martedì 22 dicembre 2009

Il Natale di Martin

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

Lev Tolstoj (1828 – 1910), scrittore, filosofo, educatore e attivista sociale russo

Un pastore

Che freddo quella notte! Le stelle bucavano il cielo come punte di diamante. Il gelo induriva la terra. Sulla collina di Betlem tutte le luci erano spente, ma nella vallata ardevano, rossi, i nostri fuochi.
Le pecore, ammassate dentro gli stazzi, si addossavano le une sulle altre, col muso nascosto nei velli.
Noi di guardia invidiavamo le bestie che potevano difendersi così bene dal freddo. Si stava attorno ai fuochi che ci cocevano da una parte, mentre dall'altra si gelava.
Sulla mezzanotte il fuoco cominciò a crepitare come se qualcuno vi avesse gettato un fascio di pruni secchi.
Nello stazzo, le pecore si misero a tramenare. Alzavano i musi in aria, e belavano.
- Sentono il lupo, - pensai.
Cercai a tasto il bastone e mi alzai. I cani giravano su se stessi e uggiolavano.
- Hanno paura anche loro, - pensai.
Intanto anche i compagni si erano levati da terra. Facemmo gruppo scrutando la campagna.
Non era più freddo. Il cuore, invece di battere per la paura, sussultava quasi di gioia. Era d'inverno, e ci sentivamo allegri come se fosse stata primavera. Era di notte, e si vedeva luce come di giorno.
Sembrava che l'aria fosse diventata polvere luminosa. E in quella polvere, a un tratto, prese figura una creatura così bella che ne provammo sgomento.
- Non temete, - disse l'apparizione. - Io vi annunzio una grande gioia destinata a tutto il popolo. Oggi vi è nato un Salvatore, nella città di David. E questo sia per voi il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia.
Non aveva finito di parlare, che da ogni parte del cielo apparvero Angeli luminosi, e cantavano: - Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Poi tornò la notte, e noi restammo come ciechi nella valle piena di oscurità. I fuochi si erano spenti. Le pecore tacevano. I cani s'erano acciambellati per terra.
- Abbiamo sognato! - pensammo. Ma eravamo in troppi a fare lo stesso sogno.
Lì vicino, sulla costa della collina, erano scavate alcune grotte, che servivano da stalla. Avevano la mangiatoia formata di terra dura. Se il Salvatore si trovava in una mangiatoia, voleva dire che era nato in una di quelle povere grotte.
Infatti trovammo, come ci aveva detto l'Angelo, un Bambino fasciato, in mezzo a due animali, un bove e un asino. L'asino vi era giunto coi genitori del Bambino.
Sul basto sedeva il padre, pensieroso. Presso la mangiatoia, si trovava inginocchiata la madre, in adorazione del suo nato.
Guardai quel Bambino e il mio cuore s'intenerì. Sono un povero pastore, ma ogni volta che vedo un agnellino mi commuovo. E quel Bambino mi parve il più tenero, il più innocente degli agnelli.
Non so dire altro. Posso solo aggiungere che non ho più provato in vita mia una dolcezza simile a quella provata dinanzi a quel Bambino.
Anche ora che ci ripenso, mi torna la tenerezza per quell'Agnello innocente e gentile.
Sono un povero pastore. Perdonatemi se lo chiamo così. è per me il nome più dolce e più caro.

Piero Bargellini (1897 - 1980), scrittore e politico italiano

Uno dei Re Magi

No, non crediate che io sia un mago da fiaba. Non ho bacchetta fatata né faccio incantesimi. Nel nostro paese, che è la Persia, mago vuol dire sapiente, cioè studioso. Anche noi avevamo molto studiato, specialmente sul libro chiamato Avesta.
Le nostre spalle si erano incurvate su quel libro. Le nostre barbe erano diventate bianche nello studio.
Il libro annunziava la venuta di un "saggio signore o, di un "vittorioso Liberatore" degli uomini.
Prima di noi, generazioni e generazioni di sapienti avevano atteso questo miracoloso personaggio, ma sempre invano.
Ormai eravamo vecchi, e temevamo di dover chiudere gli occhi senza aver visto il Liberatore. Guardavamo il cielo, in attesa di un segno annunziante la sua venuta.
Ed ecco una stella di straordinario splendore farci segno di seguirla.
Partimmo felici, montati sulle migliori cavalcature, vestiti riccamente con le corone in testa e i doni in mano.
Non sarebbe stato conveniente presentarsi a quel gran personaggio senza regali. Uno di noi prese una coppa d'oro simbolo di potenza regale, un altro prese un'anfora piena d'incenso simbolo d'onore sacerdotale, l'altro ancora prese un calice di mirra simbolo di redenzione.
La stella ci faceva da guida. Nessun corteo aveva mai potuto vantare un simile battistrada. Valicammo monti, attraversammo pianure, guadammo fiumi e incontrammo città, senza che la stella accennasse a fermarsi.
Giunti a Gerusalemme, il re Erode fu avvertito del nostro arrivo. Seppe che cercavamo il Re dei Giudei e chiese ai suoi sapienti:
- Dove dicono i libri che deve nascere il Redentore?
Anche gli ebrei avevano un libro chiamato Bibbia, dove era annunziata la venuta del Salvatore. Perciò i sapienti risposero al re Erode: - Betlem sarà la sua culla.
- Andate a Betlem, - ci disse Erode - e al ritorno mi narrerete di lui.
Riprendemmo a viaggiare, e la stella viaggiava con noi, finché non si fermò sopra una povera stalla. Trovammo il Bambino fasciato e deposto nella mangiatoia, fra due animali. Quale abbandono e quanta miseria! Il Re del mondo giaceva su paglia trita, senza corte d'attorno e senza onori.
A quella vista, la nostra sapienza si confuse. Avevamo sperato di trovare un potente Re in una reggia sfarzosa, in mezzo a ricchezze e a splendori.
Vedendo tanta umiltà ci sentimmo umiliati. Mettemmo fuori i nostri doni: oro, incenso e mirra. Il Bambino ci guardò come per accettarli, ma noi sentimmo che non bastava offrir quei soli doni. Egli non s'appagava né d'oro né d'incenso né di mirra. Voleva insieme il nostro cuore, e lo voleva ripieno di quella ricchezza che non s'estingue mai, e che si chiama Amore.
A questo Amore, che si traduce in Carità, la nostra scienza di vecchi sapienti non aveva mai pensato.
Ce lo insegnò un bambino, nato da poco, in una stalla, con un sorriso che ringiovanì il nostro vecchissimo cuore.

Piero Bargellini (1897 - 1980), scrittore e politico italiano

Una mamma

Tesoro mio, carne della mia carne, fiato della mia vita; angiolo della tua mamma!
Accarezzo come in un sogno la tua testolina nera e ricciuta, rivedo i tuoi occhi celesti; ricordo la tua vocina cara. Già mi chiamavi "mamma" e mi ridevi con le gengive rosa dove erano le perle dei due dentini nuovi.
Eri la mia gioia, la mia speranza, la mia ambizione. Perché dunque ti uccisero quei cani rabbiosi? Perché non uccisero anche me, con te, quei crudeli?
Seduta sopra una pietra, dinanzi alla casa luminosa, ti cullavo, cantandoti una nenia.
Il sole brillava fra i tuoi riccioli lucidi. Dalle labbruzze fresche usciva il tuo respiro più profumato dell'alito di primavera.
A un tratto udii urlare in fondo alla strada: alzai lo sguardo e vidi una donna fuggire, col proprio figlio stretto al petto. Uno sgherro la inseguiva con la spada sguainata.
Non capii. Non potevo capire. Presa dal terrore mi alzai e corsi in casa. Ti svegliasti piangendo: quel pianto fu la tua, la mia morte. Un soldato entrò dietro di me; ti afferrò per un piede. Urlavo: - lascialo, lascialo; gli fai male!
Alzò la spada... No, non è da dirsi. Fu cosa troppo orribile. La tua gola, la tua gola bianca, delicata... Piangesti: "Mam...". L'ultima sillaba fu un fiotto di sangue che mi bagnò il petto.
Mostri, perché non uccideste anche me? Perché quel sangue non fu il mio?
Amore della mamma, tesoro mio, anima mia! Perché ti uccisero così? Che avevi fatto di male? Tu eri innocente. Erode, il tristo Erode, che aveva saputo della nascita di un bambino divino, fremeva di gelosia e tremava di paura. Temeva, il tiranno, che quel bambino gli togliesse il trono.
Ma attese invano il ritorno dei Magi! Un Angiolo era apparso in sogno a quei sapienti, dicendo: - Partite nascostamente, senza insegnare a Erode dove si trova il Bambino.
Lo stesso Angiolo apparve a Giuseppe: - Alzati - gli disse. - Prendi il Bambino e la madre. Fuggi in Egitto. Erode cerca il Bambino per farlo morire.
E Giuseppe partì. Ma Erode, credendo il Bambino ancora a Betlem, ordinò che fossero uccisi tutti i maschi al di sotto dei due anni.
Oh scellerato! Che m'importa se di lì a pochi mesi i vermi lo ridussero a un mucchio di carne putrefatta? Che m'importa se il suo copro marcì sul trono?
Tu ero morto, sorriso del mondo, e io tenni a lungo il tuo corpicino bianco tra le mie braccia. Volevo cantarti una ninnananna, ma ululavo come una lupa ferita.
Lo so. Ora tu sei in cielo. Gesù ti ha accolto nella sua corte. Hai una veste rossa come il sangue che sgorgò dalla tua gola. Un'aureola d'oro è sopra i tuoi riccioli bruni. Con gli altri bambini uccisi con te, come te, in quello stesso giorno, formi il coro dei Santi innocenti.
Tu sei felice! Ma io piango ancora ricordando la tua orribile morte, tesoro mio, carne della mia carne, fiato della mia vita; angiolo della tua mamma!

