martedì 5 novembre 2024

Starò davanti a te a faccia a faccia

Un giorno dopo l’altro,
o Signore della mia vita,
starò davanti a te a faccia a faccia.

A mani giunte,
o Signore di tutti i mondi,
starò davanti a te a faccia a faccia.

Sotto il grande cielo
in solitudine e silenzio,
con cuore umile
starò davanti a te a faccia a faccia.

In questo tuo mondo operoso,
nel tumulto del lavoro e della lotta,
tra la folla che s’affretta,
starò davanti a te a faccia a faccia.

E quando il mio lavoro in questo mondo
sarà compiuto, o Re dei re,
solo e senza parole,
starò davanti a te a faccia a faccia.


Rabindranath Tagore


Capire e credere

Non ti chiediamo, Signore,

di risuscitare i nostri morti,

ti chiediamo di capire la loro morte

e di credere che tu sei il Risorto:

questo ci basti per sapere

che, pure se morti, viviamo

e che non soggiaceremo

alla morte per sempre. Amen.


David Maria Turoldo

Non separarmi da coloro che ho amato


Signore Dio,
non si può sperare per gli altri più di quanto si desidera per se stessi.

Per questo io ti supplico: non separarmi dopo la morte da coloro che ho così teneramente amato sulla terra.

Fa', o Signore, ti supplico,
che là dove sono io gli altri si trovino con me, affinché lassù possa rallegrarmi della loro presenza, dato che ne fui così presto privato sulla terra.

Ti imploro, Dio sovrano,
affrettati ad accogliere questi figli diletti nel seno della vita.
Al posto della loro vita terrena così breve, concedi loro di possedere la felicità eterna.

Ambrogio da Milano (ca. 340 - 397), vescovo, teologo, scrittore e santo 


domenica 3 novembre 2024

Il giorno dei morti

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l’inonda e muove la tempesta;

o camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo tutto sempiterni

e crisantemi. A ogni croce roggia
pende come abbracciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto di memorie, posa.

Non i miei morti. Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano con brontolìo roco)

piangono. La pupilla umida e pia
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un’altra lagrima per via.

Piangono, e quando un grido ch’esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno!...
cupo rompe un singulto lor dal petto.

Levano bianche mani a bianchi volti,
non altri, udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio de’ figli, ancor non nato.
Nessuno! i morti miei gemono: nulla!

— O miei fratelli! — dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegliò dal sogno della vita:

— o miei fratelli, che bevete ancora
la luce, a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati della dolce aurora;

o miei fratelli! nella notte oscura,
quando il silenzio v’opprimeva, e vana
l’ombra formicolava di paura;

io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.

E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre
io, senza un bacio, senza una parola.

E voi, fratelli, o miei minori, nulla!...
voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella:
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Ch’io l’oda il suono della vostra voce
ora che più non romba la procella:
io dormirò con le mie braccia in croce.

Nessuno! — Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia l’acqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre il camposanto.

— O figli — geme il padre in mezzo al nero
fischiar dell’acqua — o figli che non sento
più da tanti anni! un altro cimitero

forse v’accolse, e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.

E voi le braccia dall’asil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.

O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per un’intera eternità v’amai.

In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.

Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.

Oh! le parole mute ed infinite
che dissi! con qual mai strappo si franse
la vita viva delle vostre vite.

Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, nè il tetto,
nè chi li aiuti, nè chi li consigli.

Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m’ha tolta.

Perdona all’uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, buon Dio...
e se ha figlioli, in nome lor perdona.

Che sia felice; fagli le vie piane;
dagli oro e nome; dàgli anche l’oblio;
tutto: ma i figli miei mangino il pane.

Così dissi in quel lampo senza fine;
Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla più grandicella alle piccine.

Spariva a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo più non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano —

Dice; e più triste si rinnova il pianto;
più stridula, più gelida, più scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.

— No, babbo, vive, vivono — Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, eppur nota ad ascoltarla,

o mio Luigi, o anima compagna!
come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, all’acqua che ti bagna!

come mutato! sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via.

— vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?

È la sorella che morì lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio di Sogliano.

Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi; fuori del nero
chiostro, de’ sotterranei profondi!

Un’altra voce tu, fratello, ascolta;
dolce, triste, lontana: il tuo Ruggiero;
in cui, babbo, moristi un’altra volta.

Parlano i morti. Non è spento il cuore
nè chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore.

E or per quanto stridula di vento
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,

o mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che ti rivedessi!

