lunedì 18 luglio 2016

Dopo un po'... (After a while...)


Dopo un po’
impari la sottile differenza
tra tenere una mano
e incatenare un’anima.
E impari che l’amore
non è appoggiarsi a qualcuno
e la compagnia non è sicurezza.
E inizi a imparare
che i baci non sono contratti
e i doni non sono promesse.
E incominci ad accettare
le tue sconfitte a testa alta
e con gli occhi aperti
con la grazia di un adulto
non con il dolore di un bimbo.
Ed impari a costruire tutte le strade oggi
perché il terreno di domani
è troppo incerto per fare piani.
Dopo un po’
impari che il sole scotta,
se ne prendi troppo.
Perciò pianti il tuo giardino
e decori la tua anima,
invece di aspettare
che qualcuno ti porti i fiori.
E impari che puoi davvero sopportare,
che sei davvero forte,
e che vali davvero.

Veronica A. Shoffstall

venerdì 15 luglio 2016

La vecchiarella e il maestro di teologia


Si racconta che un giorno San Bonaventura (1218 - 1274) fosse andato a visitare a Monteripido, presso Perugia, uno dei più semplici e rozzi compagni di San Francesco: Frate Egidio, un ex contadino della vecchia guardia, e quindi preoccupato del nuovo indirizzo culturale dell’Ordine.
Quando lo vide, il vecchio e arguto compagno di San Francesco, disse al maestro Bonaventura, con intenzione quasi polemica: «Maestro, a voi Dio ha fatto grandi doni d’intelligenza, ma noi d’ingegno grosso e senza studi, che non abbiamo alcuna scienza, come faremo a salvarci?»
Fra Bonaventura rispose prontamente: «Se Dio dà all’uomo soltanto la Grazia di poterlo amare, questo basta». Era la risposta che Frate Egidio attendeva, ma volle approfondire anche di più chiedendo: «Può dunque un ignorante amare Dio come un dotto?». E Bonaventura: «Una vecchierella può amarlo anche di più di un maestro di teologia».
Egidio, lieto di trovare nella dottrina di Bonaventura lo spirito di San Francesco, corse in fondo all’orto, gridando, rivolto ad una persona immaginaria: «Vecchierella, poverella, semplice e ignorante, ama il Signore e potrai diventare più grande di frate Bonaventura, maestro di teologia».

lunedì 11 luglio 2016

Il dolore dell'anima


Incredibile come il dolore dell'anima non venga capito.
Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare "presto-barellieri-il-plasma", se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine.
Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non riesci ad aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell'anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle; ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.

Oriana Fallaci (1929 - 2006) scrittrice e giornalista italiana

domenica 10 luglio 2016

Cercare, includere e gioire


La vita del presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino.

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio.

Discorso in occasione dell’apertura della 69a Assemblea generale della CEI, 16 Maggio 2016

Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.

Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.

Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).

Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.

Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).

Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. E’ un uomo che sa includere.

Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.

Omelia in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia - Giubileo dei Sacerdoti, 3 Giugno 2016

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, Papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma


Cercare, includere e gioire


La vita del presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino.

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio.

Discorso in occasione dell’apertura della 69a Assemblea generale della CEI, 16 Maggio 2016

Per aiutare il nostro cuore ad ardere della carità di Gesù Buon Pastore, possiamo allenarci a fare nostre tre azioni, che le Letture di oggi ci suggeriscono: cercare, includere e gioire.

Cercare. Il profeta Ezechiele ci ha ricordato che Dio stesso cerca le sue pecore (34,11.16). Egli, dice il Vangelo, «va in cerca di quella perduta» (Lc 15,4), senza farsi spaventare dai rischi; senza remore si avventura fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro. E non si fa pagare gli straordinari. Non rimanda la ricerca, non pensa “oggi ho già fatto il mio dovere, e casomai me ne occuperò domani”, ma si mette subito all’opera; il suo cuore è inquieto finché non ritrova quell’unica pecora smarrita. Trovatala, dimentica la fatica e se la carica sulle spalle tutto contento. A volte deve uscire a cercarla, a parlare, persuadere; altre volte deve rimanere davanti al tabernacolo, lottando con il Signore per quella pecora.

