venne la Grandine. Era vestita di grigio, e il suo respiro era come ghiaccio. "Non riesco a capire perché la Primavera tardi tanto" diceva il Gigante Egoista. Ma la Primavera non venne mai, e nemmeno l'Estate. Una mattina il Gigante se ne stava sveglio nel letto quando udì una bella musica. Era un piccolo fanello che cantava fuori dalla sua finestra, ma era così tanto tempo che non sentiva cantare un uccello nel suo giardino, che questa gli sembrò la più bella musica del mondo. Allora la Grandine interruppe la danza sulla sua testa, e il Vento del Nord smise di ruggire, e un profumo delizioso lo raggiunse dalla finestra aperta. Che cosa vide? Attraverso un piccolo buco nel muro si erano intrufolati i bambini, e ora stavano seduti sui rami degli alberi. Su ogni ramo che poteva vedere c'era un bambino. E gli alberi erano talmente contenti di aver riavuto i bambini, che si erano coperti di fiori, e facevano ondeggiare delicatamente le loro braccia sul capo dei bambini. Gli uccelli volavano qua e là cinguettando di piacere, e i fiori guardavano all'insù attraverso l'erba verde e ridevano. Era una scena bellissima, solo in un angolo era ancora inverno. Era l'angolo più lontano del giardino, e lì se ne stava, in piedi, un ragazzino. Era così piccolo che non riusciva a raggiungere i rami dell'albero, e vi girava tutto intorno, piangendo amaramente. Il povero albero era coperto di ghiaccio e di neve, e il Vento del Nord soffiava e ruggiva su di lui. "Sali, bambino!" diceva l'Albero, e piegava i rami più in basso che poteva; ma il bambino era minuscolo.E il cuore del Gigante si intenerì non appena guardò fuori. "Ora so perché la Primavera non voleva venire qui - disse - metterò quel bambinetto in cima all'albero, e poi abbatterò il muro, e il mio giardino diventerà un parco giochi per i bambini, per sempre". Era davvero molto dispiaciuto per quello che aveva fatto.Così scese piano di sotto e aprì la porta senza far rumore, e uscì in giardino. Ma quando i bambini lo videro si spaventarono tanto che corsero via, e nel giardino tornò l'inverno. Solo il bambino più piccolo non fuggì, e il Gigante lo prese delicatamente in braccio, e lo posò sull'albero. E l'albero cominciò improvvisamente a fiorire, e gli uccelli vi si posarono e cantavano, e il bambino tese le braccia e le gettò al collo del Gigante, e lo baciò. E quando gli altri bambini videro che il Gigante non era più cattivo, tornarono indietro di corsa, e con loro tornò la Primavera. "Ora è il vostro giardino, bambini" disse il Gigante, e prese una grande ascia e abbatté il muro.Tutto il giorno giocarono, e la sera andarono dal Gigante per salutarlo. "Ma dov'è il vostro piccolo compagno? - disse questi - il bambino che ho messo sull'albero". Il Gigante gli voleva bene più che a tutti gli altri perché lo aveva baciato. "Non lo sappiamo - risposero i bambini - è andato via". "Dovete dirgli di venire qui domani" disse il Gigante. Ma i bambini dissero che non sapevano dove viveva e che non lo ave-vano mai visto prima. Il Gigante si sentì molto triste: "Come mi piacerebbe rivederlo!" ripeteva. Passarono gli anni, e il Gigante divenne molto vecchio e debole. Non poteva più giocare, perciò si sedeva in una grande poltrona e guardava i bambini intenti a giocare, e ammirava il suo giardino. "Ho tanti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli di tutti". Una mattina d'inverno guardò fuori dalla finestra mentre si vestiva. Ora non odiava l'Inverno, perché sapeva che era soltanto la Primavera addormentata, e che i fiori stavano riposando. D'improvviso si strofinò gli occhi dalla meraviglia e guardò e guardò. Era certo una vista meravigliosa. Nell'angolo più lontano del giardino c'era un albero coperto di bellissimi fiori bianchi. I suoi rami erano tutti d'oro, e pendevano frutti d'argento, e sotto c'era il ragazzino cui aveva voluto tanto bene. Il Gigante corse giù pieno di gioia, e uscì in giardino si affrettò attraverso il prato, e si avvicinò al bambino. E quando giunse vicino al suo viso diventò rosso dall'ira e disse, "Chi ha osato ferirti?" Perché sulle palme delle mani del bambino c'erano i segni di due chiodi, e i segni di due chiodi erano sui suoi piedini. "Chi ha osato ferirti? - gridò il Gigante -, dimmelo, ch'io possa prendere la mia grande spada e ucciderlo" "No" rispose il bambino: "queste sono le ferite dell'Amore". "Chi sei tu?" disse il Gigante, e uno strano timore lo prese, e si inginocchiò davanti al bambino. E il bambino sorrise al Gigante, e gli disse, "Tu mi hai lasciato giocare una volta nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio giardino, che è il Paradiso". E quando i bambini corsero a giocare quel pomeriggio, trovarono il Gigante che giaceva morto sotto l'albero, tutto coperto di fiori bianchi.
Oscar Wilde (1854 - 1900), scrittore e poeta inglese
Oscar Wilde (1854 - 1900), scrittore e poeta inglese
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Il Papalagi ha impoverito Dio
Siamo tutti Papalagi
Tuiavii, un saggio capo indigeno delle isole Samoa, compì un viaggio in Europa agli inizi del 1900, venendo a contatto con gli usi e i costumi del “Papalagi”, l’uomo bianco. Ne trasse delle impressioni folgoranti che gli servirono per mettere in guardia il suo popolo dal fascino di certi tratti della civiltà occidentale.
Erich Scheurmann, un artista tedesco amico di Hermann Hesse fuggito nei mari del Sud per evitare la prima guerra mondiale, raccolse questo tesoro di saggezza e lo pubblicò. Eccone una piccola parte, per scoprire il punto di vista dell’altro su di noi.
Il Papalagi ha impoverito Dio
Il Papalagi ha un modo di pensare particolare ed estremamente contorto. Pensa sempre a come qualcosa possa essergli utile e a come averne ragione.
Pensa sempre a una sola persona, non a tutte quante. E questa persona è lui stesso.
Se un uomo dice: “La mia testa è mia e non appartiene altri che a me”, le cose stanno proprio così, e nessuno può obiettare niente. Nessuno ha più diritti sulla propria mano della persona cui la mano appartiene. Fino a questo punto do ragione al Papalagi. Ma lui dice anche: “la palma è mia.” Perché si trova proprio davanti alla sua capanna. Proprio come se l’avesse fatta crescere lui stesso. La palma però non è affatto sua. Non lo sarà mai. E’ la mano di Dio che dalla terra si tende verso di noi. Dio ha molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d’erba, il mare, il cielo con le sue nuvole, tutte queste sono mani di Dio. Possiamo afferrare queste mani ed esserne contenti, ma non possiamo dire: “La mano di Dio è la mia mano.” Questo però è quello che fa il Papalagi.
“Lau” nella nostra lingua significa mio, e anche tuo: sono quasi la stessa cosa. Nella lingua del Papalagi invece non ci sono parole con significati più diversi di “mio” e “tuo”. E’ mio quel che appartiene unicamente e solamente a me. Tuo è quello che appartiene unicamente e solamente a te.
Per questo il Papalagi dice di tutto quello che si trova vicino alla sua capanna: è mio. Nessuno vi ha diritto eccetto lui stesso. Ovunque tu vada dal Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto, un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice: “Questo è mio, guardati dal prendere ciò che è mio!”. Se tu lo fai, ti urla contro, , ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo perché hai osato toccare il “mio” del tuo prossimo. Accorrono amici e servitori delle supreme autorità, ti mettono in catene, ti portano in prigione e sei disprezzato per tutta la vita.
Affinché uno non prenda le cose che l’altro ha dichiarato essere le sue, viene stabilito molto precisamente con leggi speciali cosa appartiene e non appartiene a uno. In Europa ci sono persone che non fanno altro che sorvegliare che nessuno violi queste leggi, e che al Papalagi non venga tolto niente di quello che ha preso per sé. Il Papalagi vuole convincersi di avere davvero conquistato un diritto, come se Dio gli avesse ceduto la sua proprietà per sempre.. Come se gli appartenessero davvero la palma, l’albero, i fiori, il mare, il cielo e le sue nuvole.
