sabato 31 dicembre 2016

Perchè odio il capodanno



Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 o il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.
Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
 “Avanti!”, 1 gennaio 1916

Antonio Gramsci (1891 – 1937), politico, filosofo, giornalista, linguista e critico letterario italiano

giovedì 29 dicembre 2016

Vorrei che ognuno di noi avesse quattro chiavi

Vorrei che ognuno di noi avesse quattro chiavi.

Una chiave per la porta che dà sul retro:
il Signore viene, dove e come non lo sappiamo.
Viene in coloro che non ardiscono accostarsi alla grande porta maestra.

Una chiave per la porta che dà verso l'interno:
il Signore ci è più intimo del più profondo dell'anima nostra.
Da lì egli entra nella casa della nostra vita.

Una chiave per la porta di comunicazione che è stata murata,
ricoperta con l'intonaco, quella che dà su ciò che ci sta accanto:
in coloro che ci sono più prossimi, che sono anche coloro che più ci sono estranei,
il Signore bussa alla nostra porta.

Una chiave per la porta principale, il portale:
su quella soglia Gesù, con Maria e Giuseppe furono respinti.
Non esitiamo a lasciarlo decisamente entrare nella nostra vita, nel nostro mondo!
Sapremo essere, oggi, la sua Betlemme?
La porta del Natale

Klaus Hemmerle (1929-1994), vescovo, teologo e filosofo tedesco

giovedì 8 dicembre 2016

Salve, Regina, Mater misericordiae


Ti salutiamo, Regina,
madre misericordiosa: 
tu sei la nostra vita, 
la nostra serenità, 
la nostra speranza. 

Noi, figli di Eva 
lontani dalla nostra patria, 
ci rivolgiamo a te e da questa terra di dolore 
a te volgiamo il nostro sguardo 
segnato dalla sofferenza e dalle lacrime.

Tu, nostra difesa, 
guardaci con pietà e, 
dopo il nostro pellegrinaggio terreno, 
presentaci a Gesù, tuo figlio.   

Tu sei benevola, tu sei pietosa, 
tu sei amorevole, Vergine Maria!

F. P.


martedì 22 novembre 2016

Il futuro è aperto e dipende da noi



La storia termina con il presente giorno. Noi possiamo imparare da essa; il futuro, tuttavia, non è mai un prolungamento del passato, e nemmeno una sua estrapolazione. Il futuro non esiste ancora; ed esattamente qui sta la nostra grande responsabilità: che noi possiamo influenzare il futuro, che possiamo fare di tutto per renderlo migliore. A questo scopo dobbiamo far uso di tutto quello che abbiamo imparato dal passato; e una cosa molto importante che dovremmo avere imparato è di essere modesti.

Il futuro è aperto. Esso non è predeterminato. Di conseguenza, nessuno lo può prevedere - eccetto che per caso. Le possibilità che giacciono nel futuro, si tratti di possibilità buone o cattive, sono imprevedibili. Quando dico che "l'ottimismo è dovere", questo non implica soltanto che il futuro è aperto, ma anche che noi tutti lo plasmiamo attraverso quello che facciamo: noi tutti siamo corresponsabili per quello che sarà.

Tutta la vita è risolvere i problemi, Milano, Ed. Rusconi 1996, p. 285 e 297

Il futuro è molto aperto e dipende da noi, da noi tutti.
Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani.
E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori.
Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte.

La lezione di questo secolo, Venezia, Ed. Marsilio, 1992

Karl Popper (1902 – 1994), filosofo e epistemologo austriaco

mercoledì 26 ottobre 2016

Cittadino dell'universo




“Sono un cittadino, non di Atene o della Grecia, ma del mondo" (Socrate)

Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che cosa resta da fare a costoro se non seguire l'esempio di Socrate e cioè non rispondere mai a chi vuole sapere la loro città: "Sono cittadino d'Atene o cittadino di Corinto", ma "cittadino dell'universo"? Perché dici di essere ateniese e non semplicemente di quell'angolo di terra in cui fu gettato il tuo povero corpo al momento della nascita? Ovvero è chiaro che derivi da un principio superiore, che abbraccia non solo quell'angolo di terra, ma anche l'intera tua casa, e, in una parola, il paese dove si è perpetuata fino a te la stirpe dei tuoi antenati, e di qui, se mai, ti chiami ateniese o corinzio? Chi dunque ha penetrato l'organizzazione dell'universo e ha capito che "di tutte le cose la più grande, la più importante, la più universale è la società formata dagli uomini e da Dio, e che da lui le forze generatrici scendono non solo fino a mio padre e a mio nonno, ma a tutto ciò che sulla terra nasce e cresce, specialmente agli esseri ragionevoli, giacché essi soli per natura partecipano alla comunione divina, essendo legati a Dio per la ragione", perché non dirà di essere cittadino dell'universo?

Primo libro delle Diatribe, capitolo 9

Epitteto (50 ca. – 130 ca.) filosofo stoico greco

martedì 27 settembre 2016

Come la sabbia tra le dita


Il tempo scivola via 
come la sabbia tra le dita,
restano granelli di ricordi 
incastrati fra cuore e anima.

Nel suo passare via ne comprendi il senso;
a volte con sollievo, spesso con tormento.
Si intrecciano passato e presente,
i sogni belli con quelli brutti.

Conta i granelli, sono davvero tanti.
Trafiggono il cuore, feriscono l'anima.
Portano sollievo e qualche rimpianto.
Poi ne guardi il cuore, ne senti il profumo.

Volta pagina, 
non è finita.
Tra i ricordi ieri e quelli di domani
vivi il presente.

Silvana Stremiz, poetessa e scrittrice italiana 

Insegnami il tempo

Dio mio,
insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai
e ad impiegarlo bene, senza sciuparne.

Insegnami a prevedere senza tormentarmi,
insegnami a trarre profitto dagli errori passati,
senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.

Insegnami ad immaginare l'avvenire
senza disperarmi che non possa essere
quale io l'immagino.

Insegnami a piangere sulle mie colpe
senza cadere nell'inquietudine.

Insegnami ad agire senza fretta,
e ad affrettarmi senza precipitazione.

Insegnami ad unire la fretta alla lentezza,
la serenità al fervore, lo zelo alla pace.

Aiutami quando comincio,
perché è  proprio allora che io sono debole.

Veglia sulla mia attenzione quando lavoro,
e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.

Fa' che io ami il tempo
che tanto assomiglia alla Tua grazia
perché esso porta tutte le opere alla loro fine
e alla loro perfezione
senza che noi abbiamo l'impressione
di parteciparvi in qualche modo.

Jean Guitton (1901 – 1999), filosofo e scrittore francese

Signore, fammi buon amico di tutti


Signore, fammi buon amico di tutti,
fa' che la mia persona ispiri fiducia
a chi soffre e si lamenta.
A chi cerca luce lontano da Te,
a chi vorrebbe cominciare e non sa come,
a chi vorrebbe confidarsi e non se ne sente capace.

Signore aiutami,
perché non passi accanto a nessuno
con il volto indifferente,
con il cuore chiuso,
con il passo affrettato.

Signore, aiutami ad accorgermi subito
di quelli che mi stanno accanto,
di quelli che sono preoccupati e disorientati,
di quelli che soffrono senza mostrarlo,
di quelli che si sentono isolati senza volerlo.

Signore, dammi una sensibilità
che sappia andare incontro ai cuori.
Signore, liberami dall'egoismo,
perché ti possa servire,
perché ti possa amare,
perché ti possa ascoltare,
in ogni fratello che mi fai incontrare.