Piero Bargellini (1897 - 1980), scrittore e politico italiano

L'oste

Cercherò di ricordare. Non è facile tenere a mente tutti i clienti. E poi in quei giorni di confusione!
Il mio albergo era situato alle porte di Betlem, sulla strada che viene da Nazaret.
Posso dire, senza esagerare, che esso fosse il primo albergo della città.
Fra formato da un gran cortile quadrato e porticato.
I viaggiatori entravano in quel cortile, si sceglievano il posto sotto il portico. Legavano il loro cavallo o il loro asino a una campanella.
Io intanto davo voce ai servi, i quali portavano un bel fascio di fieno odoroso per le bestie, e un fastello di paglia ben secca per gli uomini. Paglia di prima scelta, dorata, mai usata!
Nel mezzo del cortile c'era il pozzo. I servi vi attingevano l'acqua perché i viaggiatori si potessero lavare i piedi.
Di notte, specie d'inverno, nel cortile non mancava mai un bel fuoco. Si volevano maggiori comodità?
Una parte del colonnato, chiusa da muretti e da tende, formava alcune “camere private”. Ma quelle erano per i clienti di riguardo!
Per mangiare, i viaggiatori consumavano le loro provviste, raccolti in circolo, sotto il loggiato, seduti sulla paglia.
Io fornivo buon vino e ottimo pane. Betlem veniva chiamata “la casa del pane”. Attorno al paese si stendevano a perdita d'occhio campi d'orzo, e nel mio forno si cocevano eccellenti pagnotte: pane d'orzo, d'ottima qualità!
Sì, ora ricordo, ma, vi ripeto, non è facile tenere a mente tutti i clienti. E poi, i clienti di quei giorni! Che trambusto! Che via vai! Augusto, il grande Imperatore romano, aveva emanato un editto per il censimento. Voleva sapere quanti cittadini popolassero il suo grandîssimo Impero. Anche la Palestina si trovava sotto il suo dominio. Noi Ebrei avevamo, è vero, un re nostro. Si chiamava Erode, e risiedeva a Gerusalemme, la capitale del Regno. Ma sopra di lui c'era l'Imperatore romano, che contava più di lui. Bisognava obbedire. Perciò tutti tornavano al paese di origine, per farsi segnare nelle liste della propria tribù.
Ve l'ho detto, furono giorni di grande affluenza, di grande confusione, e, devo ammetterlo, di grande guadagno.
Il cortile era pieno di animali e di gente. I servi non ce la facevano a servire tutti. Si era giunti alle ultime forcate di fieno, e quanto alla paglia, lo dico con vergogna, molte volte fui costretto a ridistribuire quella già usata. Una sconvenienza, lo so, ma come volete che facessi?
Fu una sera, sull'ora di notte. I servi vennero a dirmi che alla porta si erano presentati due nuovi clienti. Detti in giro un'occhiata. Sotto il portico la gente si pesticciava. Chiesi ai servi: - Che gente è? Persone di riguardo?
Scrollarono il capo.
- Poveri, - mi risposero - un operaio e una donna sopra un asino.
- Se vogliono buttarsi in un canto, - dissi indicando i portici affollati.
- Chiedono una camera particolare, - mi fu risposto.
- Allora mandateli con Dio. Bella pretesa; una camera particolare in questi momenti, e per gente povera.
- La donna è stanca dal viaggio, - mi disse un vecchio servo.
- E che cosa ci posso fare? Anch'io sono stanco. Non ne posso più. Se fossero stati clienti buoni.... Ma con certa gente ci si rimette spesso anche la paglia.
I servi erano incerti. Allora mi feci io sulla porta.
- Mi dispiace, - dissi col migliore dei modi. - Mi dispiace, ma non c'è posto. Con questo benedetto censimento! Anche voi siete qui per l'editto?
- Sì, - mi rispose l'uomo, un tipo di operaio.
- Di che famiglia siete?
- Della famiglia di David.
Lo guardai sorpreso. La famiglia dell'antico profeta era famiglia reale.
- E non avete parenti in città?
L'uomo abbassò gli occhi. Guardai la donna raccolta sull'asino. Che viso pallido e bello! Sotto la coperta che le ricadeva sulle spalle, nella semi oscurità, sembrava che facesse luce.
- Sono dolente, - dissi ancora, - ma non c'è posto. Neppure nel cortile; una camera particolare poi è impossibile.
Questa donna è stanca, - disse sommessamente l'uomo.
La riguardai. Ella abbassò le ciglia.
- Sentite, - dissi loro, - se volete restare soli e passare una notte al coperto, vi consiglio una cosa. Sul fianco del colle ci sono alcune grotte che servono da stalla. In mancanza di meglio possono servire come camere particolari. Non ve ne offendete. Così risparmierete anche quei pochi.
I due non fiatarono. L'uomo tirò la cavezza all'asino, che si mosse zoppicando. Il lume di quel volto di donna affaticata sparve nel buio.
Rimasi sulla porta, ascoltando lo zoccolìo dell'asino che si allontanava. Mi invase una grande tristezza. Li avrei voluti richiamare. Ma come era possibile ospitarli? Vi assicuro che non c'era più posto sotto il portico; e di. camere particolari, neppure da parlarne.
Con tutto ciò ero triste. Rientrai. Avevo una pietra sul cuore.