Il Papalagi deve fare tali leggi e avere tali guardiani per il suo molto “mio” in modo che chi ha poco “mio”, o non ne ha affatto, non possa prendere niente del suo “mio”.
Perché dove molti prendono molto per sé, ce ne sono molti che non hanno niente tra le mani.
Non tutti conoscono i trucchi e i segnali segreti per avere molto “mio”, ed è necessario un particolare tipo di valore che non sempre va d’accorso con quello che noi chiamiamo onore.
E può benissimo essere che quelli che hanno poco tra le mani siano migliori di tutti i Papalagi. Ma sicuramente non ce ne sono molti.
I più derubano Dio senza ritegno. Non sanno fare diversamente. Spesso non si accorgono nemmeno di fare qualcosa di male: proprio perché tutti fanno così senza darsi pensiero e provare vergogna. Alcuni ricevono il loro molto “mio” dalle mani del padre al momento della nascita. Ad ogni modo Dio non ha quasi più niente, gli uomini gli hanno preso quasi tutto facendone il loro “mio” e “tuo”.
Non può più dare a tutti nella stessa misura il suo sole, che era destinato a tutti, perché alcuni pretendono di averne più di altri. Nelle belle e assolate piazze siedono spesso solo in pochi, mentre i più catturano miseri raggi di sole standosene all’ombra.
Dio non può provare un’autentica gioia, perché non è più il grandissimo signore nella sua grande casa. Il Papalagi lo rinnega dicendo: “E’ tutto mio”. Non arriva a comprendere quel che fa, anche se sta tanto a pensare.
Se pensasse giustamente, dovrebbe sapere che nulla di quel che possiamo trattenere ci appartiene. E che in fondo non possiamo trattenere niente. Si renderebbe conto che Dio ha dato la sua grande casa perché tutti vi trovino posto e gioia. E sarebbe anche grande abbastanza, e ci sarebbe per ognuno un posticino al sole e una piccola gioia, e per ognuno ci sarebbe una piccola ombra di palma e sicuramente un posticino su cui appoggiare i piedi. Come avrebbe potuto Dio aver dimenticato anche uno solo dei suoi figli! E invece sono in tanti a cercare il piccolo posticino che Dio ha lasciato libero per loro.
Così il Papalagi vive nel timore, nella paura per quello che lui ha preso per sé. Il sonno del Papalagi non è mai proprio profondo, deve essere vigile perché non gli venga tolto di notte quel che ha messo assieme di giorno. E questo “mio” lo tormenta e si prende gioco di lui dicendo: “Poiché mi hai tolto a Dio, io ti torturo e ti procuro molti dolori”.
Ma Dio ha inflitto al Papalagi punizioni ben peggiori dalla sua paura. Gli ha dato la lotta tra quelli che hanno poco o niente “mio” e quelli che si sono presi un grande “mio”.
Questa lotta è dura e accanita e viene combattuta notte e giorno. E’ la lotta che tutti subiscono e che a tutti toglie la gioia di vivere. Quelli che hanno, devono dare, ma non vogliono dare niente. Quelli che non hanno niente, vogliono avere anche loro, ma non ricevono niente. Ma anche questi sono solo raramente difensori di Dio. Sono solo arrivati troppo tardi al saccheggio o sono stati incapaci, o gli è mancata la possibilità. Sono in pochissimi a riflettere sul fatto che chi è stato derubato è Dio. E solo molto raramente si sente il richiamo di un uomo giusto, che esorta e rimettere tutto nelle mani di Dio.
Fratelli, che cosa pensate di un uomo che ha una capanna grande abbastanza da accogliere un intero villaggio delle Samoa, e che non offre il suo tetto al viandante per una notte? Cosa pensate di un uomo che tiene in mano un grappolo di banane e non ne dà neanche una all’affamato? Vedo l’indignazione nei vostri occhi e grande disprezzo sulle vostre labbra. E pensate: anche se ha cento stuoie non ne dà neanche una a chi non ne ha nessuna. E per di più fa all’altro una colpa di non averne. E se la sua capanna fosse piena fino al tetto di provviste, molte di più di quante potrebbero mangiarne in anni lui e la sua famiglia, non andrebbe alla ricerca di quelli che non hanno niente da mangiare e che sono pallidi e affamati. E ci sono molti Papalagi che sono pallidi e affamati.
La palma si spoglia delle sue foglie e dei suoi frutti quando sono maturi. Il Papalagi vive come se la palma volesse trattenere le sue foglie e i suoi frutti: “Sono miei! Non ne potete avere e non potete mangiarne!”. Come farebbe allora la palma a portare nuovi frutti? La Palma ha molta più saggezza di un Papalagi.
Anche tra noi ci sono molti che possiedono più degli altri, e rendiamo onore al capo, che molte stuoie e molti maiali. Ma quest’onore vale solo per lui, e non per le stuoie e i maiali, che gli abbiamo dato noi stessi per manifestare la nostra gioia e lodare il suo valore e la sua saggezza. Il Papalagi, invece, ammira nel fratello le molte stuoie e i suoi maiali e si preoccupa poco del suo valore e della sua saggezza. Un fratello senza stuoie e senza maiali gode di un ben poco onore.
Poiché le stuoie e i maiali non possono andare da soli dai poveri e dagli affamati, il Papalagi non vede perché dovrebbe portarli lui ai suoi fratelli. Poiché egli non onora i fratelli, ma solo le loro stuoie e i loro maiali, e per questo li tiene per sé. Se amasse e onorasse i suoi fratelli e non fosse in lotta per il “mio” e per il “tuo”, allora porterebbe a questi le stuoie per farli partecipare al suo grande “mio”. Dividerebbe con loro la sua stuoia, anziché gettarli nella notte buia.
Ma il Papalagi non sa che Dio ci ha dato la palma, il banano, il delizioso taro, tutti gli uccelli della foresta e i pesci del mare perché tutti noi potessimo gioirne e goderne. Non solo per pochi, mentre gli altri soffrono di stenti e di miseria. Colui nelle cui mani Dio ha messo molto, deve farne dono al suo fratello, in modo che la frutta non marcisca nella sua mano. Perché Dio tende a tutti le sue molte mani; non vuole che uno abbia più dell’altro o che dica: “Io sto al sole, a te spetta l’ombra”. A tutti noi spetta il sole.
Tuiavii, un saggio capo indigeno delle isole Samoa, compì un viaggio in Europa agli inizi del 1900, venendo a contatto con gli usi e i costumi del “Papalagi”, l’uomo bianco. Ne trasse delle impressioni folgoranti che gli servirono per mettere in guardia il suo popolo dal fascino di certi tratti della civiltà occidentale.
Erich Scheurmann, un artista tedesco amico di Hermann Hesse fuggito nei mari del Sud per evitare la prima guerra mondiale, raccolse questo tesoro di saggezza e lo pubblicò. Eccone una piccola parte, per scoprire il punto di vista dell’altro su di noi.
Il Papalagi ha impoverito Dio
Il Papalagi ha un modo di pensare particolare ed estremamente contorto. Pensa sempre a come qualcosa possa essergli utile e a come averne ragione.
Pensa sempre a una sola persona, non a tutte quante. E questa persona è lui stesso.
Se un uomo dice: “La mia testa è mia e non appartiene altri che a me”, le cose stanno proprio così, e nessuno può obiettare niente. Nessuno ha più diritti sulla propria mano della persona cui la mano appartiene. Fino a questo punto do ragione al Papalagi. Ma lui dice anche: “la palma è mia.” Perché si trova proprio davanti alla sua capanna. Proprio come se l’avesse fatta crescere lui stesso. La palma però non è affatto sua. Non lo sarà mai. E’ la mano di Dio che dalla terra si tende verso di noi. Dio ha molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d’erba, il mare, il cielo con le sue nuvole, tutte queste sono mani di Dio. Possiamo afferrare queste mani ed esserne contenti, ma non possiamo dire: “La mano di Dio è la mia mano.” Questo però è quello che fa il Papalagi.