Vincenzo de’ Paoli, [ Vincent de Paul] (1581 – 1660), santo, presbitero francese, fondatore della Congregazione della Missione e delle Suore Figlie della Carità

giovedì 15 settembre 2016

I ciechi e l’elefante


C’erano una volta sei saggi che vivevano insieme in una piccola città.
I sei saggi erano ciechi. Un giorno fu condotto in città un elefante. I sei volevano conoscerlo, ma come avrebbero potuto?
“Io lo so”, disse il primo saggio , “ lo toccheremo.”
“Buona idea”, dissero gli altri ,”così sapremo com’è un elefante.”
I sei andarono dall’elefante.
Il primo gli toccò l’orecchio grande e piatto. Lo sentì muoversi lentamente avanti e indietro.“L’elefante è come un ventaglio”, proclamò.
Il secondo toccò le gambe dell’elefante. “E’ come un albero”, affermò.
“Siete entrambi in errore”, disse il terzo. “L’elefante è simile a una fune”. Egli stava toccando la coda dell’elefante.
Subito dopo il quarto toccò con la mano la punta aguzza della zanna .”L’elefante è come una lancia”, esclamò.
“No, no”, disse il quinto , “è simile ad un’alta muraglia”. Aveva toccato il fianco dell’elefante. Il sesto aveva afferrato la proboscide. “Avete torto”, disse, “l’elefante è come un serpente”.
“No, come una fune”.
“Serpente!”
“Muraglia!”
“Avete torto!” “Ho ragione!”

I sei ciechi per un’ora continuarono a urlare l’uno contro l’altro e non riuscirono a scoprire come fosse fatto un elefante!

Morale della storia: ognuno  vede i problemi a modo suo, tende a non ascoltare gli altri e non riesce quasi mai a raffigurarsi l’intera realtà.

Questa è la versione rielaborata e più breve del seguente racconto indiano...

Successe in India, tanto tempo fa.
Una volta nel parco di Anatapindika, nella città di Jetavana presso Savatthi, religiosi, dotti e scienziati litigavano furiosamente, si accapigliavano, si offendevano. Ognuno pensava di dire ciò che era giusto e ciò che era sbagliato e ognuno aveva l’idea che era giusto ciò che diceva lui e sbagliato quello che diceva un altro. Ognuno era così convinto di essere dalla parte della ragione che neanche ascoltava quello che l’altro aveva da dire e appena si accorgeva che voleva dire qualcosa di diverso lo offendeva dicendo: «È giusto come la penso io, la tua idea è sbagliata». E l’altro lo stesso: «Ma che dici? La mia è l’idea giusta, è la tua che è sbagliata». E litigavano ancora. Per lo più litigavano per un fatto: che uno diceva che l’universo è grande grande grande, così grande che praticamente non ha né una fine e né un inizio. Praticamente: l’universo è infinito. Ma l’altro non era d’accordo perché diceva che invece il mondo è finito e faceva un disegno del villaggio in cui vivevano per dimostrarlo. Ma non litigavano solo per questo. C’era chi diceva che gli animali hanno un’anima e chi diceva di no. Uno che il tempo non ha né un inizio e né una fine – come quell’altro aveva detto dell’universo – e l’altro santone si stropicciava la barba e iniziava a contare «uno due tre… mille… vedi che si può contare il tempo? Quindi se si può contare con i numeri a un certo punto finirà!» Nonostante fossero tutte persone molto colte e istruite ognuno però usava la sua sapienza per offendere con le parole l’altro. Uno diceva: «Sei uno stupido. La terra gira, altro che ferma». E l’altro: «Se gira allora tutto dovrebbe cambiare sempre». Poi si davano dello sciocco perché per uno la terra era rotonda e per un altro piatta. Insomma in questa città, che si chiamava Savatthi, regnava una grande confusione. Ma per fortuna tra tutti i saggi ce n’era uno di gran lunga più saggio. Tanto saggio da non cadere nei facili tranelli delle discussioni, da vivere in disparte e con modestia ma sempre disposto ad accettare l’idea espressa da un’altra persona. Questa sua serenità lo rendeva ancora più saggio ed era da tutti riconosciuto come un saggio dei saggi. Anzi diciamo pure il saggio per eccellenza. Ma il nostro dotto amico, saputo di quello strano conflitto, si era molto contrariato perché pensava che era buffo che persone così intelligenti e profonde non riuscissero a trovare un accordo sulla loro ricerca di verità e che fossero convinte che la loro verità fosse così giusta da offendere quella dell’altro. Avrebbe potuto intervenire anche lui cercando di capire cosa diceva uno e cosa l’altro, ma rendendosi conto che non sarebbe servito a nulla entrare nella discussione decise di raccontare una storia che li aiutasse a capire. La storia che gli raccontò era quella di un gruppo di ciechi e di un elefante. E la storia diceva così. Cari monaci, un re in un tempo molto antico, in questa stessa città mandò a chiamare tutti coloro che erano nati ciechi. Dopo che questi si furono raccolti in una piazza mandò a chiamare il proprietario di un elefante a cui fece portare in piazza l’animale. Poi chiamando a uno a uno i ciechi diceva loro: questo è un elefante, secondo te a cosa somiglia? E uno diceva una caldaia, un altro un mantice a seconda della parte dell’animale che gli era stata fatta toccare. Un altro toccava la proboscide e diceva il ramo di un albero. Per uno le zanne erano un aratro. Per un altro il ventre era un granaio. Chi aveva toccato le zampe le aveva scambiate per le colonne di un tempio, chi aveva toccato la coda aveva detto la fune di una barca, chi aveva messo la mano sull’orecchio aveva detto un tappeto. Quando ognuno incontrò l’altro dicendo quello a cui secondo lui somigliava l’animale discutevano animatamente perché ognuno era convinto assolutamente di quello che aveva toccato. Perciò se gli chiedevano a cosa somigliasse un elefante diceva l’oggetto che gli era sembrato di toccare. Naturalmente se uno diceva un mantice e l’altro una caldaia volavano gli insulti perché nessuno metteva in dubbio quello che aveva sentito toccando la parte del corpo dell’elefante. Il re vedendoli così convinti della loro sicurezza e litigiosi si divertiva un mondo. Ma alla fine decise di aiutarli a capire, e a due a due li invitava a toccare quello che aveva toccato l’altro e a chiedergli a cosa somigliasse. Così tutti dicevano quello che sosteneva l’altro e si invertivano i ruoli. Come se fosse stato un gioco li invitò a parlare tra di loro e alla fine tutti si formarono l’idea di come in realtà l’elefante fosse. Tutti furono d’accordo che era un mantice con un ramo di un albero nel mezzo e a lato un aratro con due tappeti sopra un granaio sostenuto da colonne e tirato da una fune di barca.
Dopo che il saggio Maestro ebbe finito di raccontare questa storia disse: «Miei saggi discepoli voi fate la stessa cosa. Non sapete ciò che è giusto e ciò che è sbagliato né ciò che è bene e ciò che è male e per questo litigate, vi accapigliate e vi insultate. Se ognuno di voi parlasse e ascoltasse l’altro contemporaneamente la verità vi apparirebbe come una anche se ha molte forme».

Parabola buddhista tratta dagli Udanda


Immagine: Francisco Goya,“La follia degli animali” incisione del 1820

domenica 11 settembre 2016

Gli uomini sono su per giù tutti uguali


Il delitto dell'ultimo prigioniero arrivato consisteva in una piccola osservazione che aveva fatto. Aveva detto che, a suo parere, gli uomini erano su per giù tutti uguali e che un uomo valeva l'altro, a parte gli abiti. Aveva detto che, a suo parere, se avessero denudato tutta la popolazione e avessero mandato in giro tra la folla uno straniero, questi non sarebbe riuscito a distinguere un re da un medicante, né un duca da un portiere d'albergo. A quel che sembrava, questo era un uomo il cui cervello non era stato ridotto in poltiglia da un'educazione idiota.
(Un americano alla corte di re Artù)

Mark Twain [Samuel Langhorne Clemens] (1835 – 1910), scrittore e docente statunitense

venerdì 9 settembre 2016

Appassionatevi alla vita


Ricordo i miei anni del ginnasio: un mare di dubbi.
Dubitavo perfino della mia capacità di affrontare la vita.
Che età difficile!
Hai paura di non essere accettato dagli altri,
dubiti del tuo charme, della tua capacità d'impatto con gli altri e non ti fai avanti.
E poi problemi di crescita, problemi di cuore...