Ecco il cuore che cerca: è un cuore che non privatizza i tempi e gli spazi. Guai ai pastori che privatizzano il loro ministero! Non è geloso della sua legittima tranquillità - legittima, dico, neppure di quella -, e mai pretende di non essere disturbato. Il pastore secondo il cuore di Dio non difende le proprie comodità, non è preoccupato di tutelare il proprio buon nome, ma sarà calunniato, come Gesù. Senza temere le critiche, è disposto a rischiare, pur di imitare il suo Signore. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno…» (Mt 5,11).

Il pastore secondo Gesù ha il cuore libero per lasciare le sue cose, non vive rendicontando quello che ha e le ore di servizio: non è un ragioniere dello spirito, ma un buon Samaritano in cerca di chi ha bisogno. È un pastore, non un ispettore del gregge, e si dedica alla missione non al cinquanta o al sessanta per cento, ma con tutto sé stesso. Andando in cerca trova, e trova perché rischia. Se il pastore non rischia, non trova. Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è infatti ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini.

Seconda parola: includere. Cristo ama e conosce le sue pecore, per loro dà la vita e nessuna gli è estranea (cfr Gv 10,11-14). Il suo gregge è la sua famiglia e la sua vita. Non è un capo temuto dalle pecore, ma il Pastore che cammina con loro e le chiama per nome (cfr Gv 10,3-4). E desidera radunare le pecore che ancora non dimorano con Lui (cfr Gv 10,16).

Così anche il sacerdote di Cristo: egli è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. E’ un uomo che sa includere.

Gioire. Dio è «pieno di gioia» (Lc 15,5): la sua gioia nasce dal perdono, dalla vita che risorge, dal figlio che respira di nuovo l’aria di casa. La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Nella preghiera scopre la consolazione di Dio e sperimenta che nulla è più forte del suo amore. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio.

Omelia in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia - Giubileo dei Sacerdoti, 3 Giugno 2016

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, Papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma


martedì 5 luglio 2016

Maldicenze e piume di gallina


Tra le penitenti di San Filippo Neri (1515 - 1595) c'era una donna assai dedita alla maldicenza, che non riusciva ad emendarsi da questa pessima abitudine.

Padre Filippo più volte l’ammonì severamente del male che causava al prossimo con la sua cattiva lingua, ma visto che era vana ogni parola, decise di venire a una correzione di fatto.

Un giorno, dopo averla ascoltata al confessionale, le domandò: “Cadete spesso in questo difetto?”. “Spessissimo padre! Vi sono così abituata che neppure me ne accorgo”, rispose la penitente.

Dinanzi a sì franca accusa, l’esperto direttore d’anime capì che l’abitudine era ormai inveterata e che quindi bisognava ricorrere a qualche penitenza grave, tale da farle comprendere i tremendi effetti del peccato di cui si accusava.

“Figliola mia – continuò – il vostro errore è grande, ma la misericordia di Dio è ancora più grande. Ora voglio farvi toccare con mano tutto il male che avete fatto e che andate facendo con la vostra maldicenza. Ecco dunque cosa dovete fare: il primo giorno di mercato comprerete una gallina morta, ma che abbia le penne…”

“Padre – interruppe la penitente – ma che c’entra la gallina con la penitenza che mi dovete dare?”

“Statemi ad ascoltare che non ho ancora finito. – soggiunse il padre – Dunque, con la gallina in mano, girerete per le vie della città togliendole per strada, poco per volta le piume. Dopo che l’avrete spennata per bene, verrete qui da me, e vi dirò quel che dovrete fare”.

La penitente ubbidì puntualmente alle prescrizioni del confessore e poi andò da lui.

“Ora che avete fatta quell’operazione, – le disse il santo –  tornerete per quelle stesse vie dove siete passata, e raccoglierete ad una ad una tutte le piume della gallina che avete spennato, senza lasciarne attorno nessuna.”

“Ma, padre mio, mi chiedete una cosa impossibile!… Soffiava tanto vento che chissà dove avrà trasportato tutte quelle piume!”

