giovedì 28 dicembre 2017

Pretendete qualcosa di più da voi stessi!


Il Natale, con la sua festa dell'amore e dell'infanzia, per noi tutti non è più l'espressione di un sentimento. É l'opposto, cioè un surrogato, una imitazione in similoro. Una volta l'anno facciamo come se, attribuendo grande importanza ai begli affetti, ci dessimo volentieri agli sprechi per festeggiare una solennità dell'anima. È vero che la passeggera emozione provocata dalla reale bellezza di simili sentimenti può essere sincera; ma quanto più è sincera e sentita, tanto più è sentimentale. Il sentimentalismo è il nostro comportamento tipico di fronte al Natale e alle poche altre occasioni in cui oggi ancora intervengono nella nostra vita quotidiana resti dell'ordinamento cristiano. In tali momenti la nostra reazione è la seguente: «È pur bella questa idea dell'amore! Com'è vero che solo l'amore può redimere! Che peccato, com'è deplorevole, che le condizioni nostre ci permettano per una sola sera il lusso di questo bel sentimento, mentre per tutto il resto dell'anno ne siamo tenuti lontani dagli affari e da altre cure importanti!». Tale modo di sentire ha tutti i contrassegni del sentimentalismo, il quale infatti non è altro che il pascersi di sentimenti che in realtà non prendiamo sul serio abbastanza per sacrificare loro qualcosa, per trasformarli una buona volta in azione.

Quando i sacerdoti e i devoti si lamentano che dal mondo è scomparsa la fede e con essa la felicità, hanno ragione. Il nostro comportamento verso tutti i veri valori dell'uomo è di una barbarie e di una rozzezza che il mondo da secoli non ha più veduto. Ciò appare nel nostro contegno di fronte alla religione, di fronte all'arte, nella nostra stessa arte; giacché la piacevole idea che l'arte dell'Europa moderna si trovi ad un livello eccezionalmente alto è un errore da filistei non meno che il credere all'esistenza di una elevata e rispettabile «cultura» attuale.

La «persona colta» di oggi si comporta verso la dottrina di Gesù così: per tutto l'anno non ci pensa e non vive secondo i suoi principi, salvo a cedere la sera di Natale ad un vago e mesto ricordo infantile ed a fare una piccola indigestione di sentimenti miti, di una religiosità a poco prezzo; allo stesso modo che una o due volte l'anno, magari all'esecuzione della Passione secondo Matteo, s'inchina a quel mondo da lungo tempo abbandonato, è vero, ma sempre ancora inquietante e operante in segreto.

Sì, è una cosa ammessa, ognuno lo sa e sa anche che è triste. La colpa è dello sviluppo politico ed economico, si dice, la colpa è dello stato, la colpa è del militarismo; e così via. Perché la colpa deve pur essere di qualcosa. Nessun popolo ha «voluto la guerra», come nessun popolo ha «voluto» la giornata di quattordici ore, la crisi degli alloggi e la mortalità infantile.

Prima di festeggiare di nuovo il Natale e di saziare in noi l'eterno, ciò che unicamente è importante, con un surrogato bugiardo di sentimento, dovremmo piuttosto renderci ben conto di questo miserevole stato di cose, anche se ciò dovesse condurre alla disperazione. La colpa della nostra miseria, della nullità e della crudele desolazione della nostra esistenza, la colpa della guerra, della fame e di tutto il male e la tristezza del mondo non è di un'idea o di un principio: è nostra, solo nostra. E solo per mezzo nostro, attraverso il nostro riconoscimento e col nostro volere, tutto questo può mutare. Accendete l'albero di Natale ai vostri bambini! Fate loro cantare gli inni natalizi! Ma non ingannate voi stessi, non continuate a contentarvi del povero, sdolcinato, logoro sentimento col quale celebrare tutte le vostre feste! Pretendete qualcosa di più da voi stessi! Perché anche l'amore e la gioia, quel misterioso fenomeno che chiamiamo felicità, non si trova in questo o quel posto, ma solo dentro di noi.
Scritti autobiografici, 1961

Hermann Hesse (1877 – 1962), scrittore, poeta e pittore tedesco

martedì 19 dicembre 2017

Maria, donna dell'attesa


La vera tristezza non è quando, a sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.
E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio.
Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi siano fatti. E nessun'anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più né soprassalti di gioia per una buona notizia, né trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.
La vita allora scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco.
Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle sue attese. Forse è vero.
Se è così, bisogna concludere che Maria è la più santa delle creature proprio perché tutta la sua vita appare cadenzata dai ritmi gaudiosi di chi aspetta qualcuno.

Già il contrassegno iniziale con cui il pennello di Luca la identifica è carico di attese: “Promessa sposa di un uomo della casa di Davide”.
Fidanzata, cioè.
A nessuno sfugge a quale messe di speranze e di batticuori faccia allusione quella parola che ogni donna sperimenta come preludio di misteriose tenerezze. Prima ancora che nel Vangelo venga pronunciato il suo nome, di Maria si dice che era fidanzata. Vergine in attesa. In attesa di Giuseppe. In ascolto del frusciare dei suoi sandali, sul far della sera, quando, profumato di legni e di vernici, egli sarebbe venuto a parlarle dei suoi sogni.

Ma anche nell'ultimo fotogramma con cui Maria si congeda dalle Scritture essa viene colta dall'obiettivo nell'atteggiamento dell'attesa.
Lì, nel cenacolo, al piano superiore, in compagnia dei discepoli, in attesa dello Spirito. In ascolto del frusciare della sua ala, sul fare del giorno, quando, profumato di unzioni e di santità, egli sarebbe disceso sulla Chiesa per additarle la sua missione di salvezza.

Vergine in attesa, all'inizio.
Madre in attesa, alla fine.
E nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l'altra così divina, cento altre attese struggenti.
L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele.
L'attesa del giorno, l'unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'ora: l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'unigenito inchiodato sul legno. L'attesa del “terzo giorno”, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.

Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all'infinito.
Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci del tuo olio perché le nostre lampade si spengono. Vedi: le riserve si sono consumate. Non ci mandare ad altri venditori. Riaccendi nelle nostre anime gli antichi fervori che ci bruciavano dentro quando bastava un nonnulla per farci trasalire di gioia: l'arrivo di un amico lontano, il rosso di sera dopo un temporale, il crepitare del ceppo che d'inverno sorvegliava i rientri in casa, le campane a stormo nei giorni di festa, il sopraggiungere delle rondini in primavera, l'acre odore che si sprigionava dalla stretta dei frantoi, le cantilene autunnali che giungevano dai palmenti, l'incurvarsi tenero e misterioso del grembo materno, il profumo di spigo che irrompeva quando si preparava una culla.

Se oggi non sappiamo attendere più, è perché siamo a corto di speranza.
Se ne sono disseccate le sorgenti. Soffriamo una profonda crisi di desiderio. E, ormai paghi dei mille surrogati che ci assediano, rischiamo di non aspettarci più nulla neppure da quelle promesse ultraterrene che sono state firmate col sangue dal Dio dell'alleanza.

Santa Maria, donna dell' attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli che, usciti un giorno di casa, non ci son tornati mai più, perché uccisi da un incidente stradale o perché sedotti dai richiami della giungla. Perché dispersi dalla furia della guerra o perché risucchiati dal turbine delle passioni. Perché travolti dalla tempesta del mare o perché travolti dalle tempeste della vita.