Ma voi non abbiate paura, non preoccupatevi!
Se voi lo volete,
se avete un briciolo di speranza
e una grande passione
per gli anni che avete...
cambierete il mondo e non
lo lascerete cambiare agli altri.

Vivete la vita che state vivendo con una forte passione.
Non recintatevi dentro di voi circoscrivendo la vostra vita
in piccoli ambiti egoistici, invidiosi, incapaci di aprirsi agli altri.
Appassionatevi alla vita perché è dolcissima.
Mordete la vita!

Non accantonate i vostri giorni, le vostre ore,
le vostre tristezze con quegli affidi malinconici ai diari.
Non coltivate pensieri di afflizione, di chiusura, di precauzioni.
Mandate indietro la tentazione di sentirvi incompresi.
Non chiudetevi in voi stessi, ma sprizzate gioia da tutti i pori.
Bruciate... perché quando sarete grandi potrete scaldarvi
ai carboni divampati nella vostra giovinezza.

Incendiate... non immalinconitevi.
Perché se voi non avete fiducia gli adulti che vi vedono saranno più infelici di voi.
Coltivate le amicizie, incontrate la gente.
Voi crescete quanto più numerosi sono gli incontri con la gente,
quante più sono le persone a cui stringete la mano.
Coltivate gli interessi della pace, della giustizia,
della solidarietà, della salvaguardia dell'ambiente.
Il mondo ha bisogno di giovani critici.

Vedete! Gesù Cristo ha disarmato per sempre gli eserciti quando ha detto:
"rimetti la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce, di spada perisce".
Ma noi cristiani non siamo stati capaci di fare entrare
nelle coscienze questo insegnamento di Gesù.
Diventate voi la coscienza critica del mondo.  Diventate sovversivi.
Non fidatevi dei cristiani "autentici" che non incidono la crosta della civiltà.
Fidatevi dei cristiani "autentici sovversivi"  come San Francesco d'Assisi
che ai soldati schierati per le crociate sconsigliava di partire.
Il cristiano autentico è sempre un sovversivo;
uno che va contro corrente non per posa ma perché sa
che il Vangelo non è omologabile alla mentalità corrente.

E verranno i tempi in cui non ci saranno più né spade e né lance,
né tornado e né aviogetti, né missili e né missili-antimissili.
Verranno questi tempi.
E non saremo più allucinati da questi spettacoli di morte!
Non so se li ricordate, se li avete letti  in qualche vostra antologia
quei versi di Neruda in cui egli si chiede cosa sia la vita.
Tunnel oscuro, - dice - tra due vaghe chiarità
o nastro d'argento su due abissi d'oscurità?
Quando ero parroco li citai durante una messa con i giovani.
Poi chiesi: perché la vita non può essere un nastro d'argento
tra due vaghe chiarità, tra due splendori? Non potrebbe essere così la vostra vita?

Vi auguro davvero che voi la vita possiate interpretarla in questo modo bellissimo.
                                             
Don Tonino Bello, vescovo italiano (1935 - 1993)

mercoledì 7 settembre 2016

"Preghiera semplice" della famiglia



Signore, fa’ della nostra famiglia uno strumento della tua pace:
dove prevale l'egoismo, che portiamo amore,

dove domina la violenza, che portiamo tolleranza,
dove scoppia la vendetta, che portiamo riconciliazione,

dove serpeggia la discordia, che portiamo comunione,
dove regna l'idolo del denaro, che portiamo libertà dalle cose,

dove c’è scoraggiamento, che portiamo fiducia,
dove c'è sofferenza, che portiamo consolazione,

dove c'è solitudine, che portiamo compagnia,
dove c’è tristezza, che portiamo gioia,
dove c'è disperazione, che portiamo speranza.

O Maestro, fa' che la nostra famiglia non cerchi tanto di accumulare, quanto di donare,
non si accontenti di godere da sola ma sappia condividere.

Perché c'è più gioia nel dare che nel ricevere,
nel perdonare che nel prevalere,
nel servire che nel dominare.

Così costruiremo insieme una società solidale e fraterna.
Amen


Credo nella famiglia

Credo nella famiglia, o Signore:
quella che è uscita dal tuo disegno creativo,
fondata sulla roccia dell’amore eterno e fecondo;
Tu l’hai scelta come tua dimora tra noi,
Tu l’hai voluta come culla della vita.

Credo nella famiglia, o Signore:
anche quando nella nostra casa
entra l’ombra della croce,
quando l’amore perde il fascino originario,
quando tutto diventa arduo e pesante.

Credo nella famiglia, o Signore:
come segno luminoso di speranza
in mezzo alle crisi del nostro tempo;
come sorgente di amore e di vita,
come contrappeso alle molte aggressioni
di egoismo e di morte.

Credo nella famiglia: o Signore: come la mia strada
verso la piena realizzazione umana
come la mia chiamata alla santità,
come la mia missione per trasformare il mondo
a immagine del tuo Regno.
Amen.

Enrico Masseroni, arcivescovo di Vercelli


Beati voi che siete una famiglia!

Beati perché siete la culla dell’amore, dove ci si ama,
dove, se vivete l’uno per l’altro, diventate una sola carne.
Beati perché fate sprigionare l’amore che unisce:
voi siete il luogo in cui si impara fin da piccoli a vivere relazioni gratuite,
a diventare "dono" l’uno per l’altro.

Beati perché fate sbocciare la vita e date un futuro alla società.
Voi siete il luogo naturale dove avviene la procreazione delle nuove vite
e dove i figli possono crescere sereni e ricevere una educazione equilibrata.
Beati perché fate crescere le persone:
formate la loro personalità, le aiutate a crescere come "esseri in relazione",
le educate nella vita affettiva e nella socialità.

Beati perché educate i figli:
trasmettete loro i valori essenziali della convivenza civile,
quali la dignità della persona, la fiducia reciproca,
il buon uso della libertà, il dialogo, la solidarietà.

Beati perché consolate il vecchio e il malato;
siete l’unico ambiente in grado di offrire
un’accoglienza ricca di calore al bambino e al malato, al disabile e al vecchio.

Beati perché siete il "soggetto sociale" intermedio,
che garantisce il giusto rapporto tra il singolo e la società,
e aiutate le persone a non scivolare nell'individualismo che isola
e a non lasciarsi assorbire dal collettivismo che schiaccia.
Beati perché siete la cellula della società.

Da voi dipende il futuro della persona e della società.
Se muoiono le famiglie, muore la società. Se le famiglie sono sane, è sana anche la società.
Beati perché garantite la sopravvivenza della società,
contribuite all’edificazione della convivenza civile, promuovete la solidarietà sociale,
date un contributo originale al mondo della scuola, del lavoro, dell’economia e della politica.

E per le famiglie che hanno consacrato il loro amore con il sacramento del matrimonio, aggiungo:
"Beati voi, che siete famiglie cristiane!".
Beati perché siete un "Vangelo vivo":
in cui si può "leggere" il volto di Dio-Trinità, il suo amore per l’umanità,
l’amore paziente, eccedente, gratuito di Cristo per la Chiesa.

