giovedì 28 dicembre 2017

Pretendete qualcosa di più da voi stessi!


Il Natale, con la sua festa dell'amore e dell'infanzia, per noi tutti non è più l'espressione di un sentimento. É l'opposto, cioè un surrogato, una imitazione in similoro. Una volta l'anno facciamo come se, attribuendo grande importanza ai begli affetti, ci dessimo volentieri agli sprechi per festeggiare una solennità dell'anima. È vero che la passeggera emozione provocata dalla reale bellezza di simili sentimenti può essere sincera; ma quanto più è sincera e sentita, tanto più è sentimentale. Il sentimentalismo è il nostro comportamento tipico di fronte al Natale e alle poche altre occasioni in cui oggi ancora intervengono nella nostra vita quotidiana resti dell'ordinamento cristiano. In tali momenti la nostra reazione è la seguente: «È pur bella questa idea dell'amore! Com'è vero che solo l'amore può redimere! Che peccato, com'è deplorevole, che le condizioni nostre ci permettano per una sola sera il lusso di questo bel sentimento, mentre per tutto il resto dell'anno ne siamo tenuti lontani dagli affari e da altre cure importanti!». Tale modo di sentire ha tutti i contrassegni del sentimentalismo, il quale infatti non è altro che il pascersi di sentimenti che in realtà non prendiamo sul serio abbastanza per sacrificare loro qualcosa, per trasformarli una buona volta in azione.

Quando i sacerdoti e i devoti si lamentano che dal mondo è scomparsa la fede e con essa la felicità, hanno ragione. Il nostro comportamento verso tutti i veri valori dell'uomo è di una barbarie e di una rozzezza che il mondo da secoli non ha più veduto. Ciò appare nel nostro contegno di fronte alla religione, di fronte all'arte, nella nostra stessa arte; giacché la piacevole idea che l'arte dell'Europa moderna si trovi ad un livello eccezionalmente alto è un errore da filistei non meno che il credere all'esistenza di una elevata e rispettabile «cultura» attuale.

La «persona colta» di oggi si comporta verso la dottrina di Gesù così: per tutto l'anno non ci pensa e non vive secondo i suoi principi, salvo a cedere la sera di Natale ad un vago e mesto ricordo infantile ed a fare una piccola indigestione di sentimenti miti, di una religiosità a poco prezzo; allo stesso modo che una o due volte l'anno, magari all'esecuzione della Passione secondo Matteo, s'inchina a quel mondo da lungo tempo abbandonato, è vero, ma sempre ancora inquietante e operante in segreto.

Sì, è una cosa ammessa, ognuno lo sa e sa anche che è triste. La colpa è dello sviluppo politico ed economico, si dice, la colpa è dello stato, la colpa è del militarismo; e così via. Perché la colpa deve pur essere di qualcosa. Nessun popolo ha «voluto la guerra», come nessun popolo ha «voluto» la giornata di quattordici ore, la crisi degli alloggi e la mortalità infantile.

Prima di festeggiare di nuovo il Natale e di saziare in noi l'eterno, ciò che unicamente è importante, con un surrogato bugiardo di sentimento, dovremmo piuttosto renderci ben conto di questo miserevole stato di cose, anche se ciò dovesse condurre alla disperazione. La colpa della nostra miseria, della nullità e della crudele desolazione della nostra esistenza, la colpa della guerra, della fame e di tutto il male e la tristezza del mondo non è di un'idea o di un principio: è nostra, solo nostra. E solo per mezzo nostro, attraverso il nostro riconoscimento e col nostro volere, tutto questo può mutare. Accendete l'albero di Natale ai vostri bambini! Fate loro cantare gli inni natalizi! Ma non ingannate voi stessi, non continuate a contentarvi del povero, sdolcinato, logoro sentimento col quale celebrare tutte le vostre feste! Pretendete qualcosa di più da voi stessi! Perché anche l'amore e la gioia, quel misterioso fenomeno che chiamiamo felicità, non si trova in questo o quel posto, ma solo dentro di noi.
Scritti autobiografici, 1961

Hermann Hesse (1877 – 1962), scrittore, poeta e pittore tedesco

martedì 19 dicembre 2017

Maria, donna dell'attesa


La vera tristezza non è quando, a sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.
E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio.
Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi siano fatti. E nessun'anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più né soprassalti di gioia per una buona notizia, né trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.
La vita allora scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco.
Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle sue attese. Forse è vero.
Se è così, bisogna concludere che Maria è la più santa delle creature proprio perché tutta la sua vita appare cadenzata dai ritmi gaudiosi di chi aspetta qualcuno.