Avessi tu provato di quell’ora
ultima il freddo, e or quest’abbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora —

— Ma se vivete, perchè, morti cuori,
solo è la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce è senza fiori? —

Così singhiozza Giacomo: poi geme:
— Quando sola restò la nidïata,
Iddio lo sa, come vi crebbi insieme:

se con pia legge l’umili vivande
tra voi divisi, e destinai de’ pani
il più piccolo a me, ch’ero il più grande;

se ribevvi le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;

se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di quest’acque, io suscitava
la buona fiamma d’eriche e sarmenti;

e io, quando vedea rosso ogni viso,
e più rossi i più piccoli, tremava
sì, del mio freddo, ma con un sorriso.

Ma non per me, non per me piango: io piango
per questa madre che, tra l’acqua, spera,
per questo padre che desìa, nel fango;

per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo io ti dicea... ma era
grossa la lingua e forse non udivi —

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto

d’occhi lasciati dalla morte attenti,
pianto di cuori cui la sepoltura
lasciò, ma solo di dolor, viventi.

L’odo: ora scorre libero: nessuno
può risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è così forte, il cielo è così bruno.

Nessuno udrà. La povera famiglia
può piangere. Nessuno, al suo lamento,
può dire: Altro è mio figlio! altra è mia figlia!

Aspettano. Oh! che notte di tempesta
piena d’un tremulo ululo ferino!
Non s’ode per le vie suono di pesta.

Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude l’uscio del tugurio al cane.

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall’assidua romba.
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

I figli morti stanno avvinti al padre
invendicato. Siede in una tomba
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora l’ombra. Culla
due bimbi morti sopra i suoi ginocchi.

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per sè nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;

e dice: — Forse non verranno. Ebbene,
pietà! Le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un po’ di bene.

Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme.

E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidïando, ai morti.

Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse e per chi resta in via,

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta,
per chi cammina, cammina, cammina;
e non ha pietra ove posar la testa.

Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, o figli morti, ai vivi! —

O madre! Il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.

Myricae 1891

Giovanni Pascoli (1855 – 1912), poeta, accademico e critico letterario italiano

Novembre

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. 
È l’estate, fredda, dei morti.

Myricae 1891

Giovanni Pascoli (1855 – 1912), poeta, accademico e critico letterario italiano

San Martino

La nebbia a gl’irti colli

piovigginando sale,

e sotto il maestrale

urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo

dal ribollir de’ tini

va l’aspro odor de i vini

l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi

lo spiedo scoppiettando:

sta il cacciator fischiando

su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi

stormi d’uccelli neri,

com’esuli pensieri,

nel vespero migrar.

Rime Nuove (1861-1887)

Giosuè Carducci

Autunno

Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

1931 (Giorni in piena, 1934)

Vincenzo Cardarelli [Nazareno Caldarelli] (1887 – 1959) poeta, scrittore e giornalista italiano

Novembre

C’è un giorno che tutte le formiche escono dal bosco
a fare il fascio per l’invernata.
Sopraggiungono, di lì a poco,
le lunghe piogge autunnali,
simili a un gran pianto dirotto, interminabile.

È un pianto che sgorga a fiumi, a torrenti,
fa crescere il lago, solca le strade, rovina i ponti
e dilaga per i campi ostinatamente verdi.
I muri si ricoprono di vellutina.

Quando più nessuno se l’aspetta,
un sole freddoloso, più prezioso dell’oro vecchio,
torna poi, ogni mattina,
a trovare le foglie gialle d’acacia
che piovono ancora sui davanzali,
le foglie secche dei platani
che il vento trascina lungo i viali.

1931

Vincenzo Cardarelli [Nazareno Caldarelli] (1887 – 1959) poeta, scrittore e giornalista italiano

Estiva

Distesa estate,

stagione dei densi climi

dei grandi mattini

dell’albe senza rumore

ci si risveglia come in un acquario

dei giorni identici, astrali,

stagione la meno dolente

d’oscuramento e di crisi,

felicità degli spazi,

nessuna promessa terrena

può dare pace al mio cuore

quanto la certezza di sole

che dal tuo cielo trabocca,

stagione estrema, che cadi

prostrata in riposi enormi,

dai oro ai più vasti sogni,

stagione che porti luce

a distendere il tempo

di là dai confini del giorno,

e sembri mettere a volte

nell’ordine che procede

qualche cadenza dell’indugio eterno.