“Lau” nella nostra lingua significa mio, e anche tuo: sono quasi la stessa cosa. Nella lingua del Papalagi invece non ci sono parole con significati più diversi di “mio” e “tuo”. E’ mio quel che appartiene unicamente e solamente a me. Tuo è quello che appartiene unicamente e solamente a te.
Per questo il Papalagi dice di tutto quello che si trova vicino alla sua capanna: è mio. Nessuno vi ha diritto eccetto lui stesso. Ovunque tu vada dal Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto, un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice: “Questo è mio, guardati dal prendere ciò che è mio!”. Se tu lo fai, ti urla contro, , ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo perché hai osato toccare il “mio” del tuo prossimo. Accorrono amici e servitori delle supreme autorità, ti mettono in catene, ti portano in prigione e sei disprezzato per tutta la vita.
Affinché uno non prenda le cose che l’altro ha dichiarato essere le sue, viene stabilito molto precisamente con leggi speciali cosa appartiene e non appartiene a uno. In Europa ci sono persone che non fanno altro che sorvegliare che nessuno violi queste leggi, e che al Papalagi non venga tolto niente di quello che ha preso per sé. Il Papalagi vuole convincersi di avere davvero conquistato un diritto, come se Dio gli avesse ceduto la sua proprietà per sempre.. Come se gli appartenessero davvero la palma, l’albero, i fiori, il mare, il cielo e le sue nuvole.
Il Papalagi deve fare tali leggi e avere tali guardiani per il suo molto “mio” in modo che chi ha poco “mio”, o non ne ha affatto, non possa prendere niente del suo “mio”.
Perché dove molti prendono molto per sé, ce ne sono molti che non hanno niente tra le mani.
Non tutti conoscono i trucchi e i segnali segreti per avere molto “mio”, ed è necessario un particolare tipo di valore che non sempre va d’accorso con quello che noi chiamiamo onore.
E può benissimo essere che quelli che hanno poco tra le mani siano migliori di tutti i Papalagi. Ma sicuramente non ce ne sono molti.
I più derubano Dio senza ritegno. Non sanno fare diversamente. Spesso non si accorgono nemmeno di fare qualcosa di male: proprio perché tutti fanno così senza darsi pensiero e provare vergogna. Alcuni ricevono il loro molto “mio” dalle mani del padre al momento della nascita. Ad ogni modo Dio non ha quasi più niente, gli uomini gli hanno preso quasi tutto facendone il loro “mio” e “tuo”.
Non può più dare a tutti nella stessa misura il suo sole, che era destinato a tutti, perché alcuni pretendono di averne più di altri. Nelle belle e assolate piazze siedono spesso solo in pochi, mentre i più catturano miseri raggi di sole standosene all’ombra.
Dio non può provare un’autentica gioia, perché non è più il grandissimo signore nella sua grande casa. Il Papalagi lo rinnega dicendo: “E’ tutto mio”. Non arriva a comprendere quel che fa, anche se sta tanto a pensare.
Se pensasse giustamente, dovrebbe sapere che nulla di quel che possiamo trattenere ci appartiene. E che in fondo non possiamo trattenere niente. Si renderebbe conto che Dio ha dato la sua grande casa perché tutti vi trovino posto e gioia. E sarebbe anche grande abbastanza, e ci sarebbe per ognuno un posticino al sole e una piccola gioia, e per ognuno ci sarebbe una piccola ombra di palma e sicuramente un posticino su cui appoggiare i piedi. Come avrebbe potuto Dio aver dimenticato anche uno solo dei suoi figli! E invece sono in tanti a cercare il piccolo posticino che Dio ha lasciato libero per loro.
Così il Papalagi vive nel timore, nella paura per quello che lui ha preso per sé. Il sonno del Papalagi non è mai proprio profondo, deve essere vigile perché non gli venga tolto di notte quel che ha messo assieme di giorno. E questo “mio” lo tormenta e si prende gioco di lui dicendo: “Poiché mi hai tolto a Dio, io ti torturo e ti procuro molti dolori”.
Ma Dio ha inflitto al Papalagi punizioni ben peggiori dalla sua paura. Gli ha dato la lotta tra quelli che hanno poco o niente “mio” e quelli che si sono presi un grande “mio”.
Questa lotta è dura e accanita e viene combattuta notte e giorno. E’ la lotta che tutti subiscono e che a tutti toglie la gioia di vivere. Quelli che hanno, devono dare, ma non vogliono dare niente. Quelli che non hanno niente, vogliono avere anche loro, ma non ricevono niente. Ma anche questi sono solo raramente difensori di Dio. Sono solo arrivati troppo tardi al saccheggio o sono stati incapaci, o gli è mancata la possibilità. Sono in pochissimi a riflettere sul fatto che chi è stato derubato è Dio. E solo molto raramente si sente il richiamo di un uomo giusto, che esorta e rimettere tutto nelle mani di Dio.
Fratelli, che cosa pensate di un uomo che ha una capanna grande abbastanza da accogliere un intero villaggio delle Samoa, e che non offre il suo tetto al viandante per una notte? Cosa pensate di un uomo che tiene in mano un grappolo di banane e non ne dà neanche una all’affamato? Vedo l’indignazione nei vostri occhi e grande disprezzo sulle vostre labbra. E pensate: anche se ha cento stuoie non ne dà neanche una a chi non ne ha nessuna. E per di più fa all’altro una colpa di non averne. E se la sua capanna fosse piena fino al tetto di provviste, molte di più di quante potrebbero mangiarne in anni lui e la sua famiglia, non andrebbe alla ricerca di quelli che non hanno niente da mangiare e che sono pallidi e affamati. E ci sono molti Papalagi che sono pallidi e affamati.
La palma si spoglia delle sue foglie e dei suoi frutti quando sono maturi. Il Papalagi vive come se la palma volesse trattenere le sue foglie e i suoi frutti: “Sono miei! Non ne potete avere e non potete mangiarne!”. Come farebbe allora la palma a portare nuovi frutti? La Palma ha molta più saggezza di un Papalagi.
Anche tra noi ci sono molti che possiedono più degli altri, e rendiamo onore al capo, che molte stuoie e molti maiali. Ma quest’onore vale solo per lui, e non per le stuoie e i maiali, che gli abbiamo dato noi stessi per manifestare la nostra gioia e lodare il suo valore e la sua saggezza. Il Papalagi, invece, ammira nel fratello le molte stuoie e i suoi maiali e si preoccupa poco del suo valore e della sua saggezza. Un fratello senza stuoie e senza maiali gode di un ben poco onore.
Poiché le stuoie e i maiali non possono andare da soli dai poveri e dagli affamati, il Papalagi non vede perché dovrebbe portarli lui ai suoi fratelli. Poiché egli non onora i fratelli, ma solo le loro stuoie e i loro maiali, e per questo li tiene per sé. Se amasse e onorasse i suoi fratelli e non fosse in lotta per il “mio” e per il “tuo”, allora porterebbe a questi le stuoie per farli partecipare al suo grande “mio”. Dividerebbe con loro la sua stuoia, anziché gettarli nella notte buia.
Ma il Papalagi non sa che Dio ci ha dato la palma, il banano, il delizioso taro, tutti gli uccelli della foresta e i pesci del mare perché tutti noi potessimo gioirne e goderne. Non solo per pochi, mentre gli altri soffrono di stenti e di miseria. Colui nelle cui mani Dio ha messo molto, deve farne dono al suo fratello, in modo che la frutta non marcisca nella sua mano. Perché Dio tende a tutti le sue molte mani; non vuole che uno abbia più dell’altro o che dica: “Io sto al sole, a te spetta l’ombra”. A tutti noi spetta il sole.
"...eccomi a rapporto!"
