venerdì 13 marzo 2009

Il Papalagi ha impoverito Dio

Siamo tutti Papalagi
Tuiavii, un saggio capo indigeno delle isole Samoa, compì un viaggio in Europa agli inizi del 1900, venendo a contatto con gli usi e i costumi del “Papalagi”, l’uomo bianco. Ne trasse delle impressioni folgoranti che gli servirono per mettere in guardia il suo popolo dal fascino di certi tratti della civiltà occidentale.
Erich Scheurmann, un artista tedesco amico di Hermann Hesse fuggito nei mari del Sud per evitare la prima guerra mondiale, raccolse questo tesoro di saggezza e lo pubblicò. Eccone una piccola parte, per scoprire il punto di vista dell’altro su di noi.

Il Papalagi ha impoverito Dio

Il Papalagi ha un modo di pensare particolare ed estremamente contorto. Pensa sempre a come qualcosa possa essergli utile e a come averne ragione.
Pensa sempre a una sola persona, non a tutte quante. E questa persona è lui stesso.
Se un uomo dice: “La mia testa è mia e non appartiene altri che a me”, le cose stanno proprio così, e nessuno può obiettare niente. Nessuno ha più diritti sulla propria mano della persona cui la mano appartiene. Fino a questo punto do ragione al Papalagi. Ma lui dice anche: “la palma è mia.” Perché si trova proprio davanti alla sua capanna. Proprio come se l’avesse fatta crescere lui stesso. La palma però non è affatto sua. Non lo sarà mai. E’ la mano di Dio che dalla terra si tende verso di noi. Dio ha molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d’erba, il mare, il cielo con le sue nuvole, tutte queste sono mani di Dio. Possiamo afferrare queste mani ed esserne contenti, ma non possiamo dire: “La mano di Dio è la mia mano.” Questo però è quello che fa il Papalagi.
“Lau” nella nostra lingua significa mio, e anche tuo: sono quasi la stessa cosa. Nella lingua del Papalagi invece non ci sono parole con significati più diversi di “mio” e “tuo”. E’ mio quel che appartiene unicamente e solamente a me. Tuo è quello che appartiene unicamente e solamente a te.
Per questo il Papalagi dice di tutto quello che si trova vicino alla sua capanna: è mio. Nessuno vi ha diritto eccetto lui stesso. Ovunque tu vada dal Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto, un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice: “Questo è mio, guardati dal prendere ciò che è mio!”. Se tu lo fai, ti urla contro, , ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo perché hai osato toccare il “mio” del tuo prossimo. Accorrono amici e servitori delle supreme autorità, ti mettono in catene, ti portano in prigione e sei disprezzato per tutta la vita.
Affinché uno non prenda le cose che l’altro ha dichiarato essere le sue, viene stabilito molto precisamente con leggi speciali cosa appartiene e non appartiene a uno. In Europa ci sono persone che non fanno altro che sorvegliare che nessuno violi queste leggi, e che al Papalagi non venga tolto niente di quello che ha preso per sé. Il Papalagi vuole convincersi di avere davvero conquistato un diritto, come se Dio gli avesse ceduto la sua proprietà per sempre.. Come se gli appartenessero davvero la palma, l’albero, i fiori, il mare, il cielo e le sue nuvole.
Il Papalagi deve fare tali leggi e avere tali guardiani per il suo molto “mio” in modo che chi ha poco “mio”, o non ne ha affatto, non possa prendere niente del suo “mio”.
Perché dove molti prendono molto per sé, ce ne sono molti che non hanno niente tra le mani.
Non tutti conoscono i trucchi e i segnali segreti per avere molto “mio”, ed è necessario un particolare tipo di valore che non sempre va d’accorso con quello che noi chiamiamo onore.
E può benissimo essere che quelli che hanno poco tra le mani siano migliori di tutti i Papalagi. Ma sicuramente non ce ne sono molti.
I più derubano Dio senza ritegno. Non sanno fare diversamente. Spesso non si accorgono nemmeno di fare qualcosa di male: proprio perché tutti fanno così senza darsi pensiero e provare vergogna. Alcuni ricevono il loro molto “mio” dalle mani del padre al momento della nascita. Ad ogni modo Dio non ha quasi più niente, gli uomini gli hanno preso quasi tutto facendone il loro “mio” e “tuo”.
Non può più dare a tutti nella stessa misura il suo sole, che era destinato a tutti, perché alcuni pretendono di averne più di altri. Nelle belle e assolate piazze siedono spesso solo in pochi, mentre i più catturano miseri raggi di sole standosene all’ombra.
Dio non può provare un’autentica gioia, perché non è più il grandissimo signore nella sua grande casa. Il Papalagi lo rinnega dicendo: “E’ tutto mio”. Non arriva a comprendere quel che fa, anche se sta tanto a pensare.