Riempi i silenzi di Antonella che non sa che farsene dei suoi giovani anni, dopo che lui se n'è andato con un'altra. Colma di pace il vuoto interiore di Massimo che nella vita le ha sbagliate tutte, e l'unica attesa che ora lo lusinga è quella della morte. Asciuga le lacrime di Patrizia che ha coltivato tanti sogni a occhi aperti, e per la cattiveria della gente se li è visti così svanire a uno a uno, che ormai teme anche di sognare a occhi chiusi.

Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci un'anima vigiliare. Giunti alle soglie del terzo millennio, ci sentiamo purtroppo più figli del crepuscolo che profeti dell'avvento. Sentinella del mattino, ridestaci nel cuore la passione di giovani annunci da portare al mondo, che si sente già vecchio. Portaci, finalmente, arpa e cetra, perché con te mattiniera possiamo svegliare l'aurora.

Di fronte ai cambi che scuotono la storia, donaci di sentire sulla pelle i brividi dei cominciamenti. Facci capire che non basta accogliere: bisogna attendere. Accogliere talvolta è segno di rassegnazione. Attendere è sempre segno di speranza. Rendici, perciò, ministri dell' attesa. E il Signore che viene, Vergine dell' avvento, ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con la lampada in mano.

Da: Maria, donna dei nostri giorni

Don Tonino Bello (1935 - 1993), vescovo italiano

lunedì 18 dicembre 2017

Non è compito mio

Questa è la storia di quattro persone chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno.

C'era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno l'avrebbe fatto.

Ciascuno avrebbe potuto farlo, ma Nessuno lo fece.

Qualcuno si arrabbiò perché era un lavoro di Ognuno.

Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che Ognuno non l'avrebbe fatto.

Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.

giovedì 14 dicembre 2017

Anche se è notte



Quella eterna fonte sta nascosta,
ma so ben dove sgorga anche se è notte.

La sua origine non so, poiché non l’ha,
ma so che ogni origine da lei viene, anche se è notte.

So che non può esserci cosa tanto bella
e che in cielo e terra bevono di quella, anche se è notte.

Ben so che in lei il suolo non si trova
e che nessuno la può attraversare, anche se è notte.

Quella eterna fonte sta nascosta
in questo vivo pane per darci vita, anche se è notte.

Qui si sta, chiamando le creature,
perché di quest’acqua si sazino, in forma oscura, anche se è notte.

Questa viva fonte che io desidero
in questo pane di vita la vedo, anche se è notte.

Giovanni della Croce (1540 - 1591), al secolo Juan de Yepes Álvarez, santo, presbitero e poeta spagnolo, cofondatore dell'Ordine dei Carmelitani scalzi

giovedì 7 dicembre 2017

Com’è Dio?


Un giorno Pavel sta giocando al computer. All’improvviso si ferma, si gira, e domanda alla zia, che è lì accanto:
«Zia, com’è Dio?»
La zia lo guarda, si avvicina, se lo prende sulle ginocchia, lo abbraccia, lo tiene stretto stretto e poi gli domanda:
«Dimmi, come ti senti adesso?».
«Bene», risponde il piccolo, «molto bene!».
«Ecco, Pavel, Dio è così».
dal film “Decalogo 1”

Krzysztof Kieślowski, regista

venerdì 1 dicembre 2017

Il puledro e il fiume


Un puledro viveva nella stalla con la madre e non era mai uscito di casa. Un giorno la madre gli disse: "E' ora che tu esca e che impari a fare piccole commissioni per me. Porta questo sacchetto di grano al mulino!" Con il sacco sulla groppa, il puledro galoppava verso il mulino. Dopo un po', incontrò un fiume gonfio d'acqua.
"Che cosa devo fare? Potrò attraversare?" Si fermò incerto sulla riva. Vide un vecchio bue che brucava lì accanto. Gli si avvicinò e chiese: "Zio, posso attraversare il fiume?" "Certo, l'acqua non è profonda, mi arriva appena al ginocchio, vai tranquillo".
Il puledro quando stava sulla riva per attraversare, uno scoiattolo gli si avvicinò saltellando e gli disse: "Non passare! È pericoloso, rischi di annegare!"
"Ma il fiume è così profondo?" chiese il puledro confuso. "Certo, un amico ieri è annegato" raccontò lo scoiattolo con voce mesta.
Il puledro non sapeva a chi credere e decise di tornare a casa. "Sono tornato, perché l'acqua è molto profonda, non posso attraversare il fiume".
"Sei sicuro? Io penso invece che l'acqua sia poco profonda" replicò la madre.
"E' quello che mi ha detto il vecchio bue, ma lo scoiattolo insiste che il fiume è pericoloso". "Allora l'acqua è profonda o poco profonda? Prova a pensarci con la tua testa". "Veramente non ci ho pensato". "Figlio mio, non devi ascoltare i consigli senza riflettere con la tua testa. Puoi arrivarci da solo. Il bue è grande e grosso e pensa che il fiume sia poco profondo, mentre lo scoiattolo è piccolo e può annegare anche in una pozzanghera e pensa che sia molto profondo".
Dopo aver ascoltato le parole della madre, il cavallino galoppò verso il fiume sicuro di sé. Quando lo scoiattolo lo vide con le zampe dentro il fiume gli gridò: "Allora hai deciso di annegare?" "Voglio provare ad attraversare".
E il puledro scoprì che l'acqua del fiume non era né poco profonda come aveva detto il bue, né troppo profonda come aveva detto lo scoiattolo.
Fiaba cinese

lunedì 30 ottobre 2017

Elogio della cortesia


Il mondo della cortesia è dentro la nostra vita quotidiana:
è un sorriso,
è un saluto,
è una parola gentile,
è rispettare la fila,
è separare i rifiuti in casa per il riciclaggio delle cose preziose,
è non abbandonare i rifiuti per strada,
è evitare di lasciare tracce sgradevoli del proprio cane sui marciapiedi e nei parchi,
è cedere il posto ad una donna incinta in autobus,
è rispettare l'ora di un appuntamento,
è rispettare il rosso dei semafori,
è dare la precedenza a chi attraversa le strisce pedonali,
è spegnere il cellulare al cinema,
è non invadere con mezzi motorizzati le aree pedonali,
è fumare senza dare fastidio agli altri,
è dare una mano a chi ne ha bisogno,
è usare razionalmente l'acqua,
è adottare uno spazio verde,
è accogliere e rispettare il "diverso" da sè,
è rispettare i limiti di velocità,
è non parcheggiare abusivamente,
è prendersi cura del giardino della propria scuola,
è non provocare rumori molesti,
è un balcone fiorito,
è un racconto nei luoghi d'attesa,
è guardare con simpatia il ciclista che aiuta la città a respirare aria pulita,
è una corsia d'ospedale abbellita da opere d'arte,
è lasciare libera la corsia preferenziale degli autobus,
è ripulire il proprio portico,
è eliminare un palo inutile,
è aver cura degli oggetti e dei beni comuni,
è una città bella,
è volere bene e volersi bene,
è ...

martedì 17 ottobre 2017

Ignazio di Antiochia


«Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo» (Lettera ai cristiani di Efeso 14, 2 - 15, 1)

«Si educa molto con quello che si dice, ancor più con quel che si fa, molto più con quel che si è».