Beati perché siete le "cellule" vitali delle parrocchie,
costruite la Chiesa e fate crescere la parrocchia come "famiglia di famiglie".
Beati perché avete il dono di poter testimoniare,
annunciare e comunicare l’amore di Dio
per l’umanità e di Cristo per la Chiesa
attraverso i vostri gesti di amore, di perdono,
di accoglienza e di solidarietà, Cristo stesso accoglie, perdona e ama.

Beati perché siete la "piccola Chiesa",
in cui l'annuncio del Vangelo può essere da tutti vissuto
e verificato in maniera semplice e spontanea.

Beati perché avete la possibilità di portare il Vangelo nel contesto della vita di tutti i giorni,
soprattutto nelle situazioni vitali di gioia e dolore, di speranza e attesa,
dove si ripropongono i grandi interrogativi sulla vita.

Beati perché potete trasformare la vostra gioia di essere sposi
in preghiera di lode e di ringraziamento
e con essa potete affrontare i momenti del dolore e della sofferenza.

Lucio Soravito, vescovo di Adria-Rovigo


Preghiera della famiglia

Fa o Signore che nella nostra casa
quando si parla sempre ci si guardi negli occhi.
Non si sia mai soli o nell’indifferenza o nella noia:
i problemi degli altri non siano sconosciuti o ignorati;
chi abbia bisogno possa entrare e sia il benvenuto.
Il lavoro sia importante:
ma non più importante della gioia,
il cibo sia il momento di gioia insieme e di parola,
il riposo sia la pace del cuore oltre che del corpo;
la ricchezza più grande sia la gioia di essere insieme:
il più debole sia al centro della casa;
il più piccolo e il più vecchio siano i più amati;
il domani non faccia paura, perché Dio è sempre vicino.
Si renda grazie a Dio per tutto ciò che la vita offre
e che il Suo amore ci ha dato;
non si abbia paura di essere onesti
e di soffrire per gli altri;
il crocifisso esposto in casa non sia un portafortuna,
ma ricordi tutto questo:
la parrocchia e la chiesa siano sempre
l ’orizzonte più ampio;
la volontà di Dio sia fatta,
così che ciascuno segua la sua vocazione,
la strada indicata dal Signore.
Amen.

Armando Trasarti, vescovo di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola


Dio, dal quale proviene ogni paternità in cielo e in terra, Padre, che sei Amore e Vita,
fa che ogni famiglia umana sulla terra diventi, mediante il tuo Figlio, Gesù Cristo, "nato da Donna",
e mediante lo Spirito Santo, sorgente di divina carità, un vero santuario della vita e dell'amore
per le generazioni che sempre si rinnovano.
Fa' che la tua grazia guidi i pensieri e le pene dei coniugi verso il bene delle loro famiglie
e di tutte le famiglie del mondo.
Fa' che le giovani generazioni trovino nella famiglia un forte sostegno per la loro umanità
e la loro crescita nella verità e nell'amore.
Fa' che l'amore, rafforzato dalla grazia del sacramento del matrimonio,
si dimostri più forte di ogni debolezza e di ogni crisi,
attraverso le quali, a volte, passano le nostre famiglie.
Fa' infine, te lo chiediamo per intercessione della Sacra Famiglia di Nazareth,
che la Chiesa in mezzo a tutte le nazioni della terra possa compiere fruttuosamente
la sua missione nella famiglia e mediante la famiglia.
Tu che sei la Vita, la Verità e l'Amore, nell'unità del Figlio e dello Spirito Santo.
Amen

Giovanni Paolo II (Per il Sinodo sulla famiglia, 1980)


Beata la famiglia

Beata la famiglia aperta alla vita
che accoglie i figli come un dono,
valorizza la presenza degli anziani,
è sensibile ai poveri e ai sofferenti.
Beata la famiglia che prega insieme
per lodare il Signore,
e affidargli preoccupazioni e speranze.
Beata la famiglia
che vive i propri legami nella libertà,
lasciando a tutti autonomia di crescita.
Beata la famiglia dove regna la pace
al suo interno e con tutti:
in lei mette radici la pace del mondo.
Beata la famiglia che vive
in sintonia con l'universo
e si impegna per la costruzione
di un mondo più umano.
Beata la famiglia in cui vivere è gioia,
allontanarsi è nostalgia,
tornare è festa.

domenica 28 agosto 2016

Rischi

A ridere c’è il rischio di apparire sciocchi;
A piangere c’è il rischio di essere chiamati sentimentali;
A stabilire un contatto con un altro c’è il rischio di farsi coinvolgere;
A mostrare i propri sentimenti c’è il rischio di mostrare il vostro vero io;
A esporre le vostre idee e i vostri sogni c’è il rischio d’essere chiamati ingenui;
Ad amare c’è il rischio di non essere corrisposti;
A vivere c’è il rischio di morire;
A sperare c’è il rischio della disperazione e
A tentare c’è il rischio del fallimento.
Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è quello di non rischiare nulla.
La persona che non rischia nulla, non è nulla e non diviene nulla. Può evitare la sofferenza e l’angoscia, ma non può imparare a sentire e cambiare e progredire e amare e vivere. Incatenata alle sue certezze, è schiava.
Ha rinunciato alla libertà.
Solo la persona che rischia è veramente libera.

(da: “Vivere, Amare, Capirsi”, Mondadori – traduzione di Roberta Rambelli Pollini)

Leo Buscaglia (1924 – 1998), docente e scrittore statunitense

I bambini imparano ciò che vivono


Se un bambino vive con le critiche, impara a condannare.
Se un bambino vive con l’ostilità, impara ad aggredire.
Se un bambino vive con il timore, impara ad essere apprensivo.
Se un bambino vive con la pietà, impara a commiserarsi.
Se un bambino vive con lo scherno, impara ad essere timido.
Se un bambino vive con la gelosia, impara cos'è l’invidia.
Se un bambino vive con la vergogna, impara a sentirsi in colpa.
Se un bambino vive con l’incoraggiamento, impara ad essere sicuro di sé.
Se un bambino vive con la tolleranza, impara ad essere paziente.
Se un bambino vive con la lode, impara ad apprezzare.
Se un bambino vive con l’accettazione, impara ad amare.
Se un bambino vive con l’approvazione, impara a piacersi.
Se un bambino vive con il riconoscimento, impara che è bene avere un obiettivo.
Se un bambino vive con la condivisione, impara la generosità.
Se un bambino vive con l’onestà e la lealtà, impara cosa sono la verità e la giustizia.
Se un bambino vive con la sicurezza, impara ad avere fiducia in se stesso e in coloro che lo circondano.
Se un bambino vive con la benevolenza, impara che il mondo è un bel posto in cui vivere.
Se vivi con serenità, il tuo bambino vivrà con la pace dello spirito.
Con che cosa sta vivendo il tuo bambino?