Piero Bargellini (1897 - 1980), scrittore e politico italiano

I figli di Babbo Natale

Non c'è epoca dell'anno più gentile e buona, per il mondo dell'industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L'unico pensiero dei Consigli d'amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d'augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s'inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po' abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d'affari le grevi contese d'interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Alla Sbav quell'anno l'Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
L'idea suscitò l'approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un'acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell'Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l'idea: l'Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l'Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l'Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto - come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
In magazzino, il bene - materiale e spirituale - passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall'Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra " tredicesima mensilità " e " ore straordinarie ". Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell'industria e del commercio.
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: - Ehi, tu! - disse a Marcovaldo. - Prova un po' come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d'agrifoglio. La barba d'ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall'aria.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. " Dapprincipio, - pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! "
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. -Mah... Non vedete come sono vestito?
- E come vuoi essere vestito? - disse Pietruccio. - Da Babbo Natale, no?
- E m'avete riconosciuto subito?
- Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
- E il cognato della portinaia!
- E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
- E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
- Tutti vestiti da Babbo Natale? - chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
- Certo, tal quale come te, uffa, - risposero i bambini, - da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, - e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po' ci avevano fatto l'abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S'erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. - Si può sapere cosa state complottando? - chiese Marcovaldo.
- Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
- Regali per chi?
- Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
- Ma chi ve l'ha detto?
- C'è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: " Siete voi i bambini poveri! ", ma durante quella settimana s'era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: - Bambini poveri non ne esistono più!
S'alzò Michelino e chiese: - È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentí stringere il cuore. - Ora devo guadagnare degli straordinari, - disse in fretta, - e poi ve li porto.
- Li guadagni come? - chiese Filippetto.
- Portando dei regali, - fece Marcovaldo.
- A noi?
- No, ad altri.
- Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: - Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
- No.
- Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d'esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. - Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, - disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
- Andiamo, forse troverò un bambino povero, - disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste.
E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all'altro segnato sull'elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
- La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. - Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
- La Sbav augura...
- Be', portate qua, - e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d'occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
- Gianfranco, su, Gianfranco, - disse la governante, - hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
- Trecentododici, - sospirò il bambino - senz'alzare gli occhi dal libro. - Metta lí.
- È il trecentododicesimo regalo che arriva, - disse la governante. - Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
- Papà, quel bambino è un bambino povero? - chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s'affrettò a protestare: - Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell'Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator...
S'interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
" Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l'ha scambiato per me e gli è andato dietro... " Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po' in pensiero e non vedeva l'ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
- Di' un po', tu: dove t'eri cacciato?
- A casa, a prendere i regali... Si, i regali per quel bambino povero...
- Eh! Chi?
- Quello che se ne stava cosi triste.. - quello della villa con l'albero di Natale...
- A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
- Oh, li avevamo preparati bene... tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
- Figuriamoci! - disse Marcovaldo. - Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
- Sí, sí dei nostri... È corso subito a strappare la carta per vedere cos'erano...
- E cos'erano?
- Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno...
- E lui?
- Saltava dalla gioia! L'ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
- Come?
- Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo...
- Cos'era?
- Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza... Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell'albero di Natale. Poi è passato ai lampadari...
- Basta, basta, non voglio più sentire! E... il terzo regalo?
- Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l'ha fatto più felice. Diceva: " I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! " Ha cominciato ad accenderli, e...
-E...?
- …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. - Sono rovinato!
L'indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell'Ufficio Commerciale.
- Alt! - gli dissero, - scaricare tutto; subito!
" Ci siamo! " si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
- Presto! Bisogna sostituire i pacchi! - dissero i Capiufficio. - L'Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
- Così tutt'a un tratto... - commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima...
- È stata una scoperta improvvisa del presidente, - spiegò un altro. - Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi...
- Quel che più conta, - aggiunse il terzo, - è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d'ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato... Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d'un bambino... Il presidente dell'Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell'entusiasmo...
- Ma questo bambino, - chiese Marcovaldo con un filo di voce, - ha distrutto veramente molta roba?
- Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata...
Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C'era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po' più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

da: Marcovaldo ovvero le stagioni in città, Ed. Einaudi, 1966. p. 148

Italo Calvino (1923 - 1985), scrittore italiano

lunedì 21 dicembre 2009

L'inferno

L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

da: Le città invisibili, 1972

Italo Calvino (1923 - 1985), scrittore italiano

giovedì 10 dicembre 2009

Libertà va cercando...

Libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.

La Divina Commedia - Purgatorio, canto I

Dante Alighieri (1265-1321), poeta e scrittore italiano

mercoledì 9 dicembre 2009

Le orecchie del re Mida

Apollo e Pan erano entrambi convinti di saper suonare benissimo, perciò decisero di sfidarsi in gara nominando il re Mida giudice della tenzone musicale. Mida, alla fine del concerto, assegnò la vittoria a Pan, attirandosi ovviamente, le ire di Apollo.
Apollo gli rispose che le sue orecchie lo avevano ingannato e poi sorridendo lo ricompensò facendogli nascere all’istante un bel paio di orecchie d’asino, che inutilmente egli cercò di nascondere con un ampio copricapo (berretto frigio di origini ittite). Il suo barbiere infatti, nel tagliargli la barba e i capelli, finì con l'accorgersene: egli aveva ben premesso e giurato di non dire nulla a nessuno, ma doveva riferire il segreto a qualcuno. Allora fece una buca in terra e, chinato sopra, bisbigliò: "Mida ha le orecchie d’asino!", e subito la coprì. Come d’incanto da quella buca nacque un folto cespuglio di canne che, ad ogni soffio di vento, mormorava: "Mida, il re Mida, ha le orecchie d’asino!". Così tutti seppero il segreto e la vendetta di Apollo fu completa.

mercoledì 25 novembre 2009

Preghiera al buon Pastore

Dove vai a pascolare, o buon Pastore, tu che porti sulle spalle tutto il gregge? Quell'unica pecorella rappresenta infatti tutta la natura umana che hai preso sulle tue spalle. Mostrami il luogo del riposo, conducimi all'erba buona e nutriente, chiamami per nome, perché io, che sono pecorella, possa ascoltare la tua voce e con essa possa avere la vita eterna: «Mostrami colui che l'anima mia ama» (Ct 1,6 volg.).
Così infatti ti chiamo, perché il tuo nome è sopra ogni nome e ogni comprensione, e neppure tutto l'universo degli esseri ragionevoli è in grado di pronunziarlo e di comprenderlo. Il tuo nome, dunque, nel quale si mostra la tua bontà, rappresenta l'amore della mia anima verso di te. Come potrei infatti non amare te, quando tu hai tanto amato me? Mi hai amato tanto da dare la tua vita per il gregge del tuo pascolo.
Non si può immaginare un amore più grande di questo. Tu hai pagato la mia salvezza con la tua vita.
Fammi sapere, dunque, dove ti trovi (cfr. Ct 1,7), perché io possa trovare questo luogo salutare e riempirmi di celeste nutrimento, poiché chi non mangia di esso, non può entrare nella vita eterna. Fa' che accorra alla fonte fresca e vi attinga la divina bevanda, quella bevanda che tu offri a chi ha sete. Fa' che l'attinga come dalla sorgente del tuo costato aperto dalla lancia. Per chi la beve, quest'acqua diventa una sorgente che zampilla per la vita eterna (cfr. Gv 4,14).
Se tu mi ammetti a questi pascoli, mi farai riposare sicuramente al meriggio, quando, dormendo in pace, riposerò nella luce che è senz'ombra. Davvero il meriggio non ha ombra, quando il sole splende verticalmente. Nel meriggio tu fai riposare coloro che hai nutrito, quando accoglierai con te nelle tue stanze i tuoi figli. Nessuno però è stimato degno di questo riposo meridiano se non è figlio della luce e figlio del giorno.
Colui che si è tenuto ugualmente lontano dalle tenebre della sera e del mattino, cioè dal male con il suo inizio e la sua fine, questi viene posto dal sole di giustizia nel «meriggio», perché in esso possa riposare.
Spiegami dunque come bisogna riposare e pascere, e quale sia la via del riposo «meridiano», perché non avvenga che mi allontani dalla guida della tua mano per l'ignoranza della verità, e mi unisca invece a greggi estranei.
Queste cose dice la sposa dei cantici, tutta sollecita della bellezza che le è venuta da Dio e desiderosa di comprendere in qual modo la felicità le possa durare per sempre.

Dal «Commento al Cantico dei cantici» (Cap. 2; PG 44,802)

Gregorio di Nissa (335 – 395 ca.), vescovo e teologo greco, santo

martedì 17 novembre 2009

Un giorno vennero a prendere me

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento perchè rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali
e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti
ed io non dissi niente perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me
e non c'era rimasto nessuno a protestare.

Bertholt Brecht (1898 - 1956), drammaturgo, poeta e regista tedesco

Aforismi Pace

Non esiste un modo onorevole di uccidere, né un modo gentile di distruggere. Non c’è niente di buono nella guerra, eccetto la sua fine. (Abraham Lincoln - attribuita)

E' segno di maggior gloria uccidere le guerre con la parola anziché gli uomini con le armi, e conquistare la pace con la pace, non con la guerra. (Sant'Agostino)

Il denaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsa nera, la borsa nera rifà il denaro, il denaro rifà la guerra. In guerra sono tutti in pericolo, tranne quelli che hanno voluto la guerra. (Antonio De Curtis / Totò)

La Guerra è padre di tutte le cose e di tutto è sovrano: e gli uni li ha indicati come dei, gli altri come uomini, gli uni li ha resi schiavi, gli altri liberi. (Eraclito)

Cane non mangia cane; «i feroci leoni non si fanno guerra»; il serpente non aggredisce il suo simile; v’è pace tra le bestie velenose. Ma per l’uomo non c’è bestia più pericolosa dell’uomo. (Erasmo da Rotterdam)

Se [...] potessimo contemplare dall'alto gli uomini nel loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, nell'atto di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che razza di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un'ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia. (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 49)


Nessuno è così stupido da preferire la guerra alla pace: nella pace i figli seppelliscono i padri, in guerra invece i padri seppelliscono i figli. (Erodoto, Storie, libro I, 87)
Con queste parole Creso (596 a.C. – 546 a.C.), sovrano lidico, risponde a Ciro, che gli domanda quale follia lo abbia spinto a muovere guerra a lui e al suo impero, così potente da non permettere nessuna illusione circa l’esito del conflitto.