Una volta un prete stava rassettando la sua chiesa quando, verso mezzogiorno, decise di trattenersi un po' di piu' per vedere chi veniva a pregare. In quel momento si aprì la porta. Il prete inarcò il sopracciglio, e vide un uomo che si avvicinava lentamente. L'uomo aveva la barba lunga di parecchi giorni, indossava una camicia consunta, aveva una giacca vecchia i cui bordi avevano iniziato a disfarsi. L'uomo si inginocchiò, abbassò la testa, quindi si alzò e uscì. Nei giorni seguenti lo stesso uomo, sempre a mezzogiorno, tornava in chiesa con una valigia... si inginocchiava brevemente e quindi usciva. Il prete, un po' spaventato, iniziò a sospettare che si trattasse di un ladro, quindi un giorno si mise davanti alla porta della chiesa e quando l'uomo stava per uscire dalla chiesa gli chiese: "Che fai qui?". L'uomo gli rispose che lavorava nella zona, che aveva mezz'ora libera per il pranzo e che approfittava di questo momento per pregare, "Rimango solo un momento, sai, perché la fabbrica è un po' lontana, quindi mi inginocchio e dico: "Signore, sono venuto nuovamente per dirti quanto mi hai reso felice quando mi hai liberato dai miei peccati... non so pregare molto bene, però ti penso tutti i giorni... Beh, Gesù... qui c'è Jim a rapporto". Il prete si sentì uno stupido, disse a Jim che andava bene, e che era il benvenuto in chiesa quando voleva. Poi si inginocchiò davanti al pulpito e si sentì riempire il cuore di un grande calore. E mentre lacrime di gioia rigavano le sue guance, dentro di se' ripeteva la preghiera di Jim: "SONO VENUTO SOLO PER DIRTI, SIGNORE, QUANTO SONO FELICE DA QUANDO TI HO INCONTRATO ATTRAVERSO MIEI SIMILI E MI HAI LIBERATO DAI MIEI PECCATI... NON SO MOLTO BENE COME PREGARE, PERO' PENSO A TE TUTTI I GIORNI... BEH GESU'... ECCOMI A RAPPORTO!".
Un dato giorno il sacerdote notò che il vecchio Jim non era venuto. I giorni passavano e Jim non tornava a pregare. Il padre iniziò a preoccuparsi e un giorno andò alla fabbrica a chiedere di lui; lì gli dissero che Jim era malato e che i medici erano molto preoccupati per il suo stato di salute, ma che tuttavia credevano che avrebbe potuto farcela. Nella settimana in cui rimase in ospedale Jim portò molti cambiamenti, sorrideva sempre e la sua allegria era contagiosa. La caposala non poteva capire perché Jim fosse tanto felice dato che non aveva mai ricevuto né fiori, né biglietti augurali, né visite. Il sacerdote si avvicinò al letto di Jim con l'infermiera e questa gli disse, mentre Jim ascoltava: "Nessun amico è venuto a trovarlo, non ha nessuno".
Sorpreso il vecchio Jim disse sorridendo: "L'infermiera si sbaglia... però lei non può sapere che TUTTI I GIORNI, da quando sono arrivato qui, a MEZZOGIORNO, un mio amato amico viene, si siede sul letto, mi prende le mani, si inclina su di me e mi dice: "SONO VENUTO SOLO PER DIRTI, JIM, QUANTO SONO STATO FELICE DA QUANDO HO TROVATO LA TUA AMICIZIA E TI HO LIBERATO DAI TUOI PECCATI. MI E' SEMPRE PIACIUTO ASCOLTARE LE TUE PREGHIERE, TI PENSO OGNI GIORNO... BEH JIM... QUI C'E' GESU' A RAPPORTO!" Da oggi, ogni giorno, non possiamo perdere l'opportunità di dire a Gesù: "Sono qui a rapporto!"
Un dato giorno il sacerdote notò che il vecchio Jim non era venuto. I giorni passavano e Jim non tornava a pregare. Il padre iniziò a preoccuparsi e un giorno andò alla fabbrica a chiedere di lui; lì gli dissero che Jim era malato e che i medici erano molto preoccupati per il suo stato di salute, ma che tuttavia credevano che avrebbe potuto farcela. Nella settimana in cui rimase in ospedale Jim portò molti cambiamenti, sorrideva sempre e la sua allegria era contagiosa. La caposala non poteva capire perché Jim fosse tanto felice dato che non aveva mai ricevuto né fiori, né biglietti augurali, né visite. Il sacerdote si avvicinò al letto di Jim con l'infermiera e questa gli disse, mentre Jim ascoltava: "Nessun amico è venuto a trovarlo, non ha nessuno".
Sorpreso il vecchio Jim disse sorridendo: "L'infermiera si sbaglia... però lei non può sapere che TUTTI I GIORNI, da quando sono arrivato qui, a MEZZOGIORNO, un mio amato amico viene, si siede sul letto, mi prende le mani, si inclina su di me e mi dice: "SONO VENUTO SOLO PER DIRTI, JIM, QUANTO SONO STATO FELICE DA QUANDO HO TROVATO LA TUA AMICIZIA E TI HO LIBERATO DAI TUOI PECCATI. MI E' SEMPRE PIACIUTO ASCOLTARE LE TUE PREGHIERE, TI PENSO OGNI GIORNO... BEH JIM... QUI C'E' GESU' A RAPPORTO!" Da oggi, ogni giorno, non possiamo perdere l'opportunità di dire a Gesù: "Sono qui a rapporto!"
"...io guardo Lui e Lui guarda me"
Nella vita del Santo Curato d'Ars (Jean-Marie Vianney 1796 - 1859) si racconta di un contadino che, ogni giorno e alla stessa ora, entrava nella chiesa parrocchiale, e si sedeva nell'ultimo banco. Non aveva libri di preghiere con sé perché non sapeva leggere; non aveva tra le mani nemmeno la corona del rosario. Ma ogni giorno, alla stessa ora, arrivava in chiesa e si sedeva nell'ultimo banco...e guardava fisso il Tabernacolo. San Giovanni Maria Vianney, incuriosito da quel modo strano di fare, dopo aver osservato quel suo parrocchiano per qualche giorno, gli si avvicinò e gli chiese: "buon uomo...ho osservato che ogni giorno venite qui, alla stessa ora e nello stesso posto. Vi sedete e state lì. Ditemi: cosa fate?". Il contadino, scostando per un istante lo sguardo dal Tabernacolo rispose al parroco: "Nulla, signor parroco...io guardo Lui e Lui guarda me". E subito, riprese a fissare il Tabernacolo. Il santo Curato d'Ars descrisse quella come una tra i più alti segni di fede e di preghiera.
Il filo è niente senza la corrente...
La donna, che resta forse nella storia la più grande del Novecento, diceva alla gente: “Io sono il filo, la corrente è Dio”.
Questa stessa donna lasciò scritto: “Noi suore andiamo incontro alle persone col Rosario in mano. Lo diciamo così, per strada. È la nostra forza ...” (M. Teresa di Calcutta, Per amore di Gesù, p. 77).
Infine, la stessa donna (avete capito che è Madre Teresa) insegnava: “Le parole che non irradiano la luce di Cristo aumentano solo l'oscurità”. Sarà anche per questo che dalle sue labbra uscivano più avemarie che discorsi o prediche. La preghiera era per lei la luce, in particolare lo era il Rosario. E a proposito di Rosario, ecco un episodio, che riassumo dal Reader's Digest di alcuni anni fa. Una sera del 1981 salì a bordo dell'aereo, in una città americana, tale Jimmy Castle. Con suo stupore, vede prendere posto proprio accanto a sé una suora molto anziana, la pelle solcata da rughe, gli occhi caldi e attenti. Quell'immagine non gli era nuova, l'aveva vista sulle copertine di tante riviste: era Madre Teresa di Calcutta. Mentre l'aereo, con un rullio infernale, decollava dalla pista, Jimmy vide che Madre Teresa snocciolava tra le dita le lente avemarie del rosario, accompagnandole con il devoto movimento delle labbra. Il giovane industriale Jimmy, cattolico, ma lontano da ogni pratica religiosa, percepì come una grande pace nello stare vicino a quella donna eccezionale e nel sentire il respiro della sua anima assetata di Dio. La guardò, lei sembrò sorridere e guardarlo a sua volta. Dopo un po', infatti, smise le avemarie e gli porse la sua corona: “Giovanotto, dice spesso il rosario?”. “Veramente no", ammise lui un po' imbarazzato”. “Tenga questo e da oggi lo reciterà ogni giorno ... ". Da allora Jimmy asserisce di aver cambiato vita. Sul ritmo delle avemarie, nel ricordo commosso di quella incredibile Suora, la sua anima cerca Dio. Anche la professione di trafficante dei denaro ha subito profonda revisione.
sabato 7 marzo 2009
Oggi e ieri
Il vigliacco di oggi
è il bambino che schernivamo ieri.
