giovedì 27 aprile 2017

Il cavallo, il bue, il cane e l'uomo

Quando Zeus creò l'uomo, gli diede un'esistenza fugace. L'uomo però, usando la propria intelligenza, quando cominciò l'inverno si costruì una casa e lì viveva. Un giorno che ci fu molto freddo e pioveva, il cavallo, non potendo più resistere, arrivò di corsa alla casa dell'uomo e lo pregò di metterlo al riparo. Gli rispose che lo avrebbe fatto soltanto a condizione che esso gli donasse una parte dei suoi anni. Il cavallo accettò volentieri e, dopo non molto, arrivò anche il bue, che non poteva neanche lui resistere al gelo. E poiché l'uomo gli disse, come già al cavallo, che non lo avrebbe ospitato, se prima non gli avesse ceduto un certo numero di anni della sua vita, esso pure, donatagliene una parte, fu accettato. Da ultimo arrivò il cane, intirizzito dal freddo, e, ceduta una parte della sua esistenza, ottenne un riparo.
Ecco perché gli uomini durante il tempo che era stato loro assegnato da Zeus sono puri e buoni; quando vivono gli anni che erano del cavallo diventano fieri e vanagloriosi; quando arrivano agli anni del bue diventano autoritari e quando poi concludono la vita con gli anni del cane, sono rabbiosi e abbaiano continuamente. Ecco una favola che ben si adatta ad un vecchio collerico e brontolone.

Esopo (620 a.C. circa – 564 a.C.), scrittore greco



mercoledì 26 aprile 2017

Gioventù (Youth)


La gioventù non è un periodo della vita:
è una forma del pensiero, è una condizione della volontà,
una facoltà dell’immaginazione, una forza pura dei sentimenti,
un predominio del coraggio sulla timidezza
e della aspirazione di avventura sull’amore di comodità.

Nessuno diviene vecchio semplicemente perché vive un certo numero di anni:
gli individui invecchiano solo perché disertano i loro ideali.

Gli anni rendono rugosa la pelle, ma rinunciare all'entusiasmo rende rugosa l’anima.
Preoccupazione, dubbio, mancanza di fiducia, paura e disperazione,
fanno piegare il capo e rigettare nella polvere lo spirito che vuole elevarsi.

Sia a sessant'anni che a sedici, vi è nel cuore di ogni essere umano
l’amore per la meraviglia, la dolce sorpresa delle stelle e delle cose
e dei pensieri che assomigliano alle stelle, indomabile sfida agli eventi,
l’inesauribile giovanile appetito per il "poi" e la gioia del gioco della vita.

Siamo giovani quanto la nostra fede, vecchi quanto il nostro dubbio;
giovani quanto la fiducia di noi stessi, vecchi quanto la nostra paura;
giovani quanto la nostra speranza, vecchi quanto la nostra delusione.

Rimarrete giovani finché il vostro cuore sarà recettivo
ai messaggi di bellezza, gioia, coraggio, grandiosità e forza della natura,
dall’uomo e dall’infinito.

Quando tutto sarà a terra, quando il più recondito angolo del vostro cuore
sarà ricoperto dalla neve del pessimismo e dal ghiaccio del cinismo,
allora e solo allora sarete veramente vecchi.
E che Dio abbia pietà della vostra anima.

Samuel Ullman (1840 - 1924) uomo d'affari, poeta e filantropo americano

lunedì 24 aprile 2017

La preghiera della serenità


Signore, concedimi la serenità 
per accettare le cose che non posso cambiare, 
il coraggio per cambiare le cose che posso 
e la saggezza per conoscere la differenza. 

Vivendo un giorno per volta; 
assaporando un momento per volta; 
accettando la difficoltà come sentiero per la pace. 
Prendendo, come Gesù ha fatto, 
questo mondo peccaminoso così com'è, 
non come io vorrei che fosse.

Confidando che Tu metterai a posto tutte le cose, 
se mi arrendo al Tuo volere.

Che io possa essere ragionevolmente felice in questa vita 
e infinitamente felice con Te per sempre nella prossima. Amen. 

Reinhold Niebuhr (1892 – 1971), teologo protestante statunitense

venerdì 21 aprile 2017

I due ciliegi




Due ciliegi innamorati, nati distanti, si guardavano senza potersi toccare. Li vide una nuvola che, mossa a compassione, pianse dal dolore ed agitò le loro foglie. Ma non fu sufficiente, i ciliegi non si toccarono.

Li vide la tempesta, che mossa a compassione, urlò dal dolore ed agitò i loro rami... ma non fu sufficiente, i ciliegi non si toccarono.

Li vide la montagna, che mossa a compassione, tremò dal dolore ed agitò i loro tronchi... ma non fu sufficiente, i ciliegi non si toccarono.

La nuvola, la tempesta e la montagna ignoravano, che sotto la terra, le radici dei ciliegi erano intrecciate in un abbraccio senza tempo.

Racconto Zen

Insegnami a cercarti



Insegnami a cercarti,
e mostrati a me che ti cerco.
Io non posso cercarti se tu non mi insegni,
né trovarti se tu non ti mostri.
Che io ti cerchi desiderandoti,
che ti desideri cercandoti,
che ti trovi amandoti,
e che ti ami trovandoti.