La guerra piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dalle guerre. Chi invece la conosce si fa un’idea molto presto. Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno per capire che non importa se c’è un’altra guerra. Che sia contro il terrorismo, per la democrazia o i diritti umani. Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Che non sanno neanche perché gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri. (Gino Strada)

La guerra è un male perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo. (Immanuel Kant)

Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire. (Jean Paul Sartre)


Se tutti andassero in guerra solo in base alle proprie convinzioni, le guerre non ci sarebbero più. (Lev Tolstoj)

Mi oppongo alla violenza perché quando sembra fare del bene, il bene è solo temporaneo; il male che fa è invece permanente. Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, né asciugare l'acqua con l'acqua, così non si può eliminare la violenza con la violenza. (Lev Tolstoj)

Il giorno in cui il potere dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo conoscerà la pace. (Mahatma Gandhi)

La persona che non è in pace con se stessa sarà in guerra con il mondo intero. (Mahatma Gandhi)

Tutti parlano di pace, ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace. (Maria Montessori)

Dio ha creato la guerra affinché gli americani imparassero la geografia. (Mark Twain)

La pace è più importante di ogni giustizia; e la pace non fu fatta per amore della giustizia, ma la giustizia per amor della pace. (Martin Lutero)

Impariamo che la pace è la strada più difficile perché richiede risposte molto complesse a problemi che i guerrafondai presentano con stupefacente semplicità. (Luis Sepúlveda, Una sporca storia)

La guerra: un massacro di gente che non si conosce, a vantaggio di gente che si conosce, ma non si massacra. (Paul Valéry)

Omnia prius experiri quam armis sapientem decet. / È da saggi provare tutte le vie prima di arrivare alle armi. (Publio Terenzio Afro, Eunuchus, 78)

Concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur / Con la concordia le piccole cose crescono, con la discordia le più grandi sfumano. (Sallustio, Guerra Giugurtina 10,6).

Desertum fecerunt et pacem appellaverunt. / Hanno creato un deserto e l’hanno chiamato “pace”. (Tacito, Agricola, 30)

Si vis pacem, para bellum. / Se vuoi la pace, prepara la guerra. Il detto latino è ricavato dalla frase di Vegezio: Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum. / Dunque chi aspira alla pace, prepari la guerra. (Flavio Vegezio Renato, Epitoma rei militaris); infine parafrasato in senso opposto da Filippo Turati in: 
Si vis pacem para pacem. Se vuoi la pace prepara la pace. (Filippo Turati, Discorso del 1909)

Dulce bellum inexpertis / La guerra è dolce (bella) solo per quelli che non l'hanno provata (Vegezio)

Quasi tutte le miserie del mondo sono causate dalle guerre. E quando le guerre sono finite, nessuno sa più perché sono scoppiate. (Ashley Wilkes / Leslie Howard nel film "Via col vento" (1939) di Victor Fleming)


giovedì 12 novembre 2009

Prima di tutto all'uomo

Ragazzo mio,
Non vivere su questa terra
come un estraneo
o come un turista nella natura.
Vivi in questo mondo
come nella casa di tuo padre:
credi al grano, alla terra, al mare
ma prima di tutto credi all'uomo.
Ama le nuvole, le macchine, i libri
ma prima di tutto ama l'uomo.
Senti la tristezza del ramo che secca
dell'astro che si spegne
dell'animale ferito che rantola
ma prima di tutto
senti la tristezza e il dolore dell'uomo.
Ti diano gioia tutti i beni della terra
l'ombra e la luce ti diano gioia
le quattro stagioni ti diano gioia
ma soprattutto, a piene mani
ti dia gioia l'uomo!

Da "Lettera a Memet"

Nazim Hikmet (1902 - 1963), poeta turco

giovedì 5 novembre 2009

Aforismi Amicizia

Finché abbiamo dei ricordi, il passato dura.
Finché abbiamo delle speranze, il futuro ci attende.
Finché abbiamo degli amici, il presente vale la pena di essere vissuto. (Anonimo)

L’amicizia ha due ingredienti principali: il primo è la scoperta di ciò che ci rende simili. E il secondo è il rispetto di ciò che ci fa diversi... (Charles M. Schulz)

L'amicizia non ha valore per la sopravvivenza, ma è una di quelle cose che danno valore alla sopravvivenza. (Clive Staples Lewis, I quattro amori)

Non abbiamo tanto bisogno dell'aiuto degli amici quanto della certezza del loro aiuto.
(Epicuro, 341 – 271 a.C.)

L'amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l'appello di aprire gli occhi sulla felicità.
(Epicuro, 341 – 271 a.C.)

Dimmi con chi vai...
Non bisogna giudicare gli uomini dalle loro amicizie: Giuda frequentava persone irreprensibili!
(Ernest Hemingway)

Chi smette di esserti amico non lo è mai stato. (Esiodo)

Gli amici sono le corde di una cetra che, se tutte intonate tra di loro, producono al tocco una musica piacevolissima. Neppure le ricchezze più vistose si possono paragonare ad una salda amicizia. Le stelle irradiano la luce all'intorno; gli amici, dove giungono, portano gioia e bene. È meglio vivere nelle tenebre che mancare di amici. L'amicizia possiede anche la facoltà di ospitare nel nostro cuore la memoria degli assenti e ce li fa tanto desiderare da renderci vicini a loro e lontani da tutte le cose vicine. (San Giovanni Crisostomo)

Tutti abbiamo un punto debole, il mio è l'amicizia e i miei amici. (San Gregorio di Nazianzo)

Finché sarai felice, conterai molti amici; ma se il tempo si rannuvolerà, resterai solo. (Ovidio)

"Sai cos'è un amico? É un uomo che ti conosce a fondo e nonostante tutto ti vuole bene!"
(Vittorio Gassman (Fausto Consolo) nel film di Dino Risi: "Profumo di donna")

lunedì 2 novembre 2009

Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui

Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale?
Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l'anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l'anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7,25 ss.).
Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte, quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l'esempio divino che la morte sola ha conseguito l'immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisse quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.
L'anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.
Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d'arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15,3-4).
L'anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64,3).
Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4).

Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro» Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324

Ambrogio da Milano (ca. 340 - 397), vescovo, santo

Cristo trasfigurerà il nostro corpo

«Per questo Cristo é morto ed é ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14, 9). Ma «Dio non é Dio dei morti, bensì dei vivi» (Mt 22, 32). Perciò i morti sui quali domina colui che é risorto, non sono più morti, ma viventi; e domina su di loro la vita proprio perché vivano, senza temere più la morte, come «Cristo, risuscitato dai morti, non muore più» (Rm 6, 9). Così risuscitati e liberati dalla corruzione, non vedranno più la morte, ma parteciperanno alla risurrezione di Cristo, come Cristo fu partecipe della loro morte. Non per altro motivo infatti egli discese sulla terra, incatenata da antiche catene, se non per infrangere le porte di bronzo e spezzare le sbarre di ferro (cfr. Is 45, 2; Sal 106, 16) della morte e per trarre a sé dalla corruzione la nostra vita, donandoci la libertà al posto della schiavitù. Se non appare ancora ultimata l'opera di questo disegno divino (gli uomini infatti continuano a morire e i corpi si dissolvono nella morte), il fatto non deve certo per questo diventare motivo di diffidenza. Già in anticipo infatti abbiamo acquisito un pegno di tutti i beni futuri mediante le primizie con le quali siamo già stati innalzati al cielo e ci siamo seduti con colui che ci ha portati in alto con sé, come dice Paolo: «Con lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2, 6). Raggiungeremo il completamento quando verrà il tempo prestabilito dal Padre, quando avremo lasciato l'infanzia e arriveremo allo stato di uomo perfetto. Così parve bene al Padre dei secoli, perché fosse stabile il dono concesso e non divenisse nuovamente precario per le infantili follie del nostro cuore. Sul fatto poi che il corpo del Signore sia risorto spirituale, cosa dobbiamo dire, quando Paolo dei corpi risuscitati afferma che «si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale» (2 Cor 15, 44), cioè corpi trasfigurati ad immagine della gloriosa trasfigurazione di Cristo, che precede come guida? L'Apostolo inoltre dice che questo fatto, a lui ben noto, si sarebbe avverato per tutto il genere umano per mezzo di Cristo, «il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3, 21). Se dunque la trasfigurazione é il cambiamento in un corpo spirituale e questo é conforme al corpo glorioso di Cristo, Cristo é certo risorto con un corpo spirituale; esso non é altro che il corpo «seminato ignobile» (cfr. 1 Cor 15, 43), ma mutato poi in glorioso. Egli avendo portato al Padre le primizie della nostra natura, gli condurrà pure tutto l'universo; lo ha promesso quando ha detto: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32).
Discorsi, 5 sulla risurrezione di Cristo, 6-7. 9; PG 89, 1358-1359. 1361-1362

Atanàsio di Antiòchia, vescovo e santo ( ? - 700 ca.)