L´aguzzino di oggi
è il bambino che frustavamo ieri.
Il bugiardo di oggi
è il bambino a cui non credevamo ieri.
Il contestatore di oggi
è il bambino che opprimevamo ieri.
L´innamorato di oggi
è il bambino che carezzavamo ieri.
Il non complessato di oggi
è il bambino che incoraggiavamo ieri.
Il giusto di oggi
è il bimbo che non calunniavamo ieri.
L´espansivo di oggi
è il bimbo che non trascuravamo ieri.
Il saggio di oggi
è il bimbo che non ammaestravamo ieri.
L´indulgente di oggi
è il bimbo che perdonavamo ieri.
L´uomo che respira amore e bellezza
è il bimbo che viveva nella gioia anche ieri.
Ronald Russel, Politico (1904 - 1974)
è il bambino che schernivamo ieri.
L´aguzzino di oggi
è il bambino che frustavamo ieri.
Il bugiardo di oggi
è il bambino a cui non credevamo ieri.
Il contestatore di oggi
è il bambino che opprimevamo ieri.
L´innamorato di oggi
è il bambino che carezzavamo ieri.
Il non complessato di oggi
è il bambino che incoraggiavamo ieri.
Il giusto di oggi
è il bimbo che non calunniavamo ieri.
L´espansivo di oggi
è il bimbo che non trascuravamo ieri.
Il saggio di oggi
è il bimbo che non ammaestravamo ieri.
L´indulgente di oggi
è il bimbo che perdonavamo ieri.
L´uomo che respira amore e bellezza
è il bimbo che viveva nella gioia anche ieri.
Ronald Russel, Politico (1904 - 1974)
venerdì 6 marzo 2009
Amami così come sei...
Il Signore mi parla...
Conosco la tua miseria, le lotte, le difficoltà della tua anima; la debolezza, le infermità del tuo corpo; so la tua viltà, i tuoi peccati, i tuoi limiti: però ti dico ugualmente: Amami così come sei, dammi il tuo cuore. Se tu aspetti di diventare un angelo per darmi Amore... non mi amerai mai. Anche se ricadi spesso in queste colpe che non vorresti nemmeno conoscere, anche se sei così debole nella pratica della virtù, non ti permetterò mai di non amarmi.
Amami così come sei. Ad ogni istante e in qualunque posizione tu ti trovi, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nella infedeltà, amami!
Amami così come sei. Voglio l'amore del tuo cuore “povero”. Se per amarmi aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai. Credi forse che non potrei fare di ogni granellino di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Credi che non potrei, con un solo cenno della mia volontà, far sorgere dal niente migliaia di santi, mille volti più perfetti e più amanti di quelli gia esistiti finora? Non sai che sono l'Onnipotente? Oppure preferisco lasciare per sempre nel nulla questa moltitudine di esseri meravigliosi, e aspettare il tuo “povero” amore. Lascia che ti ami! Voglio il tuo cuore! Sì, ho in programma di formarti, ma ‑ in attesa ‑ ti amo così come sei. Mi piace veder sorgere quel filino di amore dal fondo della tua miseria. Amo tutto di te: anche la tua debolezza. Amo l'amore dei “poveri”. É il canto del tuo cuore che voglio. Credi che abbia bisogno della tua scienza, dei tuoi talenti...? Non ti domando le tue virtù. E, se te ne dessi io, sei talmente debole che subito ti inorgogliresti. Avrei potuto destinarti a grandi cose. No: tu sarai il “servo umile” e “inutile”. Ti prenderò anche il poco che hai: perché ti ho creato solo per l'amore. Ama: e l'amore ti farà fare tutto il resto senza che nemmeno te ne accorga. Cerca solo di riempire d'amore il momento presente.
Ecco, sono qui, fuori come un mendicante, e busso alla porta del tuo cuore: io, il Signore. Busso e aspetto. Affrettati ad aprirmi: non trovare la scusa della tua povertà! Se tu conoscessi pienamente la tua indigenza, moriresti di spavento e di dolore! Amami così come sei! La sola cosa che potrebbe ferirmi, sarebbe vederti dubitare del mio amore. Vederti non aver fiducia in me... Io sono il Fedele!
Se tu dovrai soffrire, io ti darò conforto; se tu dovrai lottare, io sarò accanto a te. Tu dammi il tuo cuore: io ti darò di amare molto di più di quanto tu stesso possa desiderare! Non aspettare di essere santo! Ricordati: amami così come sei.
Se per darti all'Amore aspetti di essere santo... tu non mi amerai mai!
Gaston Courtois (1897 – 1970), prete, psicologo e scrittore francese
Conosco la tua miseria, le lotte, le difficoltà della tua anima; la debolezza, le infermità del tuo corpo; so la tua viltà, i tuoi peccati, i tuoi limiti: però ti dico ugualmente: Amami così come sei, dammi il tuo cuore. Se tu aspetti di diventare un angelo per darmi Amore... non mi amerai mai. Anche se ricadi spesso in queste colpe che non vorresti nemmeno conoscere, anche se sei così debole nella pratica della virtù, non ti permetterò mai di non amarmi.
Amami così come sei. Ad ogni istante e in qualunque posizione tu ti trovi, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nella infedeltà, amami!
Amami così come sei. Voglio l'amore del tuo cuore “povero”. Se per amarmi aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai. Credi forse che non potrei fare di ogni granellino di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Credi che non potrei, con un solo cenno della mia volontà, far sorgere dal niente migliaia di santi, mille volti più perfetti e più amanti di quelli gia esistiti finora? Non sai che sono l'Onnipotente? Oppure preferisco lasciare per sempre nel nulla questa moltitudine di esseri meravigliosi, e aspettare il tuo “povero” amore. Lascia che ti ami! Voglio il tuo cuore! Sì, ho in programma di formarti, ma ‑ in attesa ‑ ti amo così come sei. Mi piace veder sorgere quel filino di amore dal fondo della tua miseria. Amo tutto di te: anche la tua debolezza. Amo l'amore dei “poveri”. É il canto del tuo cuore che voglio. Credi che abbia bisogno della tua scienza, dei tuoi talenti...? Non ti domando le tue virtù. E, se te ne dessi io, sei talmente debole che subito ti inorgogliresti. Avrei potuto destinarti a grandi cose. No: tu sarai il “servo umile” e “inutile”. Ti prenderò anche il poco che hai: perché ti ho creato solo per l'amore. Ama: e l'amore ti farà fare tutto il resto senza che nemmeno te ne accorga. Cerca solo di riempire d'amore il momento presente.
Ecco, sono qui, fuori come un mendicante, e busso alla porta del tuo cuore: io, il Signore. Busso e aspetto. Affrettati ad aprirmi: non trovare la scusa della tua povertà! Se tu conoscessi pienamente la tua indigenza, moriresti di spavento e di dolore! Amami così come sei! La sola cosa che potrebbe ferirmi, sarebbe vederti dubitare del mio amore. Vederti non aver fiducia in me... Io sono il Fedele!
Se tu dovrai soffrire, io ti darò conforto; se tu dovrai lottare, io sarò accanto a te. Tu dammi il tuo cuore: io ti darò di amare molto di più di quanto tu stesso possa desiderare! Non aspettare di essere santo! Ricordati: amami così come sei.
Se per darti all'Amore aspetti di essere santo... tu non mi amerai mai!
Gaston Courtois (1897 – 1970), prete, psicologo e scrittore francese
Chiesi a Dio...
Chiesi a Dio di essere forte
per eseguire progetti grandiosi:
Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute
per realizzare grandi imprese:
Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto:
mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere
perché gli uomini avessero bisogno di me:
Egli mi ha dato l’umiliazione
perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita
mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo,
mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno
e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato, o mio Signore, fra tutti gli uomini
nessuno possiede quello che ho io”.
Kirk Kilgour, Sportivo
per eseguire progetti grandiosi:
Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute
per realizzare grandi imprese:
Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto:
mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere
perché gli uomini avessero bisogno di me:
Egli mi ha dato l’umiliazione
perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita
mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo,
mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno
e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato, o mio Signore, fra tutti gli uomini
nessuno possiede quello che ho io”.