1915

Vincenzo Cardarelli [Nazareno Caldarelli] (1887 – 1959) poeta, scrittore e giornalista italiano

venerdì 1 novembre 2024

Chiedere ciò che è necessario alla vita di tutti

Una pagina della catechesi sul Padre Nostro di San Guido Maria Conforti, datata 8 dicembre 1917. Siamo nel mezzo della Prima guerra mondiale; in Russia è in atto la "Rivoluzione di ottobre". Commentando il Padre Nostro, Monsignor Guido Maria Conforti  al versetto: “dacci oggi il nostro pane quotidiano” afferma che ciò significa chiedere il necessario per la vita di tutti...


[ Gesù ] col precetto della carità fraterna che tutti obbliga a venire in aiuto di chi versa nel bisogno, ha costituito in certo qual modo ministri della sua bontà quanti avrebbero creduto in lui. E per questo appunto ci ha insegnato a chiedere il pane necessario alla vita di tutti; ha voluto che lo chiamassimo nostro per ammonirci che il pane e gli altri beni donatici da Dio non sono talmente propri di ciascheduno di noi che non debbano essere comuni anche agli altri ove il loro bisogno lo esiga e le nostre forze il comportino. Secondo la legge della carità quel pane che abbonda negli uni deve dispensarsi a beneficio degli altri che ne mancano, onde tutti vengano sostentati e provveduti del necessario.

Oh, se queste massime sante fossero state sempre praticate, dopo diciannove secoli di Cristianesimo non saremmo spettatori di quell'equilibrio sociale, che produce tanto malessere e minaccia le più tremende reazioni. Il Cristianesimo, che presiede coi suoi grandi principii alla produzione e distribuzione delle ricchezze, ci presenta anche le sue dottrine intorno al loro consumo; ed esso nonostante le recriminazioni della scienza economica materialistica che proclama: consumate quanto più potete, proclama in quella vece che le ricchezze si hanno ad usare con saggia parsimonia. Ci inculca quindi l'astinenza, la sobrietà, la temperanza e condanna il lusso.

…Vi ha un lusso che è utile e permesso dalle dottrine del Vangelo. Egli è quel lusso decente che vien richiesto dalla propria condizione e dalle convenienze sociali; quel lusso dignitoso che è l’appannaggio esteriore dell’uomo, l’onesto compimento della bellezza del corpo che anch'esso è fattura di Dio.

Ma il lusso eccessivo, il lusso inonesto ed immoderato è altamente condannato dal buon senso e dal Vangelo. Ah, non mi dite che esso è una sorgente economica per un popolo, che esso tiene in moto le braccia di mille operai, in agiatezza la vita di mille famiglie che vivono a spese del lusso altrui. Ammetto il gran movimento dell'industria per opera del lusso, ma nego francamente che esso arricchisca la nazione; invece sperpera le sostanze, diminuisce le entrate; procaccia dei piccoli guadagni a molti, ma è anche fomite di tutti i vizi. Il lusso non arricchisce per ordinario; invece impoverisce chi lo pratica.

Bando al lusso perché esso è nocivo al civile consorzio e cagione di perturbamenti sociali, giacché quando è esagerato, quando è un lusso che abbaglia allora diviene un insulto alla miseria, una sfida, una provocazione al proletariato ed all'indigente. Bando al lusso giacché snerva i caratteri, cimenta l’onore, abbruttisce la coscienza. Gli uomini spinti dal lusso venderanno in contanti ciò che vi ha di più sacro al mondo, i propri principii la propria dignità, il proprio onore, essi non indietreggeranno dinnanzi al furto ed al suicidio. Bando al lusso che spopola gli stati, ed attirando l'attenzione delle omicide dottrine maltusiane leva bene spesso ad una nazione la sua prima forza viva, che è il numero dei suoi abitanti. Bando al lusso in quest’ora grave che attraversiamo in cui son tanti quelli che piangono, tanti quelli che hanno bisogno della carità dei fratelli.

Secondo il Vangelo i ricchi si debbono considerare come i depositari e gli economi dei beni che Dio ha loro elargito. Egli li ha colmati di ricchezza non solo perché ne possano godere cristianamente secondo i bisogni e le convenienze della loro condizione sociale, ma anche perché ne rendano partecipi i loro fratelli, versando sulle loro miserie le onde ristoratrici delle loro beneficenze.

Quando l'operaio sarà infermo quando diverrà invalido alla fatica, quando vecchio stenderà la mano all’obolo della pietà, quando la sua vedova, quando i suoi orfanelli saranno costretti a stentare la vita, allora la carità del ricco sia visibile ed operosa.