Cristo risorto speranza di tutti i credenti

La speranza di tutti i credenti, Cristo, chiama i trapassati «dormienti», non «morti»; dice infatti: «Il nostro amico Lazzaro s'é addormentato» (Gv 11, 11).
Ma anche il santo Apostolo non vuole che ci rattristiamo su quelli che si sono addormentati (cfr. 1 Ts 4, 12) e quindi se teniamo per fede che tutti i credenti in Cristo, come dice il Vangelo, non moriranno per sempre, sappiamo ancora per fede che neanche lui é morto per sempre e nemmeno noi moriremo per sempre. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio discenderà dal cielo e i morti in lui risorgeranno.
Ci animi dunque la speranza della risurrezione, perché coloro che ora perdiamo, li rivedremo; basta che crediamo fermamente in lui, obbedendo ai suoi precetti. Egli é l'onnipotente e per questo é più facile a lui risuscitare i morti che a noi svegliare quelli che dormono. Tuttavia ecco che, mentre da una parte facciamo queste affermazioni, dall'altra, portati da non so quale sentimento, ci sfoghiamo in lacrime. Certe nostre nostalgie e certi stati d'animo poi tendono a intaccare la nostra fede. È questo purtroppo il prezzo che dobbiamo pagare alla miseria della nostra condizione umana. Ma nulla ci smuova. Sappiamo infatti che senza Cristo tutto quello che esiste e tutta la nostra vita non é che vanità.
O morte, tu che separi i congiunti e, dura e crudele quale sei, dividi coloro che sono uniti dall'amicizia, sappi che é già infranto il tuo dominio. È già spezzato il tuo giogo da colui che ti minacciava con il grido di Osea: «O morte, sarò la tua morte» (Os 13, 14). Perciò con l'Apostolo ti scherniamo: «Dov'é, o morte, la tua vittoria? Dov'é, o morte, il tuo pungiglione?» (1 Cor 15, 55). Quello stesso che ti ha vinto ci ha redento. Egli ha consegnato la sua vita preziosa nelle mani degli empi, per cambiare gli empi in amici diletti. Lunghe sarebbero e numerose le citazioni che si potrebbero trarre dalle divine Scritture a comune conforto. Ma ci basti la speranza della risurrezione e volgere lo sguardo alla gloria del nostro Redentore, nel quale noi riteniamo per fede di essere già risorti, secondo la parola dell'Apostolo: «Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 6, 8).
Non apparteniamo a noi stessi, ma a colui che ci ha redenti, dalla cui volontà deve sempre dipendere la nostra; perciò diciamo nella preghiera: «Sia fatta la tua volontà» (Mt 6, 10). È quindi necessario che dinanzi alla morte diciamo con Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1, 21). Diciamo queste parole con Giobbe nella nostra condizione di pellegrini, in questo mondo, per poter assomigliare a lui, già in questo mondo, ma poi soprattutto nell'altro.
Lettere, 19; PL 80, 655-666

Braulione di Saragozza (590 – 651), vescovo e scrittore spagnolo, santo

domenica 1 novembre 2009

La beatitudine ricercata da ogni uomo

Tutta la sollecitudine de' mortali, la quale per molti e varii studii fatica, sebbene procede per diverse vie, si sforza nondimeno di pervenire a un fine solo, cioè a quello della beatitudine; e la beatitudine non è altro che quel bene, il quale acquistato che alcuno ha, egli non può desiderare più oltra cosa nessuna: e questo bene è senza alcun dubbio il primo e più alto di tutti i beni, e quello il quale contiene in sè tutti gli altri; perchè, se gli mancasse cosa nessuna, egli non sarebbe il primo e più perfetto, posciachè fuor di lui rimarrebbe alcuna cosa da potersi desiderare. E dunque manifesto che la beatitudine è uno stato perfetto, nel quale sono tutti i beni ragunati.
Omnis mortalium cura quam multiplicium studiorum labor exercet, diverso quidem calle procedit, sed ad unum tamen beatitudinis finem nititur pervenire: id autem est bonum, quo quis adepto nihil ulterius desiderare queat.
De consolatione philosophiae, III, prosa 2 (Trad. Benedetto Varchi)
Severino Boezio (Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius) (476 – 525), filosofo italiano, santo

I piaceri causa del dolore

Non essere addolorato per me che sono uscito dal mondo per abbandonare il dolore: bisogna invece addolorarsi per gli edonisti, affezionati ai piaceri che del dolore son causa.

Asvaghosa, Le gesta del Buddha, canto VI, 18 - A. Passi ed., [ Milano, Fabbri Ed., 1997 ], p. 73

giovedì 22 ottobre 2009

La saggezza si conquista attraverso la sofferenza

Zeus, chi mai esso sia, se con questo nome gli è caro essere chiamato, con questo lo invoco: tutto considerato, non ho nulla che regga il confronto se non Zeus... guidando i mortali verso la sapienza, ha posto in vigore la legge che si apprenda attraverso sofferenza.
[Dall'Inno a Zeus dell'Agamennone, vv. 159-165 e 176-178]
Eschilo (525 a.C. – 456 a.C.), drammaturgo greco

lunedì 19 ottobre 2009

Nel futuro arriveremo a costruire...

Arriveremo a costruire macchine capaci di spingere grandi navi a velocità più forti che un’intera schiera di rematori e bisognose soltanto di un pilota che le diriga. Arriveremo a imprimere ai carri incredibili velocità senza l’aiuto di alcun animale. Arriveremo a costruire macchine alate, capaci di sollevarsi nell’aria come gli uccelli.
De secretis operibus artis et naturae IV
Ruggero Bacone,(1214 – 1294) religioso, filosofo e scienziato inglese

domenica 18 ottobre 2009

Sull'amicizia ossia... "ognuno ama il proprio interesse!"