Kirk Kilgour, Sportivo
Un amore che mi attende...
Che cosa succederà dall'altra parte
quando per me tutto si sarà volto
verso l'eternità, io non lo so.
Io credo; credo soltanto che un amore mi attende.
So soltanto che allora, povero e senza pesi,
dovrò fare il bilancio della mia vita.
Ma non dispero perché io credo,
credo proprio che un amore mi attende.
Ciò che ho creduto,
lo crederò ancora più fortemente al di là della morte.
É verso un amore che io cammino
quando percorro il mio sentiero;
è verso l'amore che io discendo dolcemente.
Se ho paura — e perché mai? — ricordatemi
semplicemente che un amore mi attende.
Questo amore mi aprirà totalmente
alla sua gioia, alla sua luce.
Sì, o Padre, io vengo a Te in quel vento
di cui non si sa né donde venga né dove va,
...verso il Tuo amore che mi attende! Amen
Giovanni della Croce (1540 - 1591), al secolo Juan de Yepes Álvarez, santo, presbitero e poeta spagnolo, cofondatore dell'Ordine dei Carmelitani scalzi
So che questo e' vero...
Si dice che Mosè non ti potevaguardare faccia a faccia
e che si levò i sandali per parlarti,
e questo è vero.
Che Isaia profeta si purificò le labbra
con un carbone acceso per
pronunciare il tuo nome,
e questo è vero.
Si dice che il tuo popolo
ha curvato davanti a te la sua fronte nella polvere,
davanti a te Dio grandissimo per pregarti,
e questo è vero.
Ma tu sei il Dio che ama
e ti rifiuti di vedere l'uomo tremare
davanti a te.
E per farti veramente conoscere,
hai preso posto in mezzo agli uomini.
Tu sei divenuto tutto prossimo.
Tu sei venuto in Gesù Cristo,
a mostrare il tuo vero volto lucente di sudore,
corrugato per le preoccupazioni,
inquieto per la fame,
illuminato da mille soli per l'amicizia,
spezzato dal dolore.
Io so che questo è vero.
Io non ho più pauraperché Dio è con me.
Dio tra gli uomini,
Dio così vicino.
Dio.
Uomo.
Io so che questo è vero.
Buon Natale!
e che si levò i sandali per parlarti,
e questo è vero.
Che Isaia profeta si purificò le labbra
con un carbone acceso per
pronunciare il tuo nome,
e questo è vero.
Si dice che il tuo popolo
ha curvato davanti a te la sua fronte nella polvere,
davanti a te Dio grandissimo per pregarti,
e questo è vero.
Ma tu sei il Dio che ama
e ti rifiuti di vedere l'uomo tremare
davanti a te.
E per farti veramente conoscere,
hai preso posto in mezzo agli uomini.
Tu sei divenuto tutto prossimo.
Tu sei venuto in Gesù Cristo,
a mostrare il tuo vero volto lucente di sudore,
corrugato per le preoccupazioni,
inquieto per la fame,
illuminato da mille soli per l'amicizia,
spezzato dal dolore.
Io so che questo è vero.
Io non ho più pauraperché Dio è con me.
Dio tra gli uomini,
Dio così vicino.
Dio.
Uomo.
Io so che questo è vero.
Buon Natale!
... non si ricorda più di me?
Un vecchio prete mi raccontò la storia seguente. Mi sono domandato spesso se fosse vera o inventata; ma nessuno è stato capace di dirmelo.
Qualche secolo fa un grande pittore fu incaricato di dipingere un affresco per la cattedrale di una città italiana. Il soggetto era la vita di Cristo. Per molti anni l'artista lavorò indefessamente e infine il dipinto fu condotto a termine, salvo per le due figure più importanti: Gesù adolescente e Giuda Iscariota. Il pittore girò in lungo e in largo in cerca dei modelli per le due figure.
Un giorno, mentre camminava in un vecchio quartiere della città, s'imbatté in un gruppo di ragazzi che giocavano per la strada. Fra loro ce n'era uno di quindici anni che colpì subito la fantasia del pittore. Aveva un viso d'angelo, molto sporco, forse, ma proprio quello che gli ci voleva.
L'artista si portò a casa il ragazzo, che posò pazientemente tutti i giorni, finché il volto di Gesù adolescente fu finito.
Ma ancora il pittore non aveva trovato il modello adatto per raffigurare Giuda. Per anni e anni, tormentato dal timore che il suo capolavoro restasse incompiuto, continuò le ricerche.
La storia dell'affresco non finito si diffuse ovunque, e molti, convinti d'avere un aspetto malvagio, si offrirono di posare per il volto di Giuda. Ma il vecchio pittore cercava invano il volto che potesse servire a ritrarre Giuda come se l'era immaginato: un uomo corrotto dalla vita, logorato dalla cupidigia e dal vizio.
Un pomeriggio, mentr'era seduto all'osteria davanti al suo bicchiere di vino quotidiano, un uomo lacero e smunto varcò la soglia barcollando e s'afflosciò a terra. "Vino, vino" implorava. Il pittore lo sollevò ed esaminò quel volto, che gli fece impressione; pareva che portasse il segno di tutti i peccati dell'umanità. Pieno di emozione, il vecchio pittore aiutò il disgraziato a rialzarsi in piedi.
- Vieni con me - gli disse. Ti darò da bere, da mangiare e da vestirti. Ecco, finalmente, il modello di Giuda! Per molti giorni, fino a tardi, il pittore lavorò febbrilmente per finire il suo capolavoro. A mano a mano che il lavoro procedeva, avvenne un cambiamento nel modello. Alla sua espressione ebete subentra va una tensione strana, e gli occhi fissavano pieni d'orrore il suo ritratto. Un giorno, accortosi del turbamento del modello, il pittore interruppe il lavoro: Vorrei aiutarti, figlio mio, - gli disse - cos'è che ti tormenta tanto? L'altro ruppe in singhiozzi nascondendosi il volto tra le mani. Poi, dopo essere rimasto a lungo così, alzò gli occhi verso il vecchio pittore: - Allora non si ricorda più di me? Tanti anni fa io feci da modello per Gesù adolescente.
La festa del Natale ci fa capire che è sempre l'occasione e il tempo opportuno per ricuperare il nostro volto di adolescenti e di fanciulli, nascendo anche in noi, come Gesù, da Maria, per opera dello Spirito Santo; rinascendo a vita nuova nel Sacramento della Riconciliazione che dà pace all’anima.
Qualche secolo fa un grande pittore fu incaricato di dipingere un affresco per la cattedrale di una città italiana. Il soggetto era la vita di Cristo. Per molti anni l'artista lavorò indefessamente e infine il dipinto fu condotto a termine, salvo per le due figure più importanti: Gesù adolescente e Giuda Iscariota. Il pittore girò in lungo e in largo in cerca dei modelli per le due figure.
Un giorno, mentre camminava in un vecchio quartiere della città, s'imbatté in un gruppo di ragazzi che giocavano per la strada. Fra loro ce n'era uno di quindici anni che colpì subito la fantasia del pittore. Aveva un viso d'angelo, molto sporco, forse, ma proprio quello che gli ci voleva.
L'artista si portò a casa il ragazzo, che posò pazientemente tutti i giorni, finché il volto di Gesù adolescente fu finito.
Ma ancora il pittore non aveva trovato il modello adatto per raffigurare Giuda. Per anni e anni, tormentato dal timore che il suo capolavoro restasse incompiuto, continuò le ricerche.
La storia dell'affresco non finito si diffuse ovunque, e molti, convinti d'avere un aspetto malvagio, si offrirono di posare per il volto di Giuda. Ma il vecchio pittore cercava invano il volto che potesse servire a ritrarre Giuda come se l'era immaginato: un uomo corrotto dalla vita, logorato dalla cupidigia e dal vizio.
Un pomeriggio, mentr'era seduto all'osteria davanti al suo bicchiere di vino quotidiano, un uomo lacero e smunto varcò la soglia barcollando e s'afflosciò a terra. "Vino, vino" implorava. Il pittore lo sollevò ed esaminò quel volto, che gli fece impressione; pareva che portasse il segno di tutti i peccati dell'umanità. Pieno di emozione, il vecchio pittore aiutò il disgraziato a rialzarsi in piedi.