«Essere senza parlare vale più che parlare senza essere. É bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il Maestro che ha detto e ha fatto e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre». (Lettera ai cristiani di Efeso 10,1)

«Non basta essere chiamati cristiani, ma bisogna esserlo davvero...». (Lettera ai cristiani di Magnesia, 4, 1)

«Per me chiedete solo la forza interiore ed esteriore, perché non solo parli, ma anche voglia, perché non solo mi dica cristiano, ma lo sia realmente” (Lettera ai cristiani di Roma, 3,1)

Ignazio di Antiochia (35 - 107), vescovo dell'Asia minore, santo


lunedì 9 ottobre 2017

Gli alberi


Gli alberi tengono il cielo azzurro
prigioniero fra i rami,
si vestono di silenzio
e di abbandoni
o tremano di voli e di canzoni,
spandono un lume di fiori
ai mesi chiari
e camminano col vento
per ignoti reami,
la notte li ritrova incappucciati,
monaci solitari nel convento:
ma dove cantò l’usignolo
resta, nel fiato dell’alba,
l’eco d’un singhiozzo d’oro.

Idilio Dell’Era / Martino Ceccuzzi (1904 - 1988), prete, poeta e scrittore italiano

domenica 8 ottobre 2017

I fondatori sono aquile


[ Fra' Bartolomeo ] Vogliamo aiutarvi, ma solo nel modo che vi sia gradito. Niente di più. Fra' Pietro una volta ci ha spiegato che le differenze fra noi, in fin dei conti, sono quelle che esistono tra San Benedetto e San Francesco.

[ Fra' Ludovico ] Purtroppo non è facile rimanere alla loro altezza. A udire questi due nomi, San Benedetto, San Francesco, uno sente piegarsi le ginocchia. I fondatori sono di solito delle aquile, i seguaci generalmente delle galline.

[ Fra' Bartolomeo ] (ride a lungo e di cuore, col compiacimento di tutto il cerchio; poi bruscamente si fa triste). Sì, è vero, in ogni grande agglomerazione è inevitabile una certa tendenza al pollaio. Ma mi permetto di domandarti se credi che basti rimanere fuori...

[ Fra' Ludovico ] Oh no, non basta. Anche fuori, all’aria libera, ci si può addomesticare.

[ Fra' Clementino ] Alla maniera, per così dire, dei polli ruspanti. (A fra’ Bartolomeo) Parlaci di fra’ Pietro, dicci com’è. È severo, è triste? Ci sta agli scherzi?

[ Avventura di un povero cristiano ]
Ignazio Silone (1900 - 1978), scrittore e politico italiano

domenica 1 ottobre 2017

Dove abita Dio?

"Dove abita Dio?" Con questa domanda il rabbi di Kozk stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti. Quelli risero di lui: "Che dici? Se tutto il mondo è pieno della Sua gloria!". Ma egli rispose da sé alla propria domanda: "Dio abita dove Lo si fa entrare!"
da: I racconti dei chassidim
Martin Buber (1878 - 1965), filosofo, teologo, pedagogista austriaco

venerdì 22 settembre 2017

Come un sigillo nella cera


Il Signore Gesù non dice che si è felici di sapere qualcosa su Dio, ma che si è felici di possederlo dentro di sé. Infatti egli dice: "Beati i puri di cuore perché vedranno Dio" (Mt 5,8). Non dice che Dio si lascia vedere da chiunque avrà purificato lo sguardo della sua anima...; un'altra parola lo esprime più chiaramente: "Il regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17,21). Ecco cosa ci dice: colui che ha purificato il suo cuore da ogni creatura e ogni attaccamento sregolato vede l'immagine della natura divina nella sua bellezza (...).
C'è in te, in certa misura, un'attitudine a vedere Dio. Chi ti ha formato ha deposto nel tuo essere un'immensa forza. Dio, creandoti, ha richiuso in te l'ombra della sua bontà, come s'imprime il disegno di un sigillo nella cera. Ma il peccato ha dissimulato questa impronta di Dio; ella è nascosta come sotto del fango. Se con lo sforzo di una vita perfetta tu purifichi il tuo cuore dal fango che lo ricopre, la bellezza divina brillerà nuovamente in te. Come un pezzo di ferro ripulito dalla ruggine brilla al sole, così l'uomo interiore, che il Signore chiama "cuore", ritroverà la somiglianza al suo modello quando avrà tolto le macchie di ruggine che deturpavano la sua bellezza.
Omelia 6 sulle Beatitudini
Gregorio di Nissa (335 – 395 ca.), vescovo e teologo greco, santo