Ciò che si prende a cuore, è giusto che si ami. Forse gli uomini prendono a cuore le cose cattive? No davvero. Ma forse ciò che non li riguarda affatto? Neppure questo. Rimane, dunque, che solo le cose buone prendono a cuore: e se le prendono a cuore, le amano. Perciò, chi è esperto nelle cose buone, saprà anche amarle: chi, invece, non è in grado di discernere le buone dalle cattive, e quelle che non sono né buone né cattive dalle altre due, come potrebbe ancora amarle costui?
Di conseguenza, il saggio solamente può amare.
Ma come? - si dice. Io, pur essendo stolto, amo tuttavia il mio piccino.
- Mi meraviglio davvero, per gli dèi, come tu riconosca, così, su due piedi, di essere stolto. Che ti manca?
Non usi delle sensazioni, non discerni le rappresentazioni, non dai al corpo i cibi che gli si addicono, non le vesti, non la casa? Come puoi dunque ammettere di essere stolto? Perché spesso, per Zeus, sei tratto fuori di te dalle tue rappresentazioni, e ne sei sconvolto e ti vincono coi loro motivi persuasivi: e talora queste cose le supponi buone, poi, le stesse, cattive, e più tardi, né buone né cattive - e insomma sei preda del dolore, del timore, dell'invidia, del turbamento, dell'incostanza - per ciò ammetti di essere stolto. E nell'amicizia non sei incostante? Ricchezza, piacere, in una parola, gli stessi oggetti esterni talora li ritieni buoni, talora cattivi: e le stesse persone non le ritieni talora buone, talora cattive? e non le tratti talora da amico, talora da nemico? e non le approvi talora, talora le biasimi?
- Certo: sono questi i sentimenti che provo.
- E poi? chi è rimasto ingannato nei confronti d'un uomo, pensi possa essergli amico?
- No davvero.
- E chi è volubile nella scelta dell'amico, pensi gli sia affettuoso?
- Neppure costui.
- E chi adesso lo ingiuria e più tardi lo guarda con ammirazione?
- Neppure costui.
- Ebbene: non hai visto mai dei cuccioletti che scodinzolano e scherzano fra loro, di fronte ai quali hai esclamato: «non c'è niente di più amoroso»? Ma per capire che cosa sia l'amicizia, getta fra loro un pezzo di carne lo saprai. Getta pure tra te e il tuo figliolo un campicello e saprai come il tuo figliolo vorrà subito sotterrarti e come tu pregherai per la morte del tuo caro figlio. E poi dirai: «che ragazzo ho allevato! già da un pezzo vuol farmi i funerali ». Getta una fanciulletta tutta elegante e amala, tu, il vecchio, e l'altro, il giovane, o, se vuoi, una briciola di gloria. Se poi c'è un rischio da correre, dirai le stesse parole del padre di Admeto: tu vuoi veder la luce e il padre, credi, no? Pensi che quello non amasse il suo figliolo quand'era piccino e non trepidasse quando aveva la lebbra e non disse spesso: «Quant'era meglio che l'avessi io!»? Poi, sopraggiungere della prova, al suo avvicinarsi, vedi che belle frasi si scambiano! Eteocle e Polinice non erano nati una stessa madre e dallo stesso padre? Non erano cresciuti insieme, non avevano vissuto insieme e insieme dio la stessa tavola, lo stesso letto? Non si erano spesso baciati l'un l'altro? Tanto che, se uno li avesse visti, si ebbe messo a ridere dei filosofi, io penso, per tutto quel di paradossale dicono sull'amicizia. Ma, ecco, cade in mezzo ad essi, come un pezzo di carne tra i cani, la questione del regno: vedi come parlano:
ETEO. Su, davanti a quale porta ti porrai?
POL. Perché me'l chiedi?
ETEO. Affrontarti voglio e ucciderti.
POL. Ho la stessa brama anch'io
Ecco i loro voti.
Perché, in generale - non vi fate illusioni - ogni vivente e non ha nulla che gli sia caro quanto il proprio interesse: quindi, tutto quello che gli sembra d'ostacolo ad esso - sia fratello o padre o figlio o amato o amante – lo odia, lo ripudia, lo maledice. Perché non c'è niente che egli per natura ami quanto il suo interesse: questo è per lui padre, fratello, parenti, patria, Dio. Perciò quando ci sembra che gli dèi ci impediscano di raggiungerlo, noi li insultiamo, anche loro, ne buttiamo giù le statue, ne bruciamo i templi, come Alessandro fece incendiare il tempio di Asclepio perché era morto il suo diletto. In conseguenza, se si riesce a far coincidere l'interesse e la pietà, l’onestà, la patria, i genitori, gli amici, allora tutto questo è salvo: ma se da una parte c'è l'interesse, dall'altra gli amici, la patria, i parenti, e il giusto stesso, tutto questo va in malora, soverchiato dall'interesse. Dove sono l'«io» e il “mio” li inclina di necessità il vivente: se nella carne, è essa che domina, se nella persona morale, è essa che domina, se nei beni esterni, sono essi che dominano. Se, dunque, il mio «io» si trova dov'è la persona morale, solo allora io sarò come sì deve, amico, figlio, padre. Ché in tal caso sarà mio interesse custodire la fedeltà, la riservatezza, la pazienza, la temperanza, la solidarietà, e mantenere le mie relazioni sociali. Se, invece, da una parte pongo il mio «io», dall'altra l'onestà, allora acquista forza il detto di Epicuro, secondo il quale l'onestà o non è niente o, se mai, una semplice opinione volgare.
Da tale ignoranza ebbero origine le lagnanze tra Ateniesi e Spartani, tra questi due popoli e i Tebani, tra il Gran Re e l'Ellade, tra questi due e i Macedoni e adesso tra ì Romani e i Geti: così, nei tempi passati, i fatti di Ilio ebbero la stessa origine. Alessandro era ospite di Menelao e se uno li avesse visti trattarsi cosi amichevolmente tra loro, non avrebbe creduto a chi diceva che non erano amici. Ma una piccola cosa fu gettata in mezzo a loro un'elegante donnína: per essa, ecco la guerra. Così adesso, quando vedi amici o fratelli che paiono avere gli stessi sentimenti, non pronunciarti subito sulla loro amicizia, neppure se giurano e dicono che niente potrà separare l'uno dall'altro. Non è fedele la parte direttrice dell'anima nell’uomo inetto: è instabile, incapace di giudicare, sopraffatta ora da una, ora da un'altra rappresentazione. E non cercare, e come fa il volgo, se questi uomini hanno avuto gli stessi genitori e sono cresciuti insieme, sotto lo stesso pedagogo, ma soltanto dove pongono il loro interesse, se nelle cose esterne o nella persona morale. Se nelle cose esterne non dirli amici, non più che fedeli, sicuri, coraggiosi o liberi - e neppure uomini, se hai senno. Non è un modo di pensare da uomini quel che li spinge a mordersi e a ingiuriarsi tra loro, a occupare i luoghi deserti o le pubbliche piazze, come i banditi le montagne, e a mettere a nudo davanti ai tribunali misfatti da banditi, o ad essere intemperanti, adulteri, corruttori e a commettere quanti altri delitti gli uomini compiono l'uno contro l'altro: tutto ciò trae origine da un unico e solo pensiero dal ritenere cioè se stessi e le proprie cose fra gli oggetti indipendenti dalla scelta morale. Ma se tu senti che questi uomini ripongono veramente il bene là solo dov'è la persona morale, dov'è l'uso retto delle rappresentazioni, non cercar oltre, né se sono figlio e padre né se fratelli né se sono stati lungo tempo insieme e vivono da compagni: ne sai abbastanza per affermare con fiducia che sono amici, come anche fedeli e giusti. Dov'altro si può trovare l'amicizia se non dov'è la fedeltà, la riservatezza, la dedizione a quel che è nobile e a niente di tutto il resto?
«Ma mi ha circondato d'attenzioni per tanto tempo! e non m'amava?» Che ne sai, schiavo, se ti ha circondato di attenzioni, allo stesso modo che lustra le sue scarpe o le bestie? Che ne sai se, diventato una roba inutile, egli non ti scaglierà via, come una tavoletta sfasciata? «Ma è mia moglie e per tanto tempo siamo vissuti insieme!» E per quanto tempo è vissuta Erifile con Anfiarao, madre, per di più, di figli, di molti figli? Poi venne a cadere tra loro una collana. Che cos'è una collana? È il giudizio che si dà di siffatte cose. E fu essa, la forza selvaggia, fu essa, la forza distruttrice dell'amicizia, che non permise a una donna d'essere sposa, a una madre, madre. Chi di voi, dunque, ha sinceramente a cuore o di essere amico di qualcuno, o di guadagnarsi l'amicizia di un altro, distrugga tali giudizi, li odi, li strappi dall'anima sua. Così, in primo luogo, non dovrà rivolgersi biasimi, né opporsi a se stesso, né pentirsi, né tormentarsi: allo stesso modo, poi, si comporterà cogli altri, quanti sono del tutto uguali a lui: con chi è dissimile, invece, sarà tollerante, condiscendente, mite, disposto al perdono, come si fa con un ignorante, con uno che s'è disperso in una materia della massima importanza: non sarà aspro con nessuno, perché conosce bene le parole di Platone: «è contro sua voglia che l'anima viene privata della verità». In caso contrario, voi agirete in tutto come gli amici e berrete insieme e vivrete sotto lo stesso tetto e navigherete sulla stessa nave e potrete avere anche gli stessi genitori. Perché lo possono anche i serpenti: ma amici non sono i serpenti, né lo sarete voi, finché avete quei giudizi selvaggi e perversi.
Da "Le diatribe e frammenti"
Epitteto, (50 – 120), filosofo greco

L'anno nuovo

Indovinami, indovino 
tu che leggi nel destino: 
l'anno nuovo come sarà? 
Bello, brutto o metà e metà? 

"Trovo stampato nei miei libroni 
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto, 
un carnevale e un ferragosto, 
e il giorno dopo del lunedì 
sarà sempre un martedì. 