Io ti riconosco, Signore,
e ti ringrazio di aver creato in me questa tua immagine
affinché di te sia memore,
ti pensi e ti ami;
ma essa è così consunta dal logorio dei vizi,
così offuscata dal cumulo dei peccati,
che non può fare quello per cui fu fatta,
se tu non la rinnovi e non la ricostituisci.

Non tento, o Signore,
di penetrare la tua altezza
perché non paragono affatto ad essa il mio intelletto,
ma desidero in qualche modo di intendere la tua volontà,
che il mio cuore crede ed ama.

Né cerco di intendere per credere;
ma credo per intendere.
E anche per questo credo:
che se prima non crederò, non potrò intendere.
Proslogion 1,1
Anselmo d'Aosta (1033 o 1034 – 1109), santo, teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco

martedì 18 aprile 2017

Emmaus: intervista a Cleofa



Ci racconti, signor Cleofa... 
Stavamo tornando a casa, continuando a confabulare sugli avvenimenti di questo fine settimana, riandandovi per la centesima volta. Ci sforzavamo di dare un qualche costrutto alle cose, ma senza molto successo. Ed ecco che, a circa un chilometro dalla città, ci si avvicina un uomo...

- Era il Nazareno?
Be', questa è la cosa buffa: noi non l'abbiamo riconosciuto. Siamo stati suoi seguaci per quasi due anni. Non eravamo di quelli importanti, ma credevamo in lui, l'abbiamo ascoltato decine di volte mentre parlava... eppure quello che si è avvicinato a noi ieri pomeriggio, ci parve del tutto forestiero.
Inoltre, sembrava completamente all'oscuro di quanto era successo a Gerusalemme in questi ultimi giorni. Si unì alla nostra conversazione, ma ci toccò informarlo sulla crocifissione di venerdì scorso e sulle voci di ieri mattina sulla risurrezione.
Sembrava non fosse al corrente di nulla, ma poi, conversando con noi, si è rifatto ai tempi passati e, cominciando da Mosè e attraverso tutti i profeti, è giunto ai giorni nostri. Aveva tutto sulla punta delle dita. È stato formidabile! Ce ne stavamo lì, imbambolati a bocca aperta a guardarlo. Tutti quei passaggi e brani di profezie, i testi più difficili, egli li ha collegati tra loro... come tasselli di un puzzle. Ha reso chiaro tutto l'insieme e l'ha fatto apparire quasi - come dire? - inevitabile. Soprattutto la risurrezione!
E questo è il punto culminante, la conclusione prodigiosa che dà significato a tutto il resto! Il Messia viene, ma la gente non lo riconosce. Nessuno lo accoglie perché non corrisponde in nulla a quello che noi ci attendevamo ch'egli fosse. Invece di incoronarlo re, lo mettiamo a morte. Non sappiamo chi sia e così ci liberiamo di lui. Ma il Messia è il vincitore della morte. E il terzo giorno egli ritorna in vita per stabilire il suo regno.

- Se il Messia è il vincitore della morte, come può morire?
Ma se non incontra la morte faccia a faccia come può vincerla?
Questo è quanto il nostro misterioso compagno di viaggio ci spiegò chiaramente. Se il Messia vuole soccorrere gli uomini, deve condividere con loro l'esperienza della morte, deve morire come muoiono tutti gli uomini. Noi non possiamo essere partecipi della vita nel suo regno, se egli non ha prima condiviso con noi la morte.

- I suoi nemici del Sinedrio gli dicevano: "Se sei il Figlio di Dio, salva te stesso". Eppure sembra un'idea piuttosto ragionevole!
Oh certamente avrebbe potuto farlo! Ma allora non ci avrebbe aiutati: se egli avesse inventato per sé una scappatoia dell'ultimo minuto, allora non avrebbe fatto per noi alcuna differenza. Non si vince la morte evitandola. La si vince solo se la si accetta per poi superarla, ritornando in vita dall'altro lato. Siccome Gesù Nazareno ha fatto questo, noi non dobbiamo più aver paura della morte.

- E mentre egli vi spiegava tutte queste cose, voi continuaste a non riconoscerlo?
Non prima di aver raggiunto Emmaus. Ci disse che avrebbe proseguito, ma lo convincemmo a fermarsi da noi, come nostro ospite graditissimo. Fu così ch'egli venne a casa con noi e là avvenne il fatto: l'abbiamo riconosciuto durante la cena! Ce ne stavamo seduti attorno al tavolo, pronti a mangiare. Lo invitammo a dire la preghiera di ringraziamento, secondo il nostro costume. A quel punto egli prese il pane, pronunciò la benedizione, e lo spezzò. Lo stavamo guardando, e in quel momento l'abbiamo riconosciuto: Gesù, il Messia, che era morto ed è vivo di nuovo! Ch'egli sia benedetto!

- Lei è sicuro di questo?
Nel modo più assoluto! So perfettamente chi era, perché gli stavamo seduti a fianco e lo fissavamo mentre spezzava il pane. Ed era Gesù! Era proprio Gesù!