Questa, o fratelli, è la legge della carità che Cristo ci inculca ad ogni pagina del Vangelo e ci insinua anche colla petizione che abbiamo insieme commentata. “Dacci oggi il nostro pane” diciamo ogni giorno a Dio perché noi siamo un'immensa famiglia.

Abbiamo un padre comune Adamo, ma più abbiamo un Padre divino che sta nei cieli. Formiamo un'immensa famiglia, perciò la carità deve creare la comunanza dei beni, stabilire il vero comunismo, l'unico comunismo possibile, il comunismo cristiano.

Il ricco rende partecipe delle sue sostanze il povero, il possidente aiuta il diseredato della fortuna. E così, come dice l'Apostolo, si avrà la vera uguaglianza, il vero comunismo cristiano opposto al comunismo socialistico, il quale ha per suo principio l'egoismo alla sua suprema potenza. Quanto asserisco, o fratelli, non è una semplice opinione; le mie asserzioni sono eco fedele del precetto di Cristo, il quale ha detto: Quod superest date pauperibus. Tutto ciò che vi sopravanza sia dato ai poveri. Non è consiglio od insinuazione, ma precetto nella sua forma più imperativa.

Tutto il superfluo non è più vostro, o ricchi; quali siano i vostri bisogni legittimi, diversi secondo le diverse condizioni sociali, Gesù Cristo non ha indicato, ma tutto ha lasciato alla libertà e discrezione di ciascheduno. Però là dove cessano questi bisogni legittimi e l'assicurazione dell'incerto avvenire per voi ed i figli vostri, oh! allora il resto è superfluo ed ivi cessa l'uso legittimo della proprietà. Quello che avanza al dire dell'eloquente Lacordaire, è patrimonio dei poveri: quod superest date pauperibus.

E nell'ora difficile che attraversiamo s'impone più che mai l'osservanza di questo precetto evangelico, crescendo ogni giorno più i bisogni, come s’impone il dovere e la necessità di raddoppiare la nostra fiducia in quell'amorosa Provvidenza da cui tutto possiamo riprometterci.

Oggi in cui la preoccupazione dei pochi diseredati minaccia d'estendersi a molti, oggi, in cui la questione del pane quotidiano ci si presenta con carattere d'imperiosa attualità, per la ridotta disponibilità di braccia sui campi fecondi del lavoro, ripetiamo con fede più viva del solito la preghiera che il maestro divino ci ha posta sul labbro: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Ed il pane non ci verrà meno neppure in questi difficili momenti e per la solerte e previdente intelligenza di coloro che presiedono alla pubblica cosa e per raddoppiato sforzo di coloro che sapranno dedicare alla terra le energie di cui possono disporre e soprattutto per l'efficace aiuto di quell'amorosa Provvidenza in cui mai si confida invano.

Catechesi sul Padre Nostro, 8 Dicembre, 1917

Guido Maria Conforti (1865 – 1931) arcivescovo cattolico italiano, fondatore della Pia Società di San Francesco Saverio per le Missioni Estere (Saveriani), santo


Fonte: www.saveriani.org



Gesù, l’unico Amico

Gesù, sei Tu il solo e vero Amico.

Tu non solo partecipi a ogni mia sofferenza,
ma la prendi addirittura su di Te
e conosci il segreto per mutarmela in gioia.

Tu mi ascolti con bontà
e quando ti racconto le mie amarezze non manchi di addolcirle.

Ti trovo dappertutto, non ti allontani mai
e se sono costretto a cambiare residenza,
Ti trovo dovunque io vada.

Non soffri la noia nell’ascoltarmi;
non ti stanchi mai di farmi del bene.

Se ti amo, sono sicuro di essere riamato;
non hai bisogno dei miei beni, né ti impoverisci a darmi i tuoi.

Anche se sono un pover uomo,
nessuno (nobile, intelligente o santo che sia)
potrà rubarmi la tua amicizia.

La stessa morte, che divide tutti gli amici, mi riunirà a Te.

Tutte le avversità dell’età o del caso,
non riusciranno mai ad allontanarmi da Te;

Anzi al rovescio, non godrò mai tanto pienamente della tua presenza
e Tu non mi sarai mai tanto vicino,

Quanto il momento, nel quale tutto sembrerà cospirare contro di me.

Morendo, si resuscita alla vita.

Claude La Colombière (1641 – 1682), presbitero gesuita e scrittore francese, santo.