Dorothy Law Nolte (1924 - 2005), scrittrice statunitense

giovedì 11 agosto 2016

Bisogna salvare il seme


Pochi istanti dopo s'udì partire a motore imballato la giardinetta della ragazza e don Camillo uscì dal confessionale e andò a sfogare col Cristo dell'altar maggiore la tristezza del suo animo:
"Signore, se questi giovani che si prendono gioco delle cose più sacre sono la nuova generazione, che mai sarà della Vostra Chiesa?"
"Don Camillo" rispose con voce pacata il Cristo "non ti lasciare suggestionare dal cinema e dai giornali. Non è vero che Dio ha bisogno degli uomini: sono gli uomini che hanno bisogno di Dio. La luce esiste anche in un mondo di ciechi. È stato detto 'hanno gli occhi e non vedono'; la luce non si spegne se gli occhi non la vedono."
"Signore: perché quella ragazza si comporta così? Perché per ottenere una cosa che potrebbe facilmente avere soltanto se chiedesse, deve estorcerla, carpirla, rubarla, rapinarla?"
"Perché, come tanti giovani, è dominata dalla paura d'essere giudicata una ragazza onesta. È la nuova ipocrisia: un tempo i disonesti tentavano disperatamente d'essere considerati onesti. Oggi gli onesti tentano disperatamente d'essere considerati disonesti."
Don Camillo spalancò le braccia:
"Signore, cos'è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?"
"Don Camillo, perché tanto pessimismo? Allora il mio sacrificio sarebbe stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?"
"No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede. Cose senza le quali non si può vivere. Questa è l'autodistruzione di cui parlavo. L'uomo, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L'unica vera ricchezza che, in migliaia di secoli, aveva accumulato. Un giorno non lontano si ritroverà esattamente come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell'uomo sarà quello del bruto delle caverne. Signore: la gente paventa le armi terrificanti che disintegrano uomini e cose. Ma io credo che soltanto esse potranno ridare all'uomo la sua ricchezza. Perché distruggeranno tutto e l'uomo, liberato dalla schiavitù dei beni terreni cercherà nuovamente Dio. E lo ritroverà e ricostruirà il patrimonio spirituale che oggi sta finendo di distruggere. Signore, se questo è ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?"
Il Cristo sorrise.
"Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l'asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta.
Don Camillo e i giovani d'oggi

Giovannino Guareschi (1908 - 1968), giornalista, umorista e scrittore italiano

lunedì 18 luglio 2016

Dopo un po'... (After a while...)


Dopo un po’
impari la sottile differenza
tra tenere una mano
e incatenare un’anima.
E impari che l’amore
non è appoggiarsi a qualcuno
e la compagnia non è sicurezza.
E inizi a imparare
che i baci non sono contratti
e i doni non sono promesse.
E incominci ad accettare
le tue sconfitte a testa alta
e con gli occhi aperti
con la grazia di un adulto
non con il dolore di un bimbo.
Ed impari a costruire tutte le strade oggi
perché il terreno di domani
è troppo incerto per fare piani.
Dopo un po’
impari che il sole scotta,
se ne prendi troppo.
Perciò pianti il tuo giardino
e decori la tua anima,
invece di aspettare
che qualcuno ti porti i fiori.
E impari che puoi davvero sopportare,
che sei davvero forte,
e che vali davvero.

Veronica A. Shoffstall

venerdì 15 luglio 2016

La vecchiarella e il maestro di teologia


Si racconta che un giorno San Bonaventura (1218 - 1274) fosse andato a visitare a Monteripido, presso Perugia, uno dei più semplici e rozzi compagni di San Francesco: Frate Egidio, un ex contadino della vecchia guardia, e quindi preoccupato del nuovo indirizzo culturale dell’Ordine.
Quando lo vide, il vecchio e arguto compagno di San Francesco, disse al maestro Bonaventura, con intenzione quasi polemica: «Maestro, a voi Dio ha fatto grandi doni d’intelligenza, ma noi d’ingegno grosso e senza studi, che non abbiamo alcuna scienza, come faremo a salvarci?»
Fra Bonaventura rispose prontamente: «Se Dio dà all’uomo soltanto la Grazia di poterlo amare, questo basta». Era la risposta che Frate Egidio attendeva, ma volle approfondire anche di più chiedendo: «Può dunque un ignorante amare Dio come un dotto?». E Bonaventura: «Una vecchierella può amarlo anche di più di un maestro di teologia».
Egidio, lieto di trovare nella dottrina di Bonaventura lo spirito di San Francesco, corse in fondo all’orto, gridando, rivolto ad una persona immaginaria: «Vecchierella, poverella, semplice e ignorante, ama il Signore e potrai diventare più grande di frate Bonaventura, maestro di teologia».

lunedì 11 luglio 2016

Il dolore dell'anima


Incredibile come il dolore dell'anima non venga capito.
Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare "presto-barellieri-il-plasma", se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine.
Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non riesci ad aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell'anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle; ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.

Oriana Fallaci (1929 - 2006) scrittrice e giornalista italiana

domenica 10 luglio 2016

Cercare, includere e gioire


La vita del presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino.

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio.

Discorso in occasione dell’apertura della 69a Assemblea generale della CEI, 16 Maggio 2016

Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.

Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.

Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).

Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.

Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).

Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. E’ un uomo che sa includere.

Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.

Omelia in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia - Giubileo dei Sacerdoti, 3 Giugno 2016

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, Papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma


Cercare, includere e gioire


La vita del presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino.

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio.

Discorso in occasione dell’apertura della 69a Assemblea generale della CEI, 16 Maggio 2016

Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.

Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.

Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).

Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.

Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).

Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. E’ un uomo che sa includere.

Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.

Omelia in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia - Giubileo dei Sacerdoti, 3 Giugno 2016

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, Papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma


martedì 5 luglio 2016

Maldicenze e piume di gallina


Tra le penitenti di San Filippo Neri (1515 - 1595) c'era una donna assai dedita alla maldicenza, che non riusciva ad emendarsi da questa pessima abitudine.

Padre Filippo più volte l’ammonì severamente del male che causava al prossimo con la sua cattiva lingua, ma visto che era vana ogni parola, decise di venire a una correzione di fatto.

Un giorno, dopo averla ascoltata al confessionale, le domandò: “Cadete spesso in questo difetto?”. “Spessissimo padre! Vi sono così abituata che neppure me ne accorgo”, rispose la penitente.

Dinanzi a sì franca accusa, l’esperto direttore d’anime capì che l’abitudine era ormai inveterata e che quindi bisognava ricorrere a qualche penitenza grave, tale da farle comprendere i tremendi effetti del peccato di cui si accusava.

“Figliola mia – continuò – il vostro errore è grande, ma la misericordia di Dio è ancora più grande. Ora voglio farvi toccare con mano tutto il male che avete fatto e che andate facendo con la vostra maldicenza. Ecco dunque cosa dovete fare: il primo giorno di mercato comprerete una gallina morta, ma che abbia le penne…”

“Padre – interruppe la penitente – ma che c’entra la gallina con la penitenza che mi dovete dare?”

“Statemi ad ascoltare che non ho ancora finito. – soggiunse il padre – Dunque, con la gallina in mano, girerete per le vie della città togliendole per strada, poco per volta le piume. Dopo che l’avrete spennata per bene, verrete qui da me, e vi dirò quel che dovrete fare”.

La penitente ubbidì puntualmente alle prescrizioni del confessore e poi andò da lui.

“Ora che avete fatta quell’operazione, – le disse il santo –  tornerete per quelle stesse vie dove siete passata, e raccoglierete ad una ad una tutte le piume della gallina che avete spennato, senza lasciarne attorno nessuna.”

“Ma, padre mio, mi chiedete una cosa impossibile!… Soffiava tanto vento che chissà dove avrà trasportato tutte quelle piume!”

“Lo so anch’io – le rispose – ma con questo volevo farvi conoscere che le vostre maldicenze assomigliano a quelle piume. Si, anche le vostre parole velenose sono state trasportate dappertutto; andate ora a ripigliarle se ne siete capace! Come è possibile che voi possiate riparare a tanto male che avete causato al prossimo con la vostra lingua?”

Che bella lezione per i maldicenti e di diffamatori!

I tre setacci

Nell'antica Grecia Socrate aveva una grande reputazione di saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovare il grande filosofo, e gli disse:

- Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?

- Un momento, - rispose Socrate - prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.

- I tre setacci?

- Ma sì, - continuò Socrate - prima di raccontare ogni cosa sugli altri, è bene prendere il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?

- No... ne ho solo sentito parlare...

- Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono?

- Ah no! Al contrario

- Dunque, - continuò Socrate - vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell'utilità. E' utile che io sappia cosa mi avrebbe fatto questo amico?

- No, davvero.