domenica 17 settembre 2017

La rondine e il Principe Felice


Alta sulla città, su di una possente colonna si ergeva la statua del Principe Felice. Egli era interamente rivestito di sottili foglie d'oro purissimo, i suoi occhi erano due fulgidi zaffiri e un grande rubino vermiglio scintillava sull'elsa della sua spada.
Era molto ammirato da tutti, senza eccezioni.
"É bello come un galletto-banderuola", osservò uno dei consiglieri della città, che voleva guadagnarsi la fama di uomo dotato di gusti artistici "però non è altrettanto utile", soggiunge, nel timore che la gente lo giudicasse poco pratico, ciò che in verità non era.
"Non potresti assomigliare al Principe Felice?" chiese una giovane sensibile mamma al suo bimbo che stava piangendo perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna di piangere per nessuna ragione al mondo".
"Sono lieto che esista su questa terra qualcuno perfettamente felice" – borbottò un uomo disilluso gettando uno sguardo alla meravigliosa statua.
"Sembra proprio un angelo" – dissero i chierichetti uscendo dalla cattedrale con le loro mantelline di un vivido scarlatto e i lindi camici bianchi.
"Come fatte a saperlo?" – chiese il professore di matematica  – "Avete forse mai visto un angelo?"
"Certo, Signore, nei nostri sogni" – risposero i bambini; e il professore di matematica aggrottò la fronte e assunse un fiero cipiglio, poiché non approvava che i bambini sognassero.
Una notte volò sulla città una piccola rondine. Le sue compagne se n'erano partite tutte per l'Egitto già sei settimane prima, ma lei era rimasta, perché s'era innamorata del più splendido dei giunchi che avesse ami incontrato. In primavera, un giorno che volava giù lungo il fiume inseguendo una grande falena gialla, era stata tanto colpita dalla sua snella figura che si era fermata a conversare con lui.
"Mi permetti di amarti?" – gli aveva chiesto la rondine, che preferiva subito mettere le cose in chiaro; e il giunco le aveva fatto un profondo inchino. E lei aveva continuato a svolazzargli intorno, sfiorando l'acqua di striscio con le ali e producendovi increspature d'argento: era questo il suo modo di corteggiare, ed era durato tutta l'estate.
"É un attaccamento ridicolo" – garrivano le altre rondinelle – "il giunco non ha una lira, e per giunta ha un'infinità di parenti"; in effetti il fiume era pieno di giunchi.
Poi, quando sopraggiunse l'autunno, le rondini se ne volarono via tutte. Quando se ne furono andate, essa si sentì molto sola e incominciò a stancarsi del suo fidanzato. "Non è capace della minima conversazione, e temo che sia un vanesio, perché sta sempre a frascheggiare con la brezza".
In verità, ogni qualvolta soffiava la brezza, il giunco le faceva i più amabili inchini. "Ammetto che ha qualità casalinghe" – rifletteva la rondine  – "ma a me piace viaggiare, e perciò anche a mio marito dovrebbero piacere i viaggi".
"Verrai via con me? gli chiese alla fine, ma il giunco scosse la testa, era troppo attaccato alla sua terra.
"Ti sei preso gioco di me!" – gli gridò la rondine  – "Io parto per le Piramidi. Addio!" e se ne volò via.
Volò per tutto il giorno, e a notte giunse alla città.
"Dove potrò sistemarmi?" – si chiese – "Spero che la città abbia fatto dei preparativi".
Vide allora la statua sull'alta colonna. "Prenderò alloggio lì. É una bella posizione, con aria fresca quanta se ne vuole", e si posò proprio fra i piedi del Principe Felice. "Ho una camera da letto d'oro"  – mormorò a se stessa, e si preparò a dormire; ma proprio mentre stava ripiegando la testa sotto l'ala, una grossa goccia d'acqua cadde su di lei. "Che strano!" – esclamò – "Non c'è una nuvola in tutto il cielo, le stelle sono limpide e chiare, eppure piove. Nel Nord Europa il clima è veramente orribile. Al giunco piaceva la pioggia, ma si trattava semplicemente di egoismo".
In quel momento cadde una seconda goccia.
"A che serve una statua se non ripara dalla pioggia? Bisogna che vada in cerca di un buon comignolo!" – e decise di volarsene via.
Ma prima che dispiegasse le ali, ecco cadere una terza goccia. La rondine guardò in alto, e vide… Ah, che vide allora!
Gli occhi del Principe Felice erano pieni di lacrime, e lacrime scorrevano giù per le guance dorate. Il suo volto era così bello nell'albore lunare che la rondine si sentì presa da una grande pietà.
"Chi sei?" – gli chiese.
"Sono il Principe Felice".
"E perché piangi allora?" – chiese la rondine. "Mi hai inzuppata tutta".
"Quand'ero vivo e avevo un cuore umano" – rispose la statua – "non sapevo che cosa fossero le lacrime, perché vivevo nel Palazzo della Gioia, dove al dolore non era permesso entrare. Di giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera davo inizio alle danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro molto alto, ma non mi preoccupai mai di chiedere cosa vi fosse al di là, tanto era meraviglioso ciò che mi circondava.
I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e felice io ero infatti, se il piacere è felicità. Così sono vissuto, e così sono morto. E ora che sono morto, mi hanno posto quassù, tanto in alto che posso vedere tutte le brutture e le miserie della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo, non posso fare altro che piangere".
"Come? Non è d'oro massiccio? " – disse fra sé la rondine: era troppo educata per fare osservazioni personali ad alta voce.
"Lontano laggiù" – continuò la statua con voce sommessa e melodiosa  – "in una piccola strada vi è una povera casa. Una delle finestre è aperta, e attraverso di essa vedo una donna seduta davanti a una tavola. Il suo volto è magro e consunto, le mani sono ruvide e arrossate, tutte segnate dalle punture dell'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando delle passiflore su una veste di seta che la più leggiadra delle damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. Su un letto in un angolo della stanza giace il suo piccolo figlio malato. Ha la febbre, e chiede delle arance. La mamma non ha altro da offrirgli che acqua di fiume, e così il bimbo piange. rondine, rondine, piccola rondine, non vorresti portarle il rubino che sta sull'elsa della mia spada? Oh i miei piedi sono fissati a questo piedistallo e io non posso muovermi".
"Sono attesa in Egitto" – disse la rondine – "Le mie amiche volano su e giù lungo il Nilo, e parlano ai grandi fiori di loto. Fra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re. Il Re in persona vi giace, richiuso nel suo cofano dipinto. É avvolto in bende di lino giallo, e imbalsamato con spezie e aromi. Intorno al collo ha una catena di giada verde-pallido e le sue mani sembrano foglie avvizzite".
"Rondine, rondine, piccola rondine" – disse il Principe – "non vuoi prestare con me per una notte, ed essere la mia messaggera? Quel bimbo ha tanta sete, e la sua mamma è tanto triste".
"Non credo che mi piacciano i bambini" – rispose la rondine – "L'estate scorsa, quando stavo nei pressi del fiume, c'erano due ragazzi molto villani, i figli del mugnaio, che mi lanciavano sempre delle pietre. Naturalmente non riuscivano a colpirmi, noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e poi io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; ma, in ogni caso, era una vera e propria mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice sembrava così triste che la piccola rondine si impietosì. "Fa molto freddo qua" –  disse – "ma resterò con te per una notte, e sarò la tua messaggera".
"Grazie piccola rondine" – disse il Principe.
Così la rondine spiccò il grande rubino dalla spada del Principe, e volò via tenendolo nel becco sopra i tetti della città.
Passò vicino al campanile della cattedrale, dove erano scolpiti gli angeli di marmo bianco. Passò a lato del palazzo e udì i suoni delle danze.
Una bellissima fanciulla uscì sul balcone col suo innamorato. "Come sono meravigliose le stelle!" –  stava dicendole lui – "E com'è meravigliosa la potenza dell'amore!".
"Spero che il mio vestito sia pronto in tempo per il ballo di Corte" – diceva in risposta lei. "Ho ordinato di ricamarvi sopra delle passiflore, ma le cucitrici sono così pigre!"
La rondine passò sopra il fiume, e vide le lanterne accese agli alberi delle navi. Passò sopra il ghetto, e vide i vecchi Ebrei intenti a negoziare e a pesare il denaro su bilance di rame, Infine giunse alla povera casa e guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente nel letto e, la madre si era addormentata, tant'era stanca. La rondine si tuffò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, vicino al ditale della donna. Poi volò lieve intorno al letto, ventilando con le ali la fronte del fanciullo. "Che bel fresco sento!" –  disse il bimbo. "Si vede che sto meglio", e sprofondò in un delizioso sopore.
Allora la rondine ritornò a volo dal Principe Felice, ed egli le chiese che cosa avesse fatto. "É strano" – osservò lei – "ma sento un gran caldo ora, sebbene faccia tanto freddo".
"É perché hai compiuto una buona azione" – disse il Principe. E la piccola rondine incominciò a pensare, e poi si addormentò. Pensare le faceva sempre venir sonno.
Quando s'affacciò il giorno, volò al fiume e si fece un bel bagno. "Che fenomeno interessante!" – disse il professore di ornitologia, osservando lo spettacolo dal ponte. "Una rondine d'inverno!" E scrisse una lunga lettera in proposito al giornale locale. Tutti la citarono, era piena zeppa di parole che nessuno riusciva a capire.
"Stasera vado in Egitto" – pensava ad alta voce la rondine, sentendosi rianimare a quell'idea. Visitò tutti i monumenti della città, indugiando a lungo sulla cuspide del campanile della chiesa. Ovunque andasse, i passeri cinguettavano dicendosi l'un l'altro:"Che forestiera raffinata!" e ciò la lusingava oltremodo.
Quando spuntò la luna, la rondine ritornò a volo dal Principe Felice. "Hai qualche incarico da affidarmi per l'Egitto?" – gli disse. "Sono in partenza".
"Rondine, rondine, piccola rondine" – disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"Sono attesa in Egitto" – rispose la rondine. "Domani le mie amiche voleranno su fino alla Seconda Cataratta: là giacciono gli ippopotami fra i giunchi, e su un ampio trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli fissa le stelle; quando appare la stella del mattino egli manda un grido di gioia e poi torna al suo silenzio. A Mezzogiorno i leoni gialli scendono sull'orlo dell'acqua per abbeverarsi. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cataratta".
"Rondine, rondine, piccola rondine" – disse il Principe – "laggiù all'estremo lembo della città, vedo un giovane in una soffitta. É chino su uno scrittoio ingombro di carte e in una coppa accanto a lui c'è un mazzo di violette appassite. I suoi capelli sono un'onda bruna, le sue labbra una rossa melagrana, gli occhi grandi e sognanti. Egli sta cercando di terminare una commedia per il direttore del teatro, ma ha troppo freddo per poter continuare a scrivere. Nel caminetto non c'è più fuoco, e la fame lo ha smagrito".
"Resterò con te un'altra notte" – disse la rondine, che in verità aveva buon cuore. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé! Non ho più rubini" – disse il Principe. "Mi restano solo gli occhi. Sono fatti di zaffiri rari, portati dall'India mille anni fa. Spiccamene uno e portarglielo. Egli lo venderà al gioielliere, e comprerà del cibo e della legna, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" – disse la rondine – "non posso far questo", e cominciò a piangere.
"Rondine, rondine, piccola rondine" – disse il Principe – "fa' quello che ti ordino".
Così la rondine spiccò un occhio al Principe e volò via, verso la soffitta dello studente. Era piuttosto facile entrarvi, perché c'era un buco nel soffitto; essa vi si tuffò ed entrò nella stanza. Il giovane si teneva il capo fra le mani, sicché non udì il frullo delle sue ali, e quando sollevò lo sguardo vide lo splendido zaffiro fra le violette appassite.
"Comincio a esser apprezzato" –  esclamò, – questo è certo il dono di qualche grande ammiratore. Ora posso completare la mia commedia", e il suo volto si illuminò di gioia.
Il giorno seguente la rondine volò giù al porto. Si posò sull'albero maestro di un grande vascello e osservò attentamente i marinai che con funi tiravano grosse casse dalla stiva. "Issa, oh!" –  urlavano a ogni cassa che veniva alla luce. "Sto partendo per l'Egitto!" – gridò la rondine, ma nessuno le badò, e quando spuntò la luna essa ritornò a volo dal Principe Felice.
"Sono venuta a dirti addio" – gli disse con voce di pianto.
"Rondine, rondine, piccola rondine" – disse il Principe – "non vuoi restare con me ancora una notte?" "É inverno" – rispose la rondine – "presto sarà qui la gelida neve. In Egitto il sole è caldo sui verdi palmeti, e i coccodrilli giacciono nella mota e si guardano intorno pigramente. Le mie compagne si fabbricano il nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche le stanno guardando, e tubano tra loro. Mio caro Principe, io devo lasciarti, ma non ti scorderò mai, e la prossima primavera ti porterò due magnifiche gemme al posto di quelle che hai regalato. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" –  il Principe Felice – "c'è una piccola fiammiferaia. Ha lasciato cadere i suoi fiammiferi nel rigagnolo e si sono tutti rovinati. Suo padre la picchierà se non porta a casa del denaro, e la bimba sta piangendo. Non ha scarpe, né calze, e la sua piccola testa è nuda. Spiccami l'altro occhio e portaglielo, così suo padre non la picchierà".
"Io resterò con te un'altra notte" – disse la rondine – "ma non posso toglierti l'occhio. Diverresti completamente cieco".
"Rondine, rondine, piccola rondine", disse il Principe, "fa' quello che ti ordino".
Così la rondine spiccò l'altro occhio al Principe, e saettò via con esso. Si calò giù in volo accanto alla piccola fiammiferaia, e le lasciò cadere la gemma nel palmo della mano. "Che grazioso pezzetto di vetro!" esclamò la bimba; e corse a casa tutta contenta.
Allora la rondine tornò dal Principe. "Tu sei cieco ora", gli disse, "e così resterò con te per sempre".
"No, piccola rondine" – disse il povero Principe – "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te, per sempre" – disse la rondine, e si addormentò ai piedi del Principe.
Il giorno seguente si posò sulla spalla di lui, e gli raccontò di tutto quello che aveva visto nei paesi più remoti. Gli raccontò degli ibis rossi, che stanno in lunghe file sui banchi del Nilo, e prendono col becco pesci d'oro; della Sfinge che è vecchia quanto il mondo e vive nel deserto e sa ogni cosa; dei mercanti che seguono passo passo i loro cammelli portando in mano chicchi d'ambra; del Re delle Montagne della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; del grande serpente verde che dorme in un palmizio, e ha venti sacerdoti che lo nutrono con focacce al miele; e dei pigmei che navigano su un vasto lago, sopra ampie foglie piatte, e sono sempre in lotta con le farfalle.
"Cara piccola rondine" – disse il Principe – "tu mi racconti cose meravigliose, ma non vi è cosa più meravigliosa della sofferenza degli esseri umani. C'è un Mistero più grande del Dolore. Vola sulla mia città, piccola rondine, e poi dimmi ciò che hai veduto".
Così la rondine volò sopra la vasta città, e vide i ricchi che se la spassavano nelle loro sontuose dimore, mentre i mendicanti sedevano ai cancelli. Volò nei vicoli tetri, e vide i volti pallidi dei bambini macilenti che guardavano fuori, svogliatamente, nelle strade nere. Sotto l'arco di un ponte due fanciullini stavano distesi abbracciati, stringendosi l'uno all'altro per procurarsi un po' di calore. "Abbiamo fame!" – gemevano. "Non potete stare lì!" – gridò la Guardia Notturna, ed essi se ne andarono raminghi sotto la pioggia.
Allora la rondine ritornò a volo dal Principe e gli raccontò quel che aveva veduto.
"Io sono ricoperto d'oro fino" – disse il Principe – "tu devi togliermelo foglia a foglia, e portarlo ai miei poveri; i vivi pensano sempre che l'oro possa renderli felici".
Foglia a foglia la rondine tolse col becco l'oro che rivestiva il Principe, finché egli apparve del tutto opaco e grigio. Foglia a foglia essa portò ai poveri l'oro, e i volti dei bimbi si fecero rosei, ed essi risero e andarono a giocare per le vie. "Abbiamo il pane, adesso!" – gridavano, esultanti.
Poi venne la neve, e dopo la neve il gelo. Le strade sembravano d'argento, così candide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a pugnali di cristallo, pendevano giù dalle grondaie delle case, la gente usciva in pelliccia e i ragazzi indossavano cappuccetti rossi e pattinavano sul ghiaccio.
La povera piccola rondine sentiva sempre più freddo, ma non riusciva ad abbandonare il suo Principe, gli voleva troppo bene. Beccava briciole qua e là, davanti all'uscio del fornaio quando lui non vedeva, e cercava di tenersi calda sbattendo le ali.
Ma alla fine capì che stava per morire. Trovò ancora la forza per volare un'ultima volta sulla spalla del Principe. "Addio, mio caro Principe" – mormorò. "Mi permetti di baciarti la mano?"
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccola rondine" – disse il Principe, "Sei rimasta qui troppo a lungo; ma devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è l'Egitto il luogo in cui sto andando" – rispose la rondine. "Sto andando alla Casa della Morte. La morte è la sorella del Sonno, non è così?"
E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morta ai suoi piedi. In quello stesso momento uno strano schianto risuonò all'interno della statua, come se qualcosa si fosse spezzato. Di fatto, il cuore dei piombo si era rotto in due. Senza dubbio, c'era un gelo tremendo.
La mattina seguente, di buon'ora, il Sindaco attraversava la piazza in compagnia dei consiglieri della città. Quando furono nei pressi della colonna, egli guardò in su verso la statua. "Oh povero me!" – esclamò. "Com'è malridotto il Principe Felice!".
"Malridotto davvero!" – fecero i consiglieri, che erano sempre d'accordo col Sindaco; e l'osservarono anch'essi con attenzione.
"Il rubino è caduto dall'elsa della spada, gli occhi sono spariti, e non c'è più un filo d'oro" – disse il Sindaco. "In verità, sembra quasi un mendicante".
"Quasi un mendicante!" – fecero eco i consiglieri.
"E c'è perfino un uccello morto ai suoi piedi!" – continuò il Sindaco. "Dobbiamo proprio bandire un proclama affinché agli uccelli non sia consentito di morire qui". E il segretario comunale prese gli appunti del caso.
Così la statua del Principe Felice fu abbattuta. "Non è più bella, dunque non ha più alcuna utilità" –  disse il professore d'arte dell'accademia.
Fecero fondere la statua in una fornace, e il Sindaco riunì i consiglieri. in assemblea per decidere cosa si dovesse fare del metallo. "Un'altra statua, naturalmente" – egli concluse – "e sarà la mia".
"la mia" –  ripeté ciascuno dei consiglieri e si misero a litigare.
L'ultima volta che sentii parlare di loro, stavano ancora litigando. Ma ci fu una cosa che stupì il sovrintendente ai lavori della fonderia. "Incredibile! Questo cuore di piombo non si vuole fondere nella fornace. Bisognerà gettarlo via". Così lo gettarono su un mucchio di immondizie, dove anche la rondine morta era finita a giacere.
"Portami le due cose più preziose della città" – disse Dio a uno dei suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccellino morto.
"Hai scelto bene" – disse Dio – "perché nel mio giardino in Paradiso questo uccellino canterà per sempre e nella mia città d'oro il Principe Felice reciterà in eterno le mie lodi".

Oscar Wilde (1854 - 1900), scrittore e poeta inglese


mercoledì 23 agosto 2017

Il parroco ed il bicchiere d'acqua


Un giorno una donna andò dal parroco e disse: "Non voglio più frequentare la Chiesa, perché vedo gente usare il cellulare durante la Messa, alcuni che spettegolano, altri che pregano distrattamente, senza parlare di chi non vive in modo coerente: sono degli ipocriti!"
Il parroco rimase in silenzio, poi disse: "Prima di prendere la decisione definitiva, puoi fare qualcosa per me? Ti chiedo semplicemente di prendere un bicchiere pieno d'acqua e di fare un giro della chiesa senza versarne neanche una goccia".
La donna un po’ sorpresa acconsentì chiedendo però il perché di questa richiesta. Il parroco le disse glielo avrebbe spiegato dopo. Accettò e così fece. "Ecco fatto!" esclamò terminato il giro e mostrando il bicchiere d’acqua al parroco. 
Questi invece le domandò: "Hai visto qualcuno usare il cellulare o spettegolare o pregare distrattamente o comportarsi male?"
Lei rispose: "Beh, no: stavo attenta a non far cadere l'acqua!".
Il parroco concluse: "Ecco, Gesù è il tuo bicchiere d'acqua. In Chiesa devi prestare attenzione solo a Lui, così da non cadere tu nel giudizio!"
Infatti Gesù ha detto: "Seguimi!", e non: "Segui gli altri cristiani!".

domenica 6 agosto 2017

Credo del Popolo di Dio


Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli (Cfr. Dz.-Sch. 3002), e Creatore in ciascun uomo dell’anima spirituale e immortale.

Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè (Cfr. Ex. 3, 14); ed Egli è Amore, come ce lo insegna l’Apostolo Giovanni (Cfr. 1 Io. 4, 8): cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» (Cfr. 1 Tim. 6, 16) è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l’unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l’umana misura (Cfr. Dz-Sch. 804). Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l’Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.

Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità» (Dz-Sch. 75).

Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (Dz-Sch. 150); e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità (Cfr. Dz.-Sch. 76), ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l’unità della persona (Cfr. Ibid.).

Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risolto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.

E il suo Regno non avrà fine.

Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione al Padre; Egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell’intimo dell’anima, rende l’uomo capace di rispondere all’invito di Gesù: «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Matth. 5, 48).

Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo (Cfr. Dz.-Sch. 251-252) e che, a motivo di questa singolare elezione, Ella, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente (Cfr. Lumen gentium, 53), preservata da ogni macchia del peccato originale (Cfr. Dz.-Sch. 2803) e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature (Cfr. Lumen gentium, 53).

Associata ai Misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile (Cfr. Lumen gentium, 53, 58, 61), la Vergine Santissima, l’Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste (Cfr. Dz.-Sch. 3903) e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, Nuova Eva, Madre della Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 53, 56, 61, 63; cfr. Pauli VI, Alloc. in conclusione III Sessionis Concilii Vat. II: A.A.S. 56, 1964, p. 1016; Exhort. Apost. Signum Magnum, Introd.), continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti (Cfr. Lumen gentium, 62; Pauli VI, Exhort. Apost. Signum Magnum, p. 1, n. 1).

Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, «non per imitazione, ma per propagazione», e che esso pertanto è «proprio a ciascuno» (Dz-Sch. 1513).

Noi crediamo che nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che - secondo la parola dell’Apostolo - «là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5, 20).

Noi crediamo in un sol Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano «dall’acqua e dallo Spirito Santo» alla vita divina in Gesù Cristo (Cfr. Dz-Sch. 1514).

Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l’opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria (Cfr. Lumen gentium, 8 e 5). Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (Cfr. Lumen gentium, 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 5, 6; Lumen gentium, 7, 12, 50). Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l’irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.

Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell’Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale (Cfr. Dz-Sch. 3011). Noi crediamo nell’infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli (Cfr. Dz.-Sch. 3074), e di cui è dotato altresì il Collegio dei vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo (Cfr. Lumen gentium, 25).

Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza (Cfr. Lumen gentium, 23; cfr. Orientalium Ecclesiarum, 2, 3, 5, 6).

Riconoscendo poi, al di fuori dell’organismo della Chiesa di Cristo, l’esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all’unità cattolica (Cfr. Lumen gentium, 8), e credendo alla azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l’amore per tale unità (Cfr. Lumen gentium, 15), Noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l’unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.

Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 14). Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch’essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza (Cfr. Lumen gentium, 16).

Noi crediamo che la Messa, celebrata dal Sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell’Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del suo Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (Cfr. Dz.-Sch. 1651).

Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino (Cfr. Dz-Sch. 1642, 1651-1654; Pauli VI, Litt. Enc. Mysterium Fidei), proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo Mistico (Cfr. S. Th. III, 73, 3).

L’unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel Cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il Sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il Cielo, si è reso presente dinanzi a noi.

Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire - ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi - al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno.

Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.

Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com’è (Cfr. 1 Io. 3, 2; Dz.-Sch. 1000) e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine (Cfr. Lumen gentium, 49).

Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo- la parola di Gesù: Chiedete e riceverete (Cfr. Luc. 10, 9-10; Io. 16, 24). E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.

Sia benedetto Dio Santo, Santo, Santo. Amen.

Il Credo del Popolo di Dio è una Professione di Fede che Paolo VI ha formulato e presentato il 30
giugno 1968 nella Basilica Vaticana a conclusione dell‘Anno della Fede indetto in occasione del
XIX centenario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo.

Beato Paolo VI (Giovan Battista Montini) (1897 - 1978), papa

sabato 22 luglio 2017

Decalogo per vivere felici




1. Non abbiate aspettative: vivete attimo per attimo.

2. Se ciò che arriva vi piace, godetevelo.

3. Se non vi piace, accettatelo e imparate la lezione.

4. Selezionate le amicizie e circondatevi di belle persone: non è difficile piangere in solitudine, ma è quasi impossibile ridere quando si è soli.

5. Coltivate pensieri positivi: non significa illudersi, significa guardare la vita da un’altra prospettiva.

6. Concentratevi sulle possibilità, non sulle impossibilità.

7. Liberatevi delle parole negative: niente spazza via l'ottimismo più velocemente delle parole che pronunciate.

8. Ricordatevi che la perfezione non esiste: non inseguitela.

9. Aiutate qualcuno: è la chiave della felicità.

10. Sorridete, sempre e comunque: è la vera cura per la vostra anima e quella altrui.

mercoledì 12 luglio 2017

Mondi che muoiono

Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,
e il primo bacio e la prima battaglia
Tutto questo egli porta con sé.
Rimangono certo i libri, i ponti,
le macchine, le tele dei pittori.
Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.
È la legge di un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi.

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko (1932 - 2017), poeta e romanziere russo


martedì 11 luglio 2017

Quel che è certo



Quel che è certo è che Dio
dà le forze di cui abbiamo bisogno
e le elargisce nel momento esatto
in cui la nostra debolezza umana si fa più acuta.

E sarà sempre qualcosa d’inatteso.
Egli ci dà sempre forza necessaria
per la tappa che abbiamo dinanzi.

Ce la dà in modo che ogni occasione
potremo quel che prima non potevamo.

Non ce la dà tutta insieme,
ma un po’ per volta, sino alla volta successiva.

É difficile stare al passo con Dio:
noi ci siamo appena mossi
e Lui è già avanti a noi, già lontano.

Arrivare a camminare con lo stesso passo di Dio
significa entrare in comunione con Lui.

Ogni passo su questa strada ci permette di scoprire
un nuovo orizzonte, e ciò rende il nostro cammino più spedito.

Pian piano, arriveremo al punto in cui
le nostre orme si affiancheranno alle orme di Dio.

Anonimo

lunedì 10 luglio 2017

Aforismi Dialogo



Dio ha dato due orecchie et una lingua, perché tu oda più che tu non parli. (San Bernardino da Siena)

Mai discutere con un idiota, ti trascina al suo livello e ti batte con l'esperienza. (Oscar Wilde)

Come il sole e la luna

Non è il nostro compito quello d'avvicinarci, così come non s'avvicinano fra loro il sole e la luna, o il mare e la terra. Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altro, ma di conoscerci l'un l'altro e d'imparare a vedere e a rispettare nell'altro ciò ch'egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.
Narciso e Boccadoro (1930)
Hermann Hesse (1877 – 1962), scrittore, poeta e pittore tedesco

La politica distrutta dall'avidità

Secondo il mito di Prometeo nel Protagora di Platone, Zeus viene in soccorso dell'umanità, inviando Ermes a portare tra gli uomini rispetto e diritto, affinchè sia possibile una vita politica in comune, e disponendo che tali beni siano distribuiti non come le competenze tecniche (le quali sono state assegnate in modo che ogni arte sia esercitata da pochi a favore di tutti), ma in modo che tutti ne siano partecipi, giacché senza sentimento del giusto e rispetto dell'autorità nessuna città può sussistere. Ma il giudicare e il progettare razionalmente, senza i quali non sono possibili né il lavoro umano né la vita umana in comunità, sono minacciati dal pericolo di essere posti al servizio della propria avidità, facendo così svanire l'autorità delle leggi morali.
Cf Protagora 322a - 322c

Platone (428 - 348 a.C.)


venerdì 30 giugno 2017

Ciascun dal proprio cuor l'altrui misura

«Ciascun dal proprio cuor l'altrui misura» (Proverbio italiano)

«E però che con quella misura che l’uomo misura se medesimo, misura le sue cose,
che sono quasi parte di se medesimo,
aviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone;
lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai.
(Dante Alighieri, Convivio, Trattato primo, XI)

«Perché l’altrui misura
ciascun dal proprio core»

(Pietro Metastasio, Issipile, atto I, scena VI)

«Rodope, a Learco:
Perché l’altrui misura
ciascun dal proprio core,
confonde il nostro errore
la colpa e la virtù.

Se credi tu con pena
pietà nel petto mio,
credo con pena anch’io
che un traditor sei tu».

Podle sebe soudím tebe
[letteralmente: secondo me, ovvero secondo quello che sono, giudico te].
(Proverbio popolare ceco) 

«Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l'albero. Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore. L'uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive».
(Gesù, Vangelo di Matteo 12,33-35)

«Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro.
Non giudicate e non sarete giudicati;
non condannate e non sarete condannati;
perdonate e vi sarà perdonato;
date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo,
perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».
(Gesù, Vangelo di Luca 6, 36 - 38)

giovedì 22 giugno 2017

Tocca a te



L’uomo vide la bambina, magra, accovacciata per terra e avvolta in pochi, miseri stracci. Vide la piccola mano, nera di sporcizia, tesa a racimolare poche elemosine. Allora l’uomo levò gli occhi al cielo:
— Dio mio, come puoi permettere tutto ciò? Perché non aiuti questa bambina?
Una voce incorporea risuonò nella aria trasparente:
— Ma io l’ho già aiutata. Ho creato te.

lunedì 19 giugno 2017

Grazie a...


Grazie a...
...a chi cammina
senza travolgere e calpestare,
a chi  ha piedi rotti e continua a camminare.

...a chi condivide un pezzo di strada,
l’acqua della borraccia e la forza della speranza.

...a chi restaura braccia e volti
e restituisce dita alle mani perché possan accarezzare.

...a chi rifiuta divise e ordini di guerra,
a chi distrugge armi e rimuove mine
perché la gente si possa capire.

...a chi porge la mano e fa un sorriso,
a chi dalla finestra di casa
salta nel mondo e con pennelli e colori
dipinge un nuovo giorno.

...a chi con musiche e balli
apre la festa scompigliando le stelle
e rallegrando la terra.

Giacomo Matti

mercoledì 14 giugno 2017

"Restituisco a Dio il suo biglietto..."

[ Aleppo, Siria, 15 Dicembre 2016 ]

«Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l'ambito della mia discussione. Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo! Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto. Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco. Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!" Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma le sofferenze del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire l'armonia? C'è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto».

I fratelli Karamàzov, capitolo IV, traduzione di  Maria Rosaria Fasanelli, Ed. Garzanti, Milano

Fedor Michajlovic Dostoevskij (1821 - 1881), scrittore e filosofo russo

mercoledì 7 giugno 2017

Aforismi Calunnia

La calunnia tronca ogni vincolo di affetto e di natura, e nessun buon sentimento è tanto
saldo da resistere fino in fondo all’invidia. (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, I,77)

Fama, male di cui nessun altro è più veloce:
si rafforza colla mobilità ed acquista forze andando,
piccola alla prima paura, poi s´innalza nell'aria,
ed avanza sul suolo, ma nasconde il capo tra le nubi. (Virgilio, Eneide libro IV)

domenica 21 maggio 2017

Il simbolo dell'amicizia


Gesù è venuto per farci comprendere l'amore che Dio ha per noi. E la sua forma d'amore è la strada maestra per comprenderlo. Il modo in cui ci ha fatto capire questo amore ci offre i migliori paragoni e i simboli umani per penetrare il mistero dell'amore che viene da Dio.
In verità già l'Antico Testamento spiega l'amore di Dio mediante i simboli dell'amore umano. Lo paragona all'amore materno (Geremia), all'amicizia (Abramo), alle nozze (Cantico dei Cantici), al fidanzamento (Isaia).
Gesù, da parte sua, nella sua esperienza dell'amore e nei simboli con cui vuole farcelo capire, privilegia l'amore d'amicizia. Così dice ai suoi discepoli: «Vi ho chiamato amici... Nessuno ha amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici... » (Gv 15,12-16). Per Gesù l'amore più grande è l'amore d'amicizia.
Avrebbe potuto egli scegliere un altro simbolo altrettanto significativo, come le nozze o l'amore materno? Forse; anche se, ancora una volta, l'analogia con l'amore umano ci aiuta a comprendere la scelta di Gesù. L'esperienza umana insegna infatti che l'amicizia è una componente necessaria di tutte le altre forme d'amore, se esse devono perdurare nel tempo. Il fidanzamento e il matrimonio, senza amicizia, durano finché dura l'innamoramento, il quale, sebbene sia in se stesso più intenso e totale dell'amicizia, non ne ha la durata e la stabilità. Matrimoni senza amicizia, amore di genitori, figli o fratelli senza amicizia, s'indeboliscono a poco a poco con il tempo e con le prove della vita.
Se non è mossa dalla passione o dai vincoli di sangue, l'amicizia ha maggiori possibilità di esprimere la libertà dell'amore, libertà necessaria perché esso giunga alla sua maturità. In qualsiasi tipo d'amore la fedeltà diventa matura quando è libera, e questa libertà si ha nella misura in cui quell'amore si è integrato con l'amicizia.
L'amicizia è l'unica esperienza d'amore universale, quella che ognuno può provare; e per questo come simbolo è ugualmente significativo per tutti. I celibi non avranno mai esperienza d'amore paterno o materno; gli orfani non proveranno mai l'amore filiale; i figli unici non conosceranno l'amore fraterno; molti uomini e donne, per vocazione o per le circostanze, non conoscono né il fidanzamento né il matrimonio (Cristo stesso non ne ha avuto esperienza). Invece, qualsiasi persona può conoscere l'amicizia, come anche Gesù Cristo la conobbe. La vocazione all'amore d'amicizia è universale, come lo è l'amore che Dio offre in Gesù.

L'amicizia di Dio. Il cristianesimo come amicizia, [Cinisello B.], Ed. Paoline, [1990] 2 ed.  p. 9 - 10

Segundo Galilea (1928 - 2010), prete cattolico, teologo e scrittore cileno

domenica 14 maggio 2017

Beatitudini della mamma


Beata la mamma che sa sorridere anche quando tutt'intorno è nuvolo.
Beata la mamma che sa parlare senza urlare.
Beata la mamma che sa amare senza strafare.
Beata la mamma che sa essere ciò che vuole trasmettere.
Beata la mamma che trova il tempo per mangiare con i figli e con papà.
Beata la mamma che non insegna la vita facile ma la via giusta.
Beata la mamma che non smette mai di essere mamma.
Beata la mamma che sa pregare: dal buon Dio sarà aiutata, dai suoi figli sarà ricordata.


Beata la mamma che chiama alla vita e sa donare la vita per i figli.
Beata la mamma che ama i figli ma non fa dell'amore una prigione.
Beata la mamma consapevole che i figli non sono sua proprietà, ma un dono per la vita e per il mondo.
Beata la mamma che sa educare con dolcezza e determinazione, a cui basta uno sguardo per intendersi.
Beata la mamma che sa pregare con i figli e confrontare la vita con il Vangelo.
Beata la mamma che educa alla gratuità, a dire per favore e non "voglio".
Beata la mamma che vive con i figli esperienze d'amore, di rispetto e di solidarietà.
Beata la mamma che intuisce le difficoltà dei figli.
e li sostiene con le parole ed i gesti che vengono dal cuore.
Beata la mamma  che veglia sui figli lasciando che seguano la loro strada.
Beata la mamma che vive con i figli gioie e dolori, successi e disavventure
educandoli alla battaglia della vita.
Beata la mamma che insegna ai figli ad essere migliori e non i migliori.
Beata la mamma convinta che i figli sono semi di un futuro ricco di promesse.
Beata la mamma che è felice di esserlo!


Beata la mamma che educa i figli alla gratuità, inaugurando il nuovo umanesimo della solidarietà e della vita.
Beata la mamma che sa pregare con i figli e confrontare la vita con il Vangelo.
Beata la mamma che trova il tempo per parlare con i figli e ascoltarli.
Beata la mamma che, insieme al papà, fa della vita familiare una casa, luogo di affetto, di aiuto, di speranza, di sostegno.
Beata la mamma che vive i valori che vuole trasmettere.
Beata la mamma che crea in famiglia l'abitudine a usare le tre parole magiche: permesso, grazie, scusa.
Beata la mamma che sa attendere con fiducia che i figli crescano.

Il destino di una mamma



Il destino di una mamma è aspettare i figli.

Li aspetta in gravidanza, li aspetta al ritorno dall'asilo.
Li aspetta all'uscita di scuola.
Li aspetta quando iniziano la loro vita, al ritorno a casa dopo una festa.
Li aspetta quando rientrano dal lavoro per fargli sempre trovare una minestra calda.
Li aspetta con amore, con ansia, a volte, con rabbia che passa subito quando li vede e può abbracciarli.

Fate in modo che la vostra mamma anziana non debba aspettare più.
Fatele visita, amatela, abbracciate colei che vi ha amato come nessun altro farà mai.
Non fatela aspettare: è questo che lei si aspetta da voi.
Perché invecchiano le membra ma il cuore di una mamma non invecchia mai.
Amatela voi che potete!