- E poi cosa accadde?
È scomparso! Svanito! Un istante prima era là che ci porgeva il pane, e un attimo dopo era sparito!
Per nulla impauriti, ci siamo precipitati fuori, abbiamo piantato la cena lasciando di stucco le nostre famiglie e siamo ripartiti subito per Gerusalemme.

- Lei sa certamente che le autorità prendono molto sul serio tutta questa faccenda, avrà visto le pattuglie per le strade... Non ha un po' di paura per quanto le potrebbe capitare?
Be', un po' di paura ce l'ho. Ma, vede, il peggio che possano fare è uccidermi. Ma adesso la morte non è più una cosa importante. Gesù l'ha reso sufficientemente chiaro: la morte non è la fine, ma soltanto un inizio. Fino a ieri mattina noi fruivamo solo di una mezza vita... eravamo tutti vivi a metà. Questo è ciò che eravamo. Ma ora è tutto diverso: lui è di nuovo vivo, e siccome lui è vivo, anche noi siamo vivi a nostra volta. Vivi per davvero, come non lo eravamo mai stati!

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: "Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?". Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: "Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?". Domandò loro: "Che cosa?". Gli risposero: "Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto". Disse loro: "Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: "Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto". Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l'un l'altro: "Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?". Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro. Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane (Vangelo di Luca 24,13-35).

Il caso del Nazareno, Ed. Paoline 1985 (pag. 188-196)
Stuart Jackman

domenica 16 aprile 2017

Un progetto d’amore di Dio


Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio. Rimanere nel suo amore significa quindi vivere radicati nella fede, perché la fede non è la semplice accettazione di alcune verità astratte, bensì una relazione intima con Cristo che ci porta ad aprire il nostro cuore a questo mistero di amore e a vivere come persone che si riconoscono amate da Dio. Se rimarrete nell’amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell’allegria. La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona. Cari giovani, non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo. Precisamente oggi, in cui la cultura relativista dominante rinuncia alla ricerca della verità e disprezza la ricerca della verità, che è l’aspirazione più alta dello spirito umano, dobbiamo proporre con coraggio e umiltà il valore universale di Cristo, come salvatore di tutti gli uomini e fonte di speranza per la nostra vita. Egli, che prese su di sé le nostre afflizioni, conosce bene il mistero del dolore umano e mostra la sua presenza piena di amore in tutti coloro che soffrono. E questi, a loro volta, uniti alla passione di Cristo, partecipano molto da vicino alla sua opera di redenzione. Inoltre, la nostra attenzione disinteressata agli ammalati e ai bisognosi sarà sempre una testimonianza umile e silenziosa del volto compassionevole di Dio. Cari amici, che nessuna avversità vi paralizzi! Non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo Nome in tutta la terra.

Omelia per la veglia di preghiera per la XXVI Giornata mondiale della gioventù. Madrid, 20 agosto 2011

Benedetto XVI / Joseph Ratzinger (1927 - 2022), docente e teologo tedesco, papa

Per il discorso completo:

www.vatican.va

venerdì 14 aprile 2017

Il mio sì




Dio mi ha creato
perché gli rendessi un particolare servizio;
mi ha affidato un lavoro che non ha affidato ad altri.
Ho la mia missione, che non saprò mai in questo mondo,
ma mi sarà detta nell'altro.
Non so come, ma sono necessario ai suoi fini,
necessario nel mio posto come un Arcangelo nel suo;
se, però, vengo meno, egli ne può far nascere un altro,
così come può cambiare le pietre in figli di Abramo.
Ciononostante ho una parte in questa grande opera;
sono un anello della catena,
un legame di parentela tra le persone.
Non mi ha creato per nulla.
Io farò il suo lavoro;
sarò un angelo di pace,
un predicatore di verità stando al mio posto,
senza averne l'intenzione,
se soltanto ne osservo i comandamenti
e lo servo nella mia vocazione.
Avrò, perciò, fiducia in lui.

Beato John Henry Newman (1801 – 1890), cardinale, teologo e filosofo inglese

giovedì 13 aprile 2017

La stola e il grembiule

Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso...
Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.
Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento!

UN GREMBIULE RITAGLIATO DALLA STOLA
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile.
C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”.

SI ALZÒ DA TAVOLA
Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo ricevuto.
Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice, che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si isterilisce.
Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un sacramento incompiuto. La spinta all’azione è così radicata nella sua natura, che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima sacrilega, come quella di Giuda: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”.
Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono dall’eucarestia. Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.
Per i presbiteri ogni impegno vitale, ogni battaglia per la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera, insomma.
Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà.

DEPOSE LE VESTI
Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.
Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.
Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.
Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.
Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.
Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.
Non possiamo amoreggiare col potere. Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente. Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare. Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. Che la nostra parola fa vincere un concorso. Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di Cristo.
In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire “clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri.

SI CINSE UN ASCIUGATOIO
Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe poso scattate in momenti di abbandono.
La Chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’”hit parade” delle preferenze, il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca.

La stola e il grembiule, articolo apparso sulla rivista Presbyteri

Don Tonino Bello, vescovo italiano (1935 - 1993)