- Allora, - concluse Socrate - quello che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile: perché volevi dirmelo?

Se ciascuno di noi potesse meditare e metter in pratica questo piccolo test... forse il mondo sarebbe migliore.

"Quando manca la legna il fuoco si spegne, 
quando non c'è il maldicente cessano le contese!"
(Proverbi 26,20)

"...lui ha lo stesso valore di tutti gli altri!"




Un commerciante aveva appeso un cartello sulla sua porta che diceva: “cuccioli di cane in vendita”.
Questo messaggio attraeva numerosi bambini. Ben presto un ragazzino andò nel negozio e chiese: “A quanto li vendi i cuccioli?”. Il proprietario rispose: “tra 30 e 50 euro”. Il ragazzino tirò fuori dalla sua tasca qualche moneta e disse: “Ho solo 2,37 €, posso vederli?”.
Il proprietario sorrise e fece un fischio. Dalla cuccia apparve la sua cagna di nome Lady seguita dai suoi cinque cuccioli. Una di loro era sola e stava indietro rispetto agli altri. Immediatamente il ragazzo rimase colpito dal cagnolino che zoppicava.
Così chiese a quell’uomo: “Cosa ha quel cane?”. L’uomo spiegò che quando nacque il veterinario aveva riscontrato un’articolazione rotta e che quindi avrebbe zoppicato per sempre. Il ragazzino replico: “É lui il cagnolino che voglio!”.
L’uomo rispose: “Non puoi volerlo veramente, lui non potrà mai correre e saltellare come gli altri. Ma se proprio lo vuoi, te lo regalo!”.
Di rimando il bambino disse: “Io non voglio che me lo regali, lui ha lo stesso valore di tutti gli altri. Ora ti do 2,37€ e poi 50 centesimi al mese, finché non avrò ripagato tutto”.
Il ragazzo si chinò e tirò su la gamba dei pantaloni, scoprendo un arto steccato con una bacchetta di metallo. Alzò lo sguardo verso l’uomo e disse: “Beh! Non posso correre neanche io e questo cane ha bisogno di qualcuno che lo capisca!”.
L’uomo con gli occhi pieni di lacrime, sorrise e disse: “Ragazzo, spero e prego che ognuno di questi piccoli cuccioli possa trovare qualcuno come te. Grazie.”.

Alcune persone si sentono piccole e senza valore. Il valore di una persona non si misura da quanto si è perfetti, ma dalla capacità di amare e di riuscire a donare gioia e far sorridere gli altri. Nella vita non importa apparire o credere di essere qualcuno, ma essere apprezzati per quello che si è.
Liberiamoci dai pensieri che impongono dei limiti, andiamo a testa alta: nessuno è perfetto!

lunedì 4 luglio 2016

Dov'è dunque Dio?


Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano, un'ingiuria dalla sua bocca.
Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.
(A Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli adulti. Ho visto un giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l'altro urlava: «Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane. Capito?». Ma il piccolo servitore dell'olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice).
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell'Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.
L'Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.
Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà! - gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! - urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
- Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
La notte, Giuntina, Firenze 2000, p. 65-67
Elie Wiesel (1928 – 2016), scrittore, giornalista e filosofo rumeno


martedì 14 giugno 2016

Perchè andare in Chiesa?

Un cristiano "praticante" scrisse una lettera al redattore di un giornale e lamentandosi del fatto che non aveva senso andare in Chiesa ogni domenica. “Io ci vado da 30 anni”, scrisse, “e in tutto questo tempo ho sentito qualcosa come 3.000 prediche. Ma per la mia vita, non posso ricordarmene nemmeno una sola di loro. Così penso che stia sprecando il mio tempo e i preti sprechino il loro predicando sermoni a tutti!”. Questo diede inizio a una vera e propria controversia nelle "Lettere al Direttore", con molta gioia del redattore. Seguì per settimane fino a che qualcuno scrisse questa replica:
“Io sono sposato da 30 anni. In tutto questo tempo mia moglie ha cucinato 32.000 pasti. Ma per la mia vita, non posso richiamare alla memoria il menu intero di uno solo di quei pasti. Ma so questo: tutti mi hanno nutrito e mi dato la forza di cui ho avuto bisogno per fare il mio lavoro. Se mia moglie non mi avesse dato quei pasti, sarei fisicamente morto oggi. Similmente, se non fossi andato in chiesa per nutrirmi, sarei spiritualmente morto oggi! Quando tu sei giù per un nulla... Dio è su per un qualche cosa!”
La fede vede l'invisibile, crede l'incredibile e riceve l'impossibile! Grazie a Dio per nostro nutrimento fisico e spirituale!

“Chi si crede cristiano perché va a messa sbaglia. Uno non diventa un'automobile solo stando in parcheggio.” (Albert Schweitzer, 1875 – 1965)

domenica 29 maggio 2016

Aforismi Gratitudine

Non [c'è] nessun dovere maggiore del ringraziare. (Ambrogio da Milano, In morte del fratello Satiro, I,44)

Nella vita ordinaria noi raramente ci rendiamo conto che riceviamo molto di più di ciò che diamo, e che è solo con la gratitudine che la vita si arricchisce. (Dietrich Bonhoeffer)

Procedi con calma

Procedi con calma in mezzo al fragore ed alla fretta. Ricorda sempre quale pace può esserci nel silenzio.

Per quanto ti è possibile, senza arrenderti, sii sempre in buoni rapporti con il tuo prossimo. Manifesta la tua verità con tranquillità e chiarezza; e presta ascolto agli altri, anche agli sciocchi e agli ignoranti: perchè anche essi hanno una loro storia.

Evita le persone rumorose ed aggressive: esse rappresentano delle irritazioni per lo spirito. Non ti paragonare ad altri perchè potresti diventare vanitoso ed amaro, perchè esisteranno persone superiori e inferiori a te stesso. Goditi sia i successi che i progetti.

Mantieniti sempre interessato alla tua carriera, per quanto umile questa sia: essa rappresenta una vera e propria ricchezza nelle mutevoli fortune del tempo. Sii sempre cauto nei tuoi affari perchè il mondo è pieno di inganni. Ma non lasciare mai che ciò ti renda cieco verso quello che è la virtù: molta gente lotta per degli alti ideali; e dovunque la vita è costellata di atti d'eroismo.

Sii sempre te stesso. In particolar modo non fingere affetto. E non essere neppure cinico nei confronti dell'amore, in quanto, di fronte a tutte le aridità e le disillusioni, esso è eterno come l'erba.

Prendi benevolmente i consigli che ti derivano dall'esperienza degli anni e abbandona garbatamente le cose della giovinezza. Alimenta continuamente la forza dello spirito per proteggerti nelle avversità improvvise. Ma non angustiarti con delle chimere. Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. Al di là di una sana disciplina, sii sempre garbato con te stesso.

Tu sei un figlio dell'universo, non meno di quanto lo siano gli alberi e le stelle: tu hai diritto di essere qui. E, ti sia chiaro o no, non c'è dubbio che l'universo prima o poi ti si aprirà come dovuto.

Perciò sii in pace con Dio, qualsiasi cosa tu creda Egli sia, e quali che siano i tuoi compiti e le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita mantieniti in pace con la tua anima.

Con tutte le sue falsità, le sue ingratitudini e i suoi sogni infranti, questo rimane pur sempre ancora un mondo meraviglioso. Sii prudente e fa di tutto per essere felice.