“Lo so anch’io – le rispose – ma con questo volevo farvi conoscere che le vostre maldicenze assomigliano a quelle piume. Si, anche le vostre parole velenose sono state trasportate dappertutto; andate ora a ripigliarle se ne siete capace! Come è possibile che voi possiate riparare a tanto male che avete causato al prossimo con la vostra lingua?”

Che bella lezione per i maldicenti e di diffamatori!

I tre setacci

Nell'antica Grecia Socrate aveva una grande reputazione di saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovare il grande filosofo, e gli disse:

- Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?

- Un momento, - rispose Socrate - prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.

- I tre setacci?

- Ma sì, - continuò Socrate - prima di raccontare ogni cosa sugli altri, è bene prendere il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?

- No... ne ho solo sentito parlare...

- Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono?

- Ah no! Al contrario

- Dunque, - continuò Socrate - vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell'utilità. E' utile che io sappia cosa mi avrebbe fatto questo amico?

- No, davvero.

- Allora, - concluse Socrate - quello che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile: perché volevi dirmelo?

Se ciascuno di noi potesse meditare e metter in pratica questo piccolo test... forse il mondo sarebbe migliore.

"Quando manca la legna il fuoco si spegne, 
quando non c'è il maldicente cessano le contese!"
(Proverbi 26,20)

"...lui ha lo stesso valore di tutti gli altri!"




Un commerciante aveva appeso un cartello sulla sua porta che diceva: “cuccioli di cane in vendita”.
Questo messaggio attraeva numerosi bambini. Ben presto un ragazzino andò nel negozio e chiese: “A quanto li vendi i cuccioli?”. Il proprietario rispose: “tra 30 e 50 euro”. Il ragazzino tirò fuori dalla sua tasca qualche moneta e disse: “Ho solo 2,37 €, posso vederli?”.
Il proprietario sorrise e fece un fischio. Dalla cuccia apparve la sua cagna di nome Lady seguita dai suoi cinque cuccioli. Una di loro era sola e stava indietro rispetto agli altri. Immediatamente il ragazzo rimase colpito dal cagnolino che zoppicava.
Così chiese a quell’uomo: “Cosa ha quel cane?”. L’uomo spiegò che quando nacque il veterinario aveva riscontrato un’articolazione rotta e che quindi avrebbe zoppicato per sempre. Il ragazzino replico: “É lui il cagnolino che voglio!”.
L’uomo rispose: “Non puoi volerlo veramente, lui non potrà mai correre e saltellare come gli altri. Ma se proprio lo vuoi, te lo regalo!”.
Di rimando il bambino disse: “Io non voglio che me lo regali, lui ha lo stesso valore di tutti gli altri. Ora ti do 2,37€ e poi 50 centesimi al mese, finché non avrò ripagato tutto”.
Il ragazzo si chinò e tirò su la gamba dei pantaloni, scoprendo un arto steccato con una bacchetta di metallo. Alzò lo sguardo verso l’uomo e disse: “Beh! Non posso correre neanche io e questo cane ha bisogno di qualcuno che lo capisca!”.
L’uomo con gli occhi pieni di lacrime, sorrise e disse: “Ragazzo, spero e prego che ognuno di questi piccoli cuccioli possa trovare qualcuno come te. Grazie.”.

Alcune persone si sentono piccole e senza valore. Il valore di una persona non si misura da quanto si è perfetti, ma dalla capacità di amare e di riuscire a donare gioia e far sorridere gli altri. Nella vita non importa apparire o credere di essere qualcuno, ma essere apprezzati per quello che si è.
Liberiamoci dai pensieri che impongono dei limiti, andiamo a testa alta: nessuno è perfetto!

lunedì 4 luglio 2016

Dov'è dunque Dio?


Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano, un'ingiuria dalla sua bocca.
Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.
(A Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli adulti. Ho visto un giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l'altro urlava: «Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane. Capito?». Ma il piccolo servitore dell'olandese era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice).
Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell'Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.
L'Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.
Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà! - gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! - urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
- Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
La notte, Giuntina, Firenze 2000, p. 65-67
Elie Wiesel (1928 – 2016), scrittore, giornalista e filosofo rumeno