- Vieni con me - gli disse. Ti darò da bere, da mangiare e da vestirti. Ecco, finalmente, il modello di Giuda! Per molti giorni, fino a tardi, il pittore lavorò febbrilmente per finire il suo capolavoro. A mano a mano che il lavoro procedeva, avvenne un cambiamento nel modello. Alla sua espressione ebete subentra va una tensione strana, e gli occhi fissavano pieni d'orrore il suo ritratto. Un giorno, accortosi del turbamento del modello, il pittore interruppe il lavoro: Vorrei aiutarti, figlio mio, - gli disse - cos'è che ti tormenta tanto? L'altro ruppe in singhiozzi nascondendosi il volto tra le mani. Poi, dopo essere rimasto a lungo così, alzò gli occhi verso il vecchio pittore: - Allora non si ricorda più di me? Tanti anni fa io feci da modello per Gesù adolescente.
La festa del Natale ci fa capire che è sempre l'occasione e il tempo opportuno per ricuperare il nostro volto di adolescenti e di fanciulli, nascendo anche in noi, come Gesù, da Maria, per opera dello Spirito Santo; rinascendo a vita nuova nel Sacramento della Riconciliazione che dà pace all’anima.
Cara mamma, è notte...
Cara mamma,
è notte. Quando ti sarai alzata, me ne sarò già andato. Voglio spiegarti perché me ne vado.
Per trent'anni ho osservato la gente del paese e ho cercato di capire ciò che li preoccupa, li fa alzare ogni giorno, e cosa sognano la notte.
Ismaele, quello della profumeria, e metà del paese con lui, non fanno altro che pensare ad arricchirsi e sembrano convinti che più cose hanno, più si sentono realizzati. Il sindaco e il suo codazzo si sono montati la testa, spadroneggiano e fanno impazzire la gente. I signori del tempio e i loro fans si considerano già degli arrivati, e pensano che anche Dio deve batter loro le mani.
Mi sento come afferrato dalla vita, mamma. Sento un fuoco dentro di me che mi divora, un desiderio imperioso che mi trascina a dire alla gente le cose più semplici e belle che i giornali non dicono.
Lo so, mamma, che sono soltanto un povero falegname, senza un diploma, e non sono abbastanza grande per aprire bocca in pubblico. Ma non voglio aspettare ancora, essere "più maturo"...
Mamma, c'è troppa infelicità intorno a me perché io continui a fare sedie a dondolo per pochi clienti. Troppi sono i poveri, i ciechi, gli zoppi, i muti in questo nostro povero mondo dove si vive e si muore infelici... a meno che qualcuno sia disposto a rinnovarlo secondo il cuore di Dio.
Ora si fa tardi. Ti scriverò. I vicini e il buon Dio ti terranno compagnia nel grande abbraccio di amore che unisce cielo e terra e che gli uomini spesso faticano a trovare.
E quando riuscirò a mettere insieme un gruppetto di gente che vive e ama nella maniera con cui si deve vivere e amare, allora potrai venire e unirti a noi, benedetta fra tutte le donne, piena di grazia.
Tuo Gesù
[ That’s my boy, Collins Ed.]
José Luis Cortés, Scrittore, illustratore e umorista spagnoloLa pecorella rubata
L'appropriazione della "roba" non è sottrazione ad altri quanto possesso proprio di ciò che attrae e diletta. Non voglio così dicendo formulare un giudizio sul furto, ma semplicemente indagare su i furtarelli dei ragazzi.
Un giorno, come per magia, fui attirato dalla vista di un coltello tascabile, nichelato e con il manico in osso.Se dovessi dire che cosa mi ripromettessi possedendolo non saprei assolutamente dirlo.
Io penso che fossi come ammaliato e stregato da quella vista.Gironzolai intorno al banco nella piazza del mercato. Più volte mi fermai per poi allontanarmi. E ogni volta tornavo all'ascolto. Una di queste lo presi in mano per ammirarlo, girandolo e rigirandolo, quasi mi scottasse. Dopo una mezz'ora mi feci di nuovo vivo deciso a tentare il colpo. La gente stava sfollando e i venditori ri ponevano svogliatamente la merce. Il coltellinaio si apprestava a caricare nel furgoncino le cassette e per questo andava indietro e avanti, voltando necessariamente le spalle. Con mossa fulminea allungai la mano, che all'ultimo istante sembrò incepparsi. Ci volle da parte mia un atto risoluto di volontà per costringerla a scattare.
Il piccolo oggetto fu agguantato. Ora non mi restava che andarmene.
Per non compromettere il risultato, mi trattenni ancora per qualche istante, durante il quale il venditore incrociò il mio sguardo. Occupato com'era nel suo lavoro, non si accorse del mio disagio. Lo interpretò come il desiderio inappagato di un ragazzo senza soldi. Abbozzò un sorriso e poi si volse. Fu in quel preciso momento che io mi dileguai.
Nascosi il coltello perché mia madre non lo scoprisse chiedendomi la provenienza. Dopo qualche giorno la febbre del coltello era passata e io dimenticai l'oggetto del mio furto.Prima di possederla una cosa crea in noi spasimo di desiderio; una volta ottenuta provoca non dico nausea e disgusto, ma indifferenza.
Una vera passione produsse in me una figurina in gesso del presepio.Per due anni almeno fui tentato di rubarla. Era una pecorella con il muso camita, direbbe il poeta Umberto Sala, posata sul muschio, isolata dal gregge, quasi appartata. Volendo l'avrei potuta agguantare. Solo che avevo una gran paura d'essere scoperto. La chiesa non era molto frequentata, specie durante i giorni feriali. Era molto buia e quell'oscurità sacra mi lasciava perplesso.Un giorno, dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, entrai in chiesa con la risoluta volontà di perpetrare il mio furto. Andai diretto alla cappella laterale dove era stato allestito il presepio. Mi soffermai alquanto prima di decidermi. Mi guardai intorno per vedere che non ci fosse nessuno. Ero solo. Dalla sacrestia mi giungeva un rumore indistinto. Il sacrestano stava parlottando con qualche frate. La porta era socchiusa. Mi feci animo avvicinandomi più che potevo alla statuina. Era a portata di mano. Mi protesi in avanti e con celerità felina la carpii.
Tremava la bestiola. O ero io che tremavo tutto? La nascosi in una tasca e a passi svelti raggiunsi la porta della chiesa.Uscii di corsa senza voltarmi. La piazzetta era deserta. Mi sembrava di essere inseguito e che mille occhi mi guardassero dalle finestre. Era una suggestione, dalla quale non mi liberai che dopo aver guadagnato il vicolo di casa mia.
Sotto il portico tirai fuori la pecorella rimirandola a lungo.
E ora dove l'avrei nascosta? Nel mio presepio non potevo collocarla. Era troppo bella. I miei parenti mi avrebbero chiesto chi me l'avesse regalata. La riposi in un nascondiglio. Alla fine fui costretto a ucciderla. Con un martello la frantumai riducendola in tanti pezzi minuti. Quindi gettai i poveri resti nella terra di un campo.
Non mandò un lamento. Si lasciò uccidere senza emettere un belato.
Eppure i suoi occhi dolcissimi non posso scordarli. Mi fissa ancora, muta.
Un giorno, come per magia, fui attirato dalla vista di un coltello tascabile, nichelato e con il manico in osso.Se dovessi dire che cosa mi ripromettessi possedendolo non saprei assolutamente dirlo.
Io penso che fossi come ammaliato e stregato da quella vista.Gironzolai intorno al banco nella piazza del mercato. Più volte mi fermai per poi allontanarmi. E ogni volta tornavo all'ascolto. Una di queste lo presi in mano per ammirarlo, girandolo e rigirandolo, quasi mi scottasse. Dopo una mezz'ora mi feci di nuovo vivo deciso a tentare il colpo. La gente stava sfollando e i venditori ri ponevano svogliatamente la merce. Il coltellinaio si apprestava a caricare nel furgoncino le cassette e per questo andava indietro e avanti, voltando necessariamente le spalle. Con mossa fulminea allungai la mano, che all'ultimo istante sembrò incepparsi. Ci volle da parte mia un atto risoluto di volontà per costringerla a scattare.