Testo trovato nella vecchia chiesa di Saint Paul, Baltimora, datato 1692

venerdì 27 maggio 2016

Tutto il mondo è Betlemme

Il Natale è ormai una festa non riservata ai cristiani ma carica di una valenza antropologica. I valori della quotidianità, del tessuto della vita, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore, la fraternità sono ormai legati a questo giorno al punto che anche là dove vi è contrapposizione tra credenti e non credenti, la festa rimane tale per tutti: magari, invece di “Buon Natale!” i non credenti si augurano un più generico “Buone Feste!”, ma il clima dell’incontro, della gioia, dell’intimità è da tutti condiviso. Il Natale è un’autentica occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera: in questo senso tutti noi sappiamo benissimo “cos’è” il Natale.

Eppure ciascuno di noi ne ha un’immagine personalissima, legata ai ricordi d’infanzia e ai tanti Natali vissuti, a volti e parole di persone amate, a consuetudini che ha voluto conservare o ricreare, e ciascuno cerca di viverlo ogni anno secondo quell’immagine. Del resto, il porre l’accento sull’uno o sull’altro degli aspetti del mistero dell’incarnazione risale fino alle origini stesse della festa. È almeno dal IV secolo che i cristiani il 25 dicembre fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, aumentando così la durata della luce offerta alla terra. La notte, che dal 24 giugno aveva sempre accresciuto le sue ore, cominciava ad arretrare davanti al sole vincitore che come un prode cresceva sull’orizzonte. E siccome per i cristiani Gesù il Messia è il “sole di giustizia”, la “luce vera”, fu naturale collocare in quel giorno di festa pagana la celebrazione della natività del loro Signore. D’altronde la venuta del Messia era già stata salutata da Israele e dai profeti come “venuta, apparizione della luce”, come “luce che risplende per quelli che stanno nelle tenebre”.

Questa inculturazione del cristianesimo non è stata facile e forse il Natale dei cristiani conservò, almeno per i più, qualcosa di pagano, di estraneo alla fede se papa Leone Magno nel V secolo doveva biasimare “quei cristiani che prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore si volgono verso il sole e piegano il capo in suo onore”! La meditazione cristiana faceva di quella festa il giorno dell’incarnazione di Dio, il giorno in cui è avvenuto uno scambio: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”.

Poi, nel secondo millennio, soprattutto in occidente, la meditazione del Natale si è progressivamente concentrata sul “bambino Gesù”, sulla sua umanità, sulla sua debolezza e sulla “novità ordinaria” costituita dal venire al mondo di un uomo: l’evento non fu più letto tanto come manifestazione, venuta di Dio, quanto come mistero della povertà, dell’umiltà, della debolezza di Dio. Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri di Dio. Il presepe è la riproposizione iconica o scultorea di quell’evento umile e povero che, se ci pensiamo bene, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Scena oggi più rara in occidente, e per lo più relegata negli ospedali, ma scena un tempo abituale anche nelle nostre famiglie... Sì, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è di per sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il “terzo”, appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. È un evento di speranza: chi vi assiste, in particolare se ormai avanti negli anni, è abitato e consolato dal pensiero che il mondo va avanti, che la vita fiorisce e si moltiplica, che un futuro migliore è possibile: segno tangibile del nostro essere immessi in una catena di generazioni. Credo sia anche per questo che il presepe ha avuto tanta fortuna nell’occidente cattolico, ma anche tanta narrazione iconografica nell’oriente ortodosso.

Nel Nord invece, dove il sole non dà evidenti segni di vittoria nel gelido inverno, la festa è segnata da un albero, l’abete, evocazione dell’albero della vita: un albero che resta vivo e verde nel bianco della neve è il vincitore sul rigore del freddo nelle steppe brulle. Ecco allora l’albero vicino alle case e alle chiese o addirittura al loro interno, addobbato di colori e di luce, quasi obbligato a fiorire e risplendere al cuore della notte invernale.

Se il modo di percepire e celebrare il Natale è cambiato nei secoli, i mutamenti si sono fatti più rapidi in questi ultimi decenni, al punto che chi è anziano può misurarli nell’arco della sua stessa esistenza. Un tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra e fino al boom economico, anni da me trascorsi nella campagna monferrina, il Natale era davvero la festa più importante dell’anno e non certo per i regali, allora tali per modo di dire e ben scarsi... Alcuni anni c’era qualcosa da donare ai figli, ma altre volte i genitori sconsolati dicevano con molta naturalezza che non c’era niente perché l’annata era stata cattiva. Quando c’erano, i regali erano frutta secca, cioccolatini, caramelle, il panettone oppure, se ci si scostava dai dolci, un quaderno più bello, una nuova penna, qualche matita colorata...

Eppure, si attendeva il Natale con ansia. All’inizio della novena si iniziava a raccogliere il muschio, a preparare il tavolo o l’angolo della casa dove allestire il presepe. Si tiravano fuori con cura dalla scatola imbottita di paglia le statuine e le si contemplava come se le si vedesse per la prima volta, poi si rispolverava qualche lampadina per illuminare la grotta e qualche anfratto del presepe. Noi bambini ci davamo da fare con un misto di eccitazione e di attenzione perché volevamo che il presepe diventasse una “nostra” opera. Si ricreava così attorno alla grotta una rappresentazione della vita del paese come la conoscevamo: la bottega del falegname, quella del fabbro e dello stagnino, il mulino, il gregge del pastore, e poi l’asino e il bue che furono i primi a rincuorare il neonato scaldandolo con il fiato. Sì, perché, così ci dicevano, quelle due bestie sono più intelligenti degli uomini: infatti, sentono l’erba crescere, mentre noi non siamo capaci di percepire i misteriosi mutamenti della natura... Insomma, era tutto il paese a essere rappresentato attorno alla grotta, come se fosse diventato per qualche giorno Betlemme, e questo messaggio si imprimeva in modo indelebile nel cuore: non si sarebbe mai cancellato, come gli eventi dell’infanzia vissuti con attesa, stupore, gioia.

Qualcuno, invece del presepe, addobbava l’albero, anche se questa usanza non era gradita al parroco, perché aveva un vago sapore “protestante”, e l’ecumenismo doveva ancora trovare spazio nella chiesa. Io li preparavo entrambi, l’uno accanto all’altro, e quando mi mancava il pino, piantavo in un vaso una scopa di saggina capovolta, la scompigliavo e la addobbavo di luci e palle colorate. Sì, nello stupore creativo di noi bambini anche la scopa, così umile e necessaria, a Natale conosceva il suo momento di gloria luminosa.

Ma ciò che faceva percepire a tutti la gioia del Natale erano i preparativi per il pranzo, anche nelle famiglie più povere: le pentole che bollivano con il cappone, le donne che si riunivano per preparare insieme i ravioli e predisporre le sette portate “canoniche”, indispensabili perché il pranzo fosse “il pranzo di Natale”, un unicum in tutto l’anno. Gli uomini invece cercavano il ceppo da mettere nel camino: non la solita legna, ma un ceppo nodoso e grande, che poteva durare dalla sera fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, quando si rientrava a casa intirizziti dal freddo, perché la chiesa non era riscaldata e per molti il tragitto fino a casa era lungo... E a quella messa andavano tutti, anche quelli che durante l’anno non si facevano mai vedere in chiesa: l’umile semplicità del Figlio di Dio, che appariva come il figlio di una coppia di poveri in viaggio, inteneriva anche i cuori più duri.

