lunedì 20 luglio 2015

L’inferno è non amare più



No, non tacerò, signora. I preti hanno taciuto troppo spesso, e vorrei che fosse stato solo per pietà. Ma siamo vili. Appena stabilito il principio, lasciamo dire. Voi cosa ne avete fatto dell'inferno? Una specie di prigione perpetua, analoga alle vostre; e vi chiudete sornionamente in anticipo la cacciagione umana che le vostre polizie inseguono dall'inizio del mondo: i nemici della società. Vi degnate di includervi anche i bestemmiatori e i sacrileghi. Quale spirito sensato, quale cuore fiero accetterebbe senza disgusto, senza ripugnanza, una simile immagine della giustizia di Dio? Quando questa immagine vi disturba, vi è troppo facile scartarla. Giudicate l'inferno secondo le massime di questo mondo; e l'inferno non è di questo mondo. Non è di questo mondo; e tanto meno del mondo cristiano. Un castigo eterno, un'espiazione eterna. L’unico miracolo è che noi possiamo farci un'idea da quaggiù, mentre appena uscita da noi la colpa, basta uno sguardo, un segno, un muto appello perché il perdono vi si scagli sopra, dall'alto dei cieli, come un'aquila. Sta il fatto che il più miserabile degli uomini viventi, anche se non crede più di amare, conserva ancora la possibilità d'amare. Persino il nostro odio s'irradia; il demone meno torturato s'espanderebbe in quella che chiamiamo disperazione, come in un luminoso, trionfale mattino. L'inferno, signora, è non amare più. Sono sicuro che queste parole: “Non amare più”, suonino come un'espressione familiare alle vostre orecchie. Non amare più, per un uomo vivente, significa amare altre cose o amare meno. E se questa facoltà, che ci sembra inseparabile dal nostro essere, che sembra il nostro stesso essere e comprendere ancora un modo di amare - potesse scomparire? Non amare più, non comprendere più e vivere lo stesso, che prodigio! L'errore comune a tutti è di attribuire a queste creature abbandonate ancora qualcosa di noi, della nostra perpetua mobilità, mentre esse sono fuori del tempo, fuori del movimento, fisse per sempre. Se Dio ci conducesse per mano verso una di questi esseri dolorosi, anche se un tempo fosse stato l'amico più caro, con quale linguaggio gli parleremmo? Se un uomo vivo, un nostro simile, l'ultimo di tutti, il più vile tra i vili, venisse gettato tale quale in codesti limbi ardenti, vorrei condividere la sua sorte, andrei a disputarlo al suo carnefice. Condividere la sua sorte… la disgrazia, l'inconcepibile disgrazia di quelle pietre roventi che furono uomini, è che non hanno più nulla da condividere.
[ Diario di un curato di campagna ]
Georges Bernanos (1888 – 1948), scrittore francese