Se pensasse giustamente, dovrebbe sapere che nulla di quel che possiamo trattenere ci appartiene. E che in fondo non possiamo trattenere niente. Si renderebbe conto che Dio ha dato la sua grande casa perché tutti vi trovino posto e gioia. E sarebbe anche grande abbastanza, e ci sarebbe per ognuno un posticino al sole e una piccola gioia, e per ognuno ci sarebbe una piccola ombra di palma e sicuramente un posticino su cui appoggiare i piedi. Come avrebbe potuto Dio aver dimenticato anche uno solo dei suoi figli! E invece sono in tanti a cercare il piccolo posticino che Dio ha lasciato libero per loro.
Così il Papalagi vive nel timore, nella paura per quello che lui ha preso per sé. Il sonno del Papalagi non è mai proprio profondo, deve essere vigile perché non gli venga tolto di notte quel che ha messo assieme di giorno. E questo “mio” lo tormenta e si prende gioco di lui dicendo: “Poiché mi hai tolto a Dio, io ti torturo e ti procuro molti dolori”.
Ma Dio ha inflitto al Papalagi punizioni ben peggiori dalla sua paura. Gli ha dato la lotta tra quelli che hanno poco o niente “mio” e quelli che si sono presi un grande “mio”.
Questa lotta è dura e accanita e viene combattuta notte e giorno. E’ la lotta che tutti subiscono e che a tutti toglie la gioia di vivere. Quelli che hanno, devono dare, ma non vogliono dare niente. Quelli che non hanno niente, vogliono avere anche loro, ma non ricevono niente. Ma anche questi sono solo raramente difensori di Dio. Sono solo arrivati troppo tardi al saccheggio o sono stati incapaci, o gli è mancata la possibilità. Sono in pochissimi a riflettere sul fatto che chi è stato derubato è Dio. E solo molto raramente si sente il richiamo di un uomo giusto, che esorta e rimettere tutto nelle mani di Dio.
Fratelli, che cosa pensate di un uomo che ha una capanna grande abbastanza da accogliere un intero villaggio delle Samoa, e che non offre il suo tetto al viandante per una notte? Cosa pensate di un uomo che tiene in mano un grappolo di banane e non ne dà neanche una all’affamato? Vedo l’indignazione nei vostri occhi e grande disprezzo sulle vostre labbra. E pensate: anche se ha cento stuoie non ne dà neanche una a chi non ne ha nessuna. E per di più fa all’altro una colpa di non averne. E se la sua capanna fosse piena fino al tetto di provviste, molte di più di quante potrebbero mangiarne in anni lui e la sua famiglia, non andrebbe alla ricerca di quelli che non hanno niente da mangiare e che sono pallidi e affamati. E ci sono molti Papalagi che sono pallidi e affamati.
La palma si spoglia delle sue foglie e dei suoi frutti quando sono maturi. Il Papalagi vive come se la palma volesse trattenere le sue foglie e i suoi frutti: “Sono miei! Non ne potete avere e non potete mangiarne!”. Come farebbe allora la palma a portare nuovi frutti? La Palma ha molta più saggezza di un Papalagi.
Anche tra noi ci sono molti che possiedono più degli altri, e rendiamo onore al capo, che molte stuoie e molti maiali. Ma quest’onore vale solo per lui, e non per le stuoie e i maiali, che gli abbiamo dato noi stessi per manifestare la nostra gioia e lodare il suo valore e la sua saggezza. Il Papalagi, invece, ammira nel fratello le molte stuoie e i suoi maiali e si preoccupa poco del suo valore e della sua saggezza. Un fratello senza stuoie e senza maiali gode di un ben poco onore.
Poiché le stuoie e i maiali non possono andare da soli dai poveri e dagli affamati, il Papalagi non vede perché dovrebbe portarli lui ai suoi fratelli. Poiché egli non onora i fratelli, ma solo le loro stuoie e i loro maiali, e per questo li tiene per sé. Se amasse e onorasse i suoi fratelli e non fosse in lotta per il “mio” e per il “tuo”, allora porterebbe a questi le stuoie per farli partecipare al suo grande “mio”. Dividerebbe con loro la sua stuoia, anziché gettarli nella notte buia.
Ma il Papalagi non sa che Dio ci ha dato la palma, il banano, il delizioso taro, tutti gli uccelli della foresta e i pesci del mare perché tutti noi potessimo gioirne e goderne. Non solo per pochi, mentre gli altri soffrono di stenti e di miseria. Colui nelle cui mani Dio ha messo molto, deve farne dono al suo fratello, in modo che la frutta non marcisca nella sua mano. Perché Dio tende a tutti le sue molte mani; non vuole che uno abbia più dell’altro o che dica: “Io sto al sole, a te spetta l’ombra”. A tutti noi spetta il sole.

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