Il piccolo oggetto fu agguantato. Ora non mi restava che andarmene.
Per non compromettere il risultato, mi trattenni ancora per qualche istante, durante il quale il venditore incrociò il mio sguardo. Occupato com'era nel suo lavoro, non si accorse del mio disagio. Lo interpretò come il desiderio inappagato di un ragazzo senza soldi. Abbozzò un sorriso e poi si volse. Fu in quel preciso momento che io mi dileguai.
Nascosi il coltello perché mia madre non lo scoprisse chiedendomi la provenienza. Dopo qualche giorno la febbre del coltello era passata e io dimenticai l'oggetto del mio furto.Prima di possederla una cosa crea in noi spasimo di desiderio; una volta ottenuta provoca non dico nausea e disgusto, ma indifferenza.
Una vera passione produsse in me una figurina in gesso del presepio.Per due anni almeno fui tentato di rubarla. Era una pecorella con il muso camita, direbbe il poeta Umberto Sala, posata sul muschio, isolata dal gregge, quasi appartata. Volendo l'avrei potuta agguantare. Solo che avevo una gran paura d'essere scoperto. La chiesa non era molto frequentata, specie durante i giorni feriali. Era molto buia e quell'oscurità sacra mi lasciava perplesso.Un giorno, dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, entrai in chiesa con la risoluta volontà di perpetrare il mio furto. Andai diretto alla cappella laterale dove era stato allestito il presepio. Mi soffermai alquanto prima di decidermi. Mi guardai intorno per vedere che non ci fosse nessuno. Ero solo. Dalla sacrestia mi giungeva un rumore indistinto. Il sacrestano stava parlottando con qualche frate. La porta era socchiusa. Mi feci animo avvicinandomi più che potevo alla statuina. Era a portata di mano. Mi protesi in avanti e con celerità felina la carpii.
Tremava la bestiola. O ero io che tremavo tutto? La nascosi in una tasca e a passi svelti raggiunsi la porta della chiesa.Uscii di corsa senza voltarmi. La piazzetta era deserta. Mi sembrava di essere inseguito e che mille occhi mi guardassero dalle finestre. Era una suggestione, dalla quale non mi liberai che dopo aver guadagnato il vicolo di casa mia.
Sotto il portico tirai fuori la pecorella rimirandola a lungo.
E ora dove l'avrei nascosta? Nel mio presepio non potevo collocarla. Era troppo bella. I miei parenti mi avrebbero chiesto chi me l'avesse regalata. La riposi in un nascondiglio. Alla fine fui costretto a ucciderla. Con un martello la frantumai riducendola in tanti pezzi minuti. Quindi gettai i poveri resti nella terra di un campo.
Non mandò un lamento. Si lasciò uccidere senza emettere un belato.
Eppure i suoi occhi dolcissimi non posso scordarli. Mi fissa ancora, muta.
[ Il vecchio racconta... ]
Si era ormai sotto Natale...
Si era ormai sotto Natale e bisognava tirar fuori d'urgenza dalla cassetta le statuette del presepe, ripulirle, ritoccarle col colore, riparare le ammaccature. Ed era già tardi, ma don Camillo stava ancora lavorando in canonica. Sentì bussare alla finestra e, poco dopo, andò ad aprire perché si trattava di Peppone.
Peppone si sedette mentre don Camillo riprendeva le sue faccende, e tutt'e due tacquero per un bel po'.
Don Camillo prese a ritoccare con la biacca la barba di San Giuseppe.
«In questo mondaccio un galantuomo non può più vivere!» esclamò Peppone dopo un po'.
«E cosa ti interessa?» domandò don Camillo. «Sei forse diventato un galantuomo?»
«Lo sono sempre stato.»
«Oh, bella! Non l'avrei mai immaginato.»
Don Camillo continuò a ritoccare la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
«Ne avete ancora per molto tempo?» si informò Peppone con ira.
«Se mi dai una mano, in poco si finisce.»
Peppone era meccanico ed aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perché è così, e sono proprio gli omoni grossi che son fatti per le cose piccolissime. Filettava la carrozzeria delle macchine e i raggi delle ruote dei barocci come uno del mestiere.
«Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!» borbottò. «Non mi avrete mica preso per il sagrestano!»
Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affanno rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello.
Peppone si trovò in mano la statuetta senza sapere come, e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là della tavola, senza potersi vedere in faccia perché c'era, fra loro, il barbaglio della lucerna.
«È proprio un mondaccio» disse Peppone. «Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuol dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso.»
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c'era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
«E di me ti fidi?» chiese don Camillo.
«Non lo so.»
«Prova a dirmi qualcosa, così vedi.»
Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra. […]
Ormai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone.
Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera.
Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna.
«II mio bambino sta imparando la poesia di Natale» annunciò con fierezza Peppone. «Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno.»
«Lo so» ammise don Camillo. «Anche la poesia per il vescovo l'aveva imparata a meraviglia.»
Peppone si irrigidì. […]
Vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
«Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo Peppone» disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
«E questo è don Camillo!» esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
«Bah! Fra bestie ci si comprende sempre» concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma ormai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa.
Poi udì risuonarsi all'orecchio le parole della poesia, che ormai sapeva a memoria.
«Quando, la sera della vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!» si rallegrò. «Anche quando comanderà la democrazia proletaria, le poesie bisognerà lasciarle stare. Anzi, renderle obbligatorie!»
II fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l'argine, ed era anch'esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all'acqua, c'eran voluti mille anni.
E soltanto fra venti generazioni l'acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l'ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all'anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha pitturato col pennellino.
Peppone si sedette mentre don Camillo riprendeva le sue faccende, e tutt'e due tacquero per un bel po'.
Don Camillo prese a ritoccare con la biacca la barba di San Giuseppe.
«In questo mondaccio un galantuomo non può più vivere!» esclamò Peppone dopo un po'.
«E cosa ti interessa?» domandò don Camillo. «Sei forse diventato un galantuomo?»
«Lo sono sempre stato.»
«Oh, bella! Non l'avrei mai immaginato.»
Don Camillo continuò a ritoccare la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
«Ne avete ancora per molto tempo?» si informò Peppone con ira.
«Se mi dai una mano, in poco si finisce.»
Peppone era meccanico ed aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perché è così, e sono proprio gli omoni grossi che son fatti per le cose piccolissime. Filettava la carrozzeria delle macchine e i raggi delle ruote dei barocci come uno del mestiere.
«Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!» borbottò. «Non mi avrete mica preso per il sagrestano!»
Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affanno rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello.
Peppone si trovò in mano la statuetta senza sapere come, e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là della tavola, senza potersi vedere in faccia perché c'era, fra loro, il barbaglio della lucerna.
«È proprio un mondaccio» disse Peppone. «Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuol dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso.»
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c'era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
«E di me ti fidi?» chiese don Camillo.
«Non lo so.»
«Prova a dirmi qualcosa, così vedi.»
Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra. […]
Ormai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone.
Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera.
Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna.
«II mio bambino sta imparando la poesia di Natale» annunciò con fierezza Peppone. «Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno.»
«Lo so» ammise don Camillo. «Anche la poesia per il vescovo l'aveva imparata a meraviglia.»
Peppone si irrigidì. […]
Vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
«Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo Peppone» disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
«E questo è don Camillo!» esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
«Bah! Fra bestie ci si comprende sempre» concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma ormai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa.
Poi udì risuonarsi all'orecchio le parole della poesia, che ormai sapeva a memoria.
«Quando, la sera della vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!» si rallegrò. «Anche quando comanderà la democrazia proletaria, le poesie bisognerà lasciarle stare. Anzi, renderle obbligatorie!»
II fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l'argine, ed era anch'esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all'acqua, c'eran voluti mille anni.
E soltanto fra venti generazioni l'acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l'ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all'anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha pitturato col pennellino.
[ Don Camillo. Mondo Piccolo ]
Giovannino Guareschi (1908 - 1968), giornalista, umorista e scrittore italiano
Racconto di Natale
Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.
"Che quantità di Dio! " esclamò sorridendo costui guardandosi intorno - "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. "É di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"
"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa, reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"
Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."
"Senti" disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."
"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."
"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito? Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido. "Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?".
La boutique del mistero
Dino Buzzati (1906 - 1972), giornalista e scrittore italiano
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