Di più per ora scritto non trovo 
nel destino dell'anno nuovo: 
per il resto anche quest'anno 
sarà come gli uomini lo faranno". 

 Gianni Rodari (1920 – 1980), scrittore e pedagogista italiano

L’Ave

La campana ha suonato
e l’angelo è venuto.
Lieve lieve ha sfiorato
con l’ala di velluto
il povero paese;
v’ha sparso un tenue lume
di perla e di turchese
e un palpito di piume;
ha posato i dolci occhi
sulle più oscure soglie…
Poi, con gli ultimi tocchi
Cullàti come foglie
dal vento della sera,
se né volato via;
a portar la preghiera
degli umili a Maria.

Diego Valeri, (1887 – 1976) saggista e poeta italiano

L’angelo

L’angelo
son sicuro che c’è
un angelo come me
che cammina al mio fianco
muto, soave e bianco.
E se aiuto gli chiedo
m’aiuta e non lo vedo.

Renzo Pezzani (1898 – 1951), poeta italiano

Dov’è Iddio?

Se Iddio veder tu vuoi,
guardalo in ogni oggetto
cercalo nel tuo petto:
lo troverai con te!
E se dov’Ei dimora
Non intendesti ancora,
confondimi se puoi:
dimmi dov’Ei non è.

Pietro Metastasio,(1698 - 1782), poeta e drammaturgo italiano

La pigrizia

La pigrizia andò al mercato
Ed un cavolo comprò.

Mezzogiorno era suonato
Quando a casa ritornò.

Cercò l’acqua, accese il fuoco
Si sedette e riposò…

Ed intanto a poco a poco
Anche il sole tramontò.

Così presa ormai la lena,
sola al buio ella restò

ed a letto senza cena
la pigrizia se ne andò.

Ettore Berni, poeta e scrittore italiano

Natale

È nato! Alleluia! Alleluia!
E’ nato il Sovrano Bambino.
La notte che già fu sì buia
Risplende di un astro divino.

Orsù, cornamuse, più gaie
Sonate, squillate, campane,
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Per quattro mill’anni l’attese
Quest’ora su tutte le ore.
É nato, è nato il Signore!
É nato nel nostro paese!

La notte che già fu sì buia
Risplende di un astro divino.
É nato il Sovrano Bambino.
È nato! Alleluia! Alleluia!

Guido Gozzano, (1883 - 1916), poeta italiano

Chi fa ben

Chi fa ben
sol per paura
non fa niente
e poco dura.

Chi fa ben
sol per usanza
se non perde
poco avanza.

Chi fa ben
solo per forza
lascia il frutto
e tien la scorza.

Chi fa ben
per puro amore
dona a Dio
l’anima e il cuore.

Giuseppe da Copertino, santo, presbitero francescano italiano (1603 - 1663)

venerdì 9 ottobre 2009

Cura, dolce amico nell’amore di Gesù

Cura, dolce amico nell’amore di Gesù,
di smuovere la polvere qui contenuta.
Benedetto colui che custodisce queste pietre.
E maledetto colui che disturba le mie ossa.

Good frend for Iesvs sake forbeare,
To digg the dvst encloased heare.
Blest be ye man yt spares thes stones,
And cvrst be he yt moves my bones.
[Epitaffio sulla tomba di W.Shakespeare]
William Shakespeare (1564 – 1616), drammaturgo e poeta inglese

Aforismi Fede

É il cuore che sente Dio, non la ragione. Ecco cos'è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione. (Blaise Pascal)

La fede è il primo passo verso l'amore, il termine dell'amore è la conoscenza di Dio. (Evagrio Pontico, Filocalia I)

Credere è riconoscere che siamo amati. (François Mauriac)

Credere in Dio è possederlo; amarlo è vivere di lui e per lui. (François Mauriac, Bloc-notes)

Pecca fortiter sed crede fortius / Pecca fortemente, ma credi ancor più fortemente. (Martin Lutero, 1483 – 1546)

Perché non credi? Non sai tu che la fede viene prima di tutto? Quale contadino infatti può mietere se prima non ha affidato il seme alla terra? E chi può attraversare il mare, se prima non si affida alla nave e al pilota? Quale ammalato può essere guarito se prima non si affida al medico? (Teofilo di Antiochia)

C'è chi dice che Dio esiste e chi è convinto che non esista. La verità, come sempre, sarà nel mezzo. (William Butler Yeats)

Aforismi Vocazione

Who dares wins!

Dare the dream!


Soltanto una vita vissuta per gli altri è una vita che vale la pena vivere. (Albert Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano, 1997, p. 141)

Una vita che miri principalmente a soddisfare i desideri personali conduce prima o poi a un'amara delusione. (Albert Einstein,  Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano, 1997, p. 142)

Chi non ha una missione nella vita è il più povero di tutti. (Albert Schweitzer)

Se egli chiama, rispondiamo; non è voce, ma fede; non parola, ma vita. (Sant'Agostino)

Una volta conosciuta, anche confusamente, la vocazione personale deve essere rispettata fedelmente e coerentemente obbedita. (Don Carlo Gnocchi)

Regola generale di tutte le grazie singolari partecipate a una creatura ragionevole è che quando la condiscendenza divina sceglie qualcuno per una grazia singolare o per uno stato sublime, concede alla persona così scelta tutti i carismi che le sono necessari per il suo ufficio. (San Bernardino da Siena)

La vita è un'enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi. (Danny Kaye)

Per noi umani è determinante dare un significato alla nostra vita, sentirci in relazione con gli altri, trovare il proprio posto nella società. (Enzo Bianchi)

Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi. (Ernest Hemingway)

Nella mia vita mi preparavo a tutt'altro. Avrei voluto essere un monaco nascosto in un monastero. Pregare solo Dio. Ma mi è andata male. (Eugene Ionesco)

Essere discepoli - in greco: "acoluteis" - significa mettere le orme su quelle del maestro. (Francesco Pignatelli)

Un uomo saggio si crea più opportunità di quelle che trova. (Francis Bacon)

La mia verità significa adempiere la mia vocazione.
Le "vocazioni" non hanno spiegazioni. Insistere per trovarne è un rischio.
La Chiesa non ha bisogno di molte vocazioni, ma di vocazioni autentiche. (Giacomo Alberione)

Prima di scegliere Dio, si è scelti da Dio. (San Giovanni Battista de La Salle)

Ho fatto esperienza dei giovani: un terso di loro porta un germe di vocazione sacerdotale o religiosa. (San Giovanni Bosco)

Nessuno nasce pronto per il posto che deve occupare. Dio ci prepara. Poi commisura il suo aiuto al nuovo compito e all'uomo che deve assumerlo. Il segreto è lasciarsi portare dal Signore e portare il Signore. (Giovanni XXIII) 

Io non voglio che il mio compito quaggiù sia un compito che potrebbe compiere un laico, perché allora la mia vocazione sarebbe inspiegabile.  (Gustave Morel)

Nessuno è mai diventato un grande giocando sul sicuro. (Harry Gray)

Vocazione è avere per mestiere la propria passione. (Henry Beyle Stendhal)

Una nave nel porto è al sicuro, ma le navi non sono fatte per questo. (John A. Shedd)

La vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla; sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che sceglierete. (Jean-Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo)

Io sono chiamato per fare e per essere qualcosa per cui nessun altro è chiamato. Io occupo un posto mio nel piano di Dio, nel mondo di Dio, un posto da nessun altro occupato. Dio mi ha affidato un lavoro che non ha affidato ad un altro ... Io ho la mia missione. (Card. John Henry Newman) 

I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo (Mahatma Gandhi).