Il parroco dal canto suo sapeva cogliere quell’opportunità unica, sapeva far valere la sua autorità che stava tutta in una parola franca, schietta, nel suo sapersi fare eco della buona notizia del Natale. Così, semplicemente, chiedeva a tutti di essere più buoni, di riconciliarsi con coloro con i quali si era in lite, di perdonare le offese: non chiedeva altro, perché nel suo sapiente discernimento sapeva che per quei contadini che uscivano dal paese solo per andare al mercato nella città vicina, ciò che condizionava la loro vita e la loro felicità, oltre al pane, la casa e il vestito, erano i rapporti quotidiani con gli altri: parenti, vicini conoscenti. Sì, pace, concordia, armonia erano capite così: la pace, quella che era sperimentata con il finire della guerra, era percepita come una “grazia”: “Questo non è più un Natale di guerra – si diceva – siamo contenti e ringraziamo Dio”, ma nella consapevolezza che quel tipo di pace non dipendeva da loro, ma dai potenti che decidevano le sorti della pace e della guerra. Mentre la pace quotidiana, l’armonia nella vita familiare e nei rapporti sociali, quella sì che dipendeva da ciascuno custodirla e farla vivere. Così il parroco non dedicava parole e pensieri ai grandi del mondo, ma esortava con voce accorata quelli che lo ascoltavano anche solo in quell’occasione affinché coltivassero durante tutto l’anno quel desiderio di armonia e concordia sperimentato nella notte di Natale.

Così, anche il Dio che a volte nelle parole del parroco era il Dio irato che mandava la grandine sulla vigna di quelli che lavoravano alla domenica o che bestemmiavano, tornava al suo volto autentico: un Dio buono, che capiva gli uomini e chiedeva loro solo di essere buoni, sull’esempio di suo Figlio, Gesù. E questa immagine di un Dio umanissimo riaccendeva la speranza di una vita migliore anche in quegli uomini rudi, che silenziosi si mettevano in fila come bambini per baciare il piedino di quella che era sì solo una statua, ma capace di rievocare tutta l’inerme innocenza di un neonato.

Oggi queste usanze, così legate a una vita contadina e a un mondo più semplice e più povero che in occidente non conosciamo più, sono scomparse, e i cristiani scoprono di non essere più “padroni” del Natale, una festa ormai strappata loro di mano. Tuttavia sta proprio a loro, con la loro “differenza” nel vivere il Natale, essere i custodi del senso profondo della festa e i testimoni della speranza che celebrano: “l’uomo è un animale chiamato a diventare Dio”. Sì, attraverso un’umanizzazione della loro vita, della vita con gli altri, della vita nella polis, i cristiani saranno più fedeli che mai alla loro identità mentre coloro che cristiani non sono potranno solo beneficiare del servizio per una migliore qualità della vita offerto dai cristiani. Non si celebra la venuta di Cristo nella carne contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non vivono il Natale da cristiani perché non hanno la fede. “Non di tutti è la fede”, ci ricorda sempre l’apostolo Paolo, ma tra tutti è possibile tessere cammini di pace, di giustizia, di perdono, di ascolto reciproco.

La Stampa, 24 dicembre 2005

Enzo Bianchi, saggista italiano, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose

Preghiera di ringraziamento

La fede cristiana è costitutivamente eucaristica e solo chi rende grazie fa l’esperienza della salvezza, cioè dell’azione di Dio nella propria vita. E poiché la fede è relazione personale, di un’intera esistenza, con Dio...
Nell’episodio evangelico dei dieci lebbrosi guariti da Gesù (Luca 17,II-19) si afferma che a uno solo di loro si rivolgono le parole del Signore: «La tua fede ti ha salvato» (Luca 17,19): è colui che, vistosi guarito, è tornato indietro per ringraziare Gesù. La fede cristiana è costitutivamente eucaristica e solo chi rende grazie fa l’esperienza della salvezza, cioè dell’azione di Dio nella propria vita. E poiché la fede è relazione personale, di un’intera esistenza, con Dio, la dimensione dell’azione di grazie non riguarda solo la forma di certe preghiere da fare, ma deve arrivare a impregnare l’essere stesso della persona. È ciò che chiede Paolo: «Siate eucaristici!» (Colossesi 3,15).
Pur così fondamentale, il ringraziamento è tutt’altro che facile! Dal punto di vista antropologico esso è linguaggio non spontaneo nel bambino. Il ringraziamento suppone infatti il senso dell’alterità, la messa in crisi del proprio narcisismo, la capacità di entrare in rapporto con un «tu»: solo a una persona, infatti, si dice «grazie»! È grato colui che ha messo a morte l’immagine di sé come di uno che «non deve niente a nessuno»; è grato colui che riconosce di non poter disporre a piacimento della realtà esterna e degli altri. Nel rapporto con il Signore la capacità eucaristica indica la maturità di fede del credente che riconosce che «tutto è grazia», che l’amore del Signore precede, accompagna e segue la propria vita. L’azione di grazie scaturisce in modo naturale dall’evento centrale della fede cristiana: il dono del Figlio Gesù Cristo che Dio Padre, nel suo immenso amore, ha fatto all’umanità (cfr. Giovanni 3,16). È il dono salvifico che suscita nell’uomo il ringraziamento e fa dell’eucaristia l’azione ecclesiale per eccellenza. «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, renderti grazie sempre e dovunque, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Gesù Cristo, nostro Signore.» Questa formulazione dei prefazi del Rituale Romano indica bene il perenne movimento del ringraziamento cristiano. E poiché l’eucaristia, in particolare la preghiera eucaristica, è il modello della preghiera cristiana, il cristiano è chiamato a fare della sua esistenza un’occasione di rendimento di grazie. Infatti, dice Paolo, «che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1 Corinti 4,7). Alla gratuità di Dio verso l’uomo risponde dunque il riconoscimento del dono e la riconoscenza, la gratitudine dell’uomo. Potremmo dire che anche il ringraziamento umano è dono di Dio: «Noi dobbiamo a Dio la gratitudine di avere la gratitudine», recita una preghiera della liturgia ebraica.
Il ringraziamento è dunque la modalità spirituale peculiare con cui il cristiano si rapporta al mondo, alle cose, agli altri. Ecco perché un gesto assolutamente vitale come il pasto quotidiano è sempre segnato da una preghiera di ringraziamento. Il ringraziamento a Dio al momento del pasto (la «preghiera della tavola») è una confessione di fede: essa esprime che sono dono di Dio tanto la vita quanto il senso della vita. La vita che ci viene trasmessa dal cibo, il senso della vita rappresentato dalla relazione che lega le persone riunite convivialmente per il pasto comune. Vita e senso della vita che nell’eucaristia sono sintetizzati nella persona del Cristo vivente che si dona come cibo di vita eterna ricreando le relazioni di comunione tra i membri dell’assemblea. Al dono della vita piena nel Figlio il cristiano risponde dunque ringraziando per essere stato creato e per il dono della fede. Si pensi alla tradizionale preghiera del mattino: «Vi adoro, mio Dio, e vi amo con tutto il cuore. Vi ringrazio di avermi creato, fatto cristiano, e conservato in questa notte».
Ma soprattutto il cristiano risponde al dono di Dio facendo della propria vita un dono, un ringraziamento, un’eucaristia vivente. Davvero, la preghiera di ringraziamento non è solo risposta puntuale a eventi in cui si discerne la presenza e l’azione di Dio nella propria vita, ma è attitudine profonda di un’esistenza che apre la propria quotidiana trama alla trasfigurazione del Regno veniente. Fino a trasfigurare la morte in evento di nascita a vita nuova. Al momento del martirio l’ultima parola di Cipriano di Cartagine fu «Deo gratias»; Giovanni Crisostomo concluse la sua travagliata esistenza con le stesse parole di ringraziamento a Dio; Chiara di Assisi spirò dopo aver pregato: «Ti ringrazio, Signore, di avermi creata». La loro vita si è compiuta come un’eucaristia. Se dunque è vero che la preghiera di ringraziamento considera il passato, ciò che Dio ha fatto per noi, sicché essa è retrospettiva e nasce dalla memoria, è però altrettanto vero che essa apre al futuro, alla speranza, e si configura come la dimensione peculiare di vivere cristianamente il presente, lo spazio stesso della vita!
Le parole della spiritualità
Enzo Bianchi, saggista italiano, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose