Il contadino che ara (e duro è l'aratro, pesante la terra), l'oste imbroglione, il soldato e i marinai coraggiosi che corrono tutti i mari, dicono che sopportano le loro fatiche col proposito in mente di ritirarsi da vecchi a riposare tranquilli, una volta che abbiano accumulato il necessario per vivere. Così la formicuzza proverbiale, grande faticatrice, trascina con la bocca tutto quel che può e lo aggiunge al mucchio che sta tirando su. Sa il fatto suo e provvede per il futuro. Appena i freddi dell'Acquario contristano l'anno che ricomincia, non se ne esce più e si arrangia, previdente, con ciò che ha raccolto in precedenza. Mentre te, non ti schioda dal guadagno né afa dell'estate, né inverno, né fuoco, mare, ferro, niente ti ferma finché c'è qualcuno più ricco di te. Che gusto ci trovi a scavare una buca di nascosto e a seppellirvi, pieno di fifa, un mucchio immenso di oro e di argento? Hai paura che, se incominci a toglierne il mucchio si riduca a un misero quattrino? E se non ne togli, che ha di bello il tuo mucchio, per quanto ben costruito? Anche se nella tua aia si trebbiassero centomila sacchi di grano, non ne cape di più nella mia pancia che nella tua. Allo stesso modo se tu fossi, tra gli schiavi condotti a vendere, quello che si è caricato sulle robuste spalle la rete col pane, non ti toccherebbe più pane di chi non ha portato nulla. Dimmi tu che importanza ha, per chi come noi vive soggetto alle leggi di natura, coltivare cento iugeri o mille. «Ma è così bello prendere da un mucchio grande.» Lasciami pigliare altrettanto da un mucchio piccolo e non avrai più motivo di vantare i tuoi granai in confronto alle mie ceste. Sarebbe come se, avendo bisogno di una brocca o di una tazza d'acqua e non più, «Preferisco» dicessi «attingere questa stessa misura da un grande fiume piuttosto che da una piccola sorgente». Quelli che sguazzano in un'abbondanza al di là del giusto, succede che il fiume, per esempio l'Ofanto [1] rabbioso, li porta via, tirandoli giù insieme con la riva. Chi invece cerca solo quel poco di cui ha bisogno, non beve acqua torbida di fango né perde la vita nei gorghi.Eppure una buona parte degli uomini, illusa da una voglia ingannatrice, dice che niente è mai abbastanza: «Tanto vali, quanto hai.» A un uomo così che gli vuoi fare? lascialo vivere da poveraccio, poiché gli piace tanto. Come quel tale di Atene, ricco e pidocchioso, di cui si racconta. Si era abituato a non tenere in nessun conto le chiacchiere della gente. «Il popolo mi fischia,» diceva «ma io mi applaudo da solo, a casa, quando contemplo le monete nell'arca». Tantalo assetato tenta invano di trattenere l'acqua che gli sfugge via di bocca... Ridi? con altro nome, protagonista della favola sei tu. Dormi steso, a bocca aperta, sui sacchi che hai ammucchiato, e ti costringi a non toccare il denaro come se fosse sacro o a godertelo solo guardandolo, come se fosse un quadro. Non sai a che serve il denaro, in che modo è utile? Compraci il pane, la verdura, un po' di vino, le cose della cui mancanza il nostro fisico soffre. O ti diverti forse a far la guardia ai soldi, morto di paura, a temere tutti i giorni e tutte le notti il flagello dei ladri, gli incendi, gli schiavi, che non ti saccheggino e scappino? Io, di gioie come queste, vorrei sempre essere poverissimo.Se poi il corpo ti duole, assalito dai brividi, o un altro accidente ti ha costretto a letto, hai forse chi ti assista, ti prepari i fomenti e vada a chiamare un medico, che ti rimetta in piedi e ti restituisca ai cari figli e parenti? Nemmeno la moglie desidera la tua guarigione, nemmeno il figlio; tutti ti hanno in odio, vicini, conoscenti, ragazzi e ragazzine. E ti meravigli, tu che metti il denaro avanti a tutto, se nessuno ti offre un affetto che non meriti? Se provassi a farti e a conservarti amici quei parenti, che senza fatica ti sono stati dati nascendo, credi che lavoreresti a vuoto, come chi volesse ammaestrare un asino a correre in pista, obbediente alle redini? E allora dacci un taglio a quest'ansia di possedere; più ne hai, meno devi temere la povertà. Ora che hai fatto i soldi come desideravi, incomincia a ridurre le tue fatiche. Che non ti succeda come a quel tale Numidio; la storia non è lunga: ricco da contare il denaro a staia, sordido al punto di andare vestito sempre peggio di un servo, ebbe paura fino all'ultimo momento di morire per mancanza di cibo. E una libertà, dal cuore saldo più di una Tindaride [2], lo spartì in due con una scure. «Che mi consigli, allora? di vivere come Nevio o come Nomentano?[3]» Continui a voler confrontare cose opposte fra loro, inconciliabili; quando ti dico di non essere avaro, non ti suggerisco di diventare prodigo e ozioso. C'è un punto a metà tra Tanai e il suocero di Visellio; est modus in rebus, ci sono pure dei limiti precisi, e lì sta il giusto, non al di qua o al di là.
Satire, I (Trad. di Renato Ghiotto)
Orazio (Quinto Orazio Flacco), poeta e scrittore (65 a.C. – 8 a.C.).
NOTE
1) L'Ofanto scorre nella terra in cui Grazio è nato.
2) La Tindaride è Clitemnestra, che uccise il marito Agamennone.
3) Nevio e Nomentano: un avaro delle Satire di Lucilio e uno scialacquatore contemporaneo. Nomentano è citato altre volte anche più oltre.
Nessun commento:
Posta un commento