La vita non è facile per nessuno di noi. Ma che possiamo farci? Dobbiamo perseverare e, soprattutto, credere in noi stessi. Dobbiamo credere che siamo nati per qualcosa e che dobbiamo raggiungere a qualsiasi costo! (Maria Skłodowska Curie)

C'è solo un modo per essere felici: vivere per gli altri. (Lev Tolstoj)

La vita intera di un uomo dipende da due o tre "sì", e due o tre "no", detti dai sedici ai venti anni. (Louis Baunard)

Colui che esita è sempre uno sciocco. (Mae West)

Perché sono al mondo? Per farvi sbocciare la santità. (Mendel di Kotzk)

Se avremo aiutato una sola persona a sperare, non saremo vissuti invano. (Martin Luther King)

Vivere è giocare e giocarsi! (Natalia Ginzburg)

Un vincitore è solo un sognatore che non si è arreso. (Nelson Mandela)

Coloro che credono di amare un principe nel momento in cui hanno avuto da lui buona accoglienza, mi ricordano i bambini che vogliono farsi preti non appena hanno visto una bella processione, o farsi soldati dopo aver assistito a una parata militare. (Nicholas de Chamfort)

Non puoi scegliere tu la tua vocazione. É la tua vocazione a scegliere te. Ti sono state elargite doti particolari, che sono soltanto tue. Usale, qualsiasi possano essere, e non indossare mai i panni altrui. Chi ha talento nel guidare il carro, con la sua abilità può vincere oro e fama. Mettilo a raccogliere fichi, e morirà di fame. (Og Mandino) 

Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi - ecco la ragione d'essere di ognuno di noi. (Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Mondadori Scuola, Milano, 1990, p. 24)

La vocazione è qualcosa che nasce ogni giorno e richiede la fedeltà al dovere del momento... Aver paura degli schemi. (Primo Mazzolari) 

Solo coloro che sono preparati alla sconfitta possono ottenere una vittoria. (Robert F. Kennedy)

Che maturino vocazioni mistiche: solleveranno la speranza della Chiesa rattristata. (Roger Schutz)

Dopo aver pensato a quanti ti precedono, considera quanti ti seguono. (Seneca)

Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno, non è vissuto invano. (Madre Teresa di Calcutta)

Non ha importanza la forma della chiamata. È una cosa tra Dio e me. Ciò che è importante è che Dio chiama ciascuno in modo differente. Noi non abbiamo alcun merito. L’importante è rispondere con gioia alla chiamata. (Madre Teresa di Calcutta)

Il cento per cento dei colpi che non tiri, li manchi. (Wayne Gretzky)

L'ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericoli in ogni opportunità. (Winston Leonard Spencer Churchill)

giovedì 8 ottobre 2009

Aforismi Amore

Abbiamo a lungo parlato d'amore. Ora proviamo ad ascoltarlo, vuoi? (Anonimo)

Ogni oggetto amato è il centro di un paradiso. (Anonimo)

Nulla è possibile senza amore. Perché solo l'amore predispone a rischiare tutto. (Carl Gustav Jung)

Nulla è difficile per chi ama [
Nihil difficile amanti]. (Cicerone)

Ego tibi monstrabo amatorium sine medicamento, sine herba, sine ullius veneficae carmine: si vis amari, ama. / Ti indicherò un filtro amoroso, senza pozioni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama. (Ecatone di Rosi)

Ama chi t'ama
a chi incontro ti viene, tu vagli incontro; 
e doni offri a chi doni t'offrì: 
a chi non dà, tu non dare. 
Al generoso si dà, 
ma dar non si deve all'avaro. (Esiodo, Le opere e i giorni, 353)

Ut ameris, amabilis esto - Per essere amato, sii amabile. (Ovidio, Ars amandi)

Che cosa è l'amore? Volete imprigionare la luce? Vi sfuggirà tra le dita! (Pavel Evdokimov)

Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. (Blaise Pascal)

Amore chiama Amore. L'amore non si acquista se non con l'amore... Colui che vuole essere amato, prima gli conviene amare, cioè avere la volontà d'amare. (Santa Caterina da Siena)

Che l'amore sia tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore. (Emily Dickinson)

La maggior parte della gente ritiene che amore significhi «essere amati» anziché amare. (Erich Fromm)

L'amore è una grave malattia mentale. (Platone, 427 - 347 a.C.)

Chi ha l'amore è lontano da ogni peccato. (Policarpo di Smirne, 69 ca. - 155)

L'amore magari non fa girare il mondo, ma devo ammettere che rende il viaggio degno di essere vissuto. (Sean Connery)

La ricchezza del mio cuore è infinita come il mare, così profondo il mio amore: più te ne do, più ne ho, perché entrambi sono infiniti. (William Shakespeare, 1564 – 1616)

Tutto il valore di una buona azione sta nell'amore che la ispira. (Talmud)

L'amore. Certo, l'amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

martedì 29 settembre 2009

La vera gioia nella vita

Ecco la vera gioia nella vita: venir usato per uno scopo di cui voi stessi riconoscete il valore... essere una forza della natura e non un piccolo agglomerato di fibre, eccitato ed egoista, pieno di guai e di rancori che recrimina perché l’universo non si dedica a renderlo felice.
Sono dell’opinione che la mia vita appartiene alla comunità e finché vivrò sarà un privilegio fare per questa quanto posso. Voglio essere utilizzato totalmente fin quando morirò, anche perché più duramente lavoro più a lungo vivo. Io gioisco per la vita in sé per sé. La vita non è una "candela corta", per me. È una specie di splendida torcia che ho il compito di tenere per un breve momento: voglio fare in modo che brilli il più possibile prima di passarla alle future generazioni.
Da un discorso a Brighton, 1907

George Bernard Shaw, George Bernard Shaw, drammaturgo, narratore e saggista irlandese (1856 – 1950)


This is the true joy in life: being used for a purpose recognized by yourself as a mighty one…
being a force of Nature instead of a feverish selfish little clod of ailments and grievances complaining that the world will not devote itself to making you happy.
I am of the opinion that my life belongs to the whole community and as long as I live it is my privilege to do for it whatever I can. I want to be thoroughly used up when I die. For the harder I work the more I live. I rejoice in life for its own sake. Life is no brief candle to me. It’s a sort of splendid torch which I’ve got to hold up for the moment and I want to make it burn as brightly as possible before handing on to future generations.

La vita ha un senso perchè Dio ti ama immensamente

Non comprendevo questa vita: essa mi sembrava spaventosa. E d'un tratto intesi le parole di Cristo e le compresi. La vita e la morte finirono di apparirmi un male e da allora, invece della disperazione, ho sentito la felicità e la gioia della vita che neppure la morte può alterare.

Lev Tolstoj (1828 – 1910), scrittore, filosofo, educatore e attivista sociale russo

L’entusiasmo del nuovo

È umano: uno zoppo evita accuratamente di parlare della sua gamba malconcia, un guercio a malincuore tratta del suo occhio buio, un gobbo non ama dissertare sulla conformazione delle sue spalle.
Parimenti un uomo qualunque evita di parlare del proprio mestiere.
L'espressione: «È un uomo appassionato al proprio mestiere», equivale per me all'espressione: «È un uomo appassionato alla propria gobba».
Un entusiasmo esiste, in un mestiere, fino a quando detto mestiere offre qualcosa di nuovo. Il pittore ruba le ore al sonno e si dimentica di mangiare davanti alla sua tela fino al giorno in cui o sa tutto sulla pittura, o si accorge che più in là egli non può andare.
Si cammina volentieri per una strada che non si conosce: il paesaggio circostante allieta lo spirito, a ogni passo corrisponde una scoperta. Ma poi, quando questa strada sia nota perfettamente o la si debba rifare ogni giorno e in ogni stagione, ecco là noia subentrare all'entusiasmo.
Allora il mestiere diventa come una condanna del destino. Un po' come una gamba malandata, un occhio buio, una schiena gibbosa.
E se io parlo del mio mestiere, è proprio perché mi sono accorto, ormai, di aver percorso tutta la strada che potevo percorrere.
Poca strada: quattro passi in tutto, che ora debbo ripetere ogni giorno, rivedendo sempre le stesse cose.
La strada è chiusa, ormai: una enorme muraglia la sbarra: non si può fare un passo di più dei quattro già fatti.

La scoperta di Milano, [Milano, Ed. Rizzoli, 1990], p. 148

Giovannino Guareschi (1908 - 1968), giornalista, umorista e scrittore italiano

Le caratteristiche di un amico

Tre sono le caratteristiche di un amico: impedire ciò che è dannoso, incitare al bene, non abbandonare nella mala sorte.

Asvaghosa, Le gesta del Budda, canto IV, 64 - A. Passi ed., [ Milano, Fabbri Ed., 1997 ], p. 51

giovedì 10 settembre 2009

Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno

Questa è la storia di 4 persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. C'era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciacuno poteva farlo, ma Nessuno lo fece, Qualcuno si arrabbiò perché era il lavoro di Ognuno. Ognuno pensò che Ciascuno potesse farlo, ma Nesuno capì che Ognuno l'avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.

Anonimo

martedì 8 settembre 2009

Altro

"Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina.

Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.

Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.

I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali."

"Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.

Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

Relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.