Già il contrassegno iniziale con cui il pennello di Luca la identifica è carico di attese: “Promessa sposa di un uomo della casa di Davide”.
Fidanzata, cioè.
A nessuno sfugge a quale messe di speranze e di batticuori faccia allusione quella parola che ogni donna sperimenta come preludio di misteriose tenerezze. Prima ancora che nel Vangelo venga pronunciato il suo nome, di Maria si dice che era fidanzata. Vergine in attesa. In attesa di Giuseppe. In ascolto del frusciare dei suoi sandali, sul far della sera, quando, profumato di legni e di vernici, egli sarebbe venuto a parlarle dei suoi sogni.

Ma anche nell'ultimo fotogramma con cui Maria si congeda dalle Scritture essa viene colta dall'obiettivo nell'atteggiamento dell'attesa.
Lì, nel cenacolo, al piano superiore, in compagnia dei discepoli, in attesa dello Spirito. In ascolto del frusciare della sua ala, sul fare del giorno, quando, profumato di unzioni e di santità, egli sarebbe disceso sulla Chiesa per additarle la sua missione di salvezza.

Vergine in attesa, all'inizio.
Madre in attesa, alla fine.
E nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l'altra così divina, cento altre attese struggenti.
L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele.
L'attesa del giorno, l'unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'ora: l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'unigenito inchiodato sul legno. L'attesa del “terzo giorno”, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.

Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all'infinito.
Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci del tuo olio perché le nostre lampade si spengono. Vedi: le riserve si sono consumate. Non ci mandare ad altri venditori. Riaccendi nelle nostre anime gli antichi fervori che ci bruciavano dentro quando bastava un nonnulla per farci trasalire di gioia: l'arrivo di un amico lontano, il rosso di sera dopo un temporale, il crepitare del ceppo che d'inverno sorvegliava i rientri in casa, le campane a stormo nei giorni di festa, il sopraggiungere delle rondini in primavera, l'acre odore che si sprigionava dalla stretta dei frantoi, le cantilene autunnali che giungevano dai palmenti, l'incurvarsi tenero e misterioso del grembo materno, il profumo di spigo che irrompeva quando si preparava una culla.

Se oggi non sappiamo attendere più, è perché siamo a corto di speranza.
Se ne sono disseccate le sorgenti. Soffriamo una profonda crisi di desiderio. E, ormai paghi dei mille surrogati che ci assediano, rischiamo di non aspettarci più nulla neppure da quelle promesse ultraterrene che sono state firmate col sangue dal Dio dell'alleanza.

Santa Maria, donna dell' attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli che, usciti un giorno di casa, non ci son tornati mai più, perché uccisi da un incidente stradale o perché sedotti dai richiami della giungla. Perché dispersi dalla furia della guerra o perché risucchiati dal turbine delle passioni. Perché travolti dalla tempesta del mare o perché travolti dalle tempeste della vita.

Riempi i silenzi di Antonella che non sa che farsene dei suoi giovani anni, dopo che lui se n'è andato con un'altra. Colma di pace il vuoto interiore di Massimo che nella vita le ha sbagliate tutte, e l'unica attesa che ora lo lusinga è quella della morte. Asciuga le lacrime di Patrizia che ha coltivato tanti sogni a occhi aperti, e per la cattiveria della gente se li è visti così svanire a uno a uno, che ormai teme anche di sognare a occhi chiusi.

Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci un'anima vigiliare. Giunti alle soglie del terzo millennio, ci sentiamo purtroppo più figli del crepuscolo che profeti dell'avvento. Sentinella del mattino, ridestaci nel cuore la passione di giovani annunci da portare al mondo, che si sente già vecchio. Portaci, finalmente, arpa e cetra, perché con te mattiniera possiamo svegliare l'aurora.

Di fronte ai cambi che scuotono la storia, donaci di sentire sulla pelle i brividi dei cominciamenti. Facci capire che non basta accogliere: bisogna attendere. Accogliere talvolta è segno di rassegnazione. Attendere è sempre segno di speranza. Rendici, perciò, ministri dell' attesa. E il Signore che viene, Vergine dell' avvento, ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con la lampada in mano.

Da: Maria, donna dei nostri giorni

Don Tonino Bello (1935 - 1993), vescovo italiano

lunedì 18 dicembre 2017

Non è compito mio

Questa è la storia di quattro persone chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno.

C'era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno l'avrebbe fatto.

Ciascuno avrebbe potuto farlo, ma Nessuno lo fece.

Qualcuno si arrabbiò perché era un lavoro di Ognuno.

Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che Ognuno non l'avrebbe fatto.

Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.

giovedì 14 dicembre 2017

Anche se è notte



Quella eterna fonte sta nascosta,
ma so ben dove sgorga anche se è notte.

La sua origine non so, poiché non l’ha,
ma so che ogni origine da lei viene, anche se è notte.

So che non può esserci cosa tanto bella
e che in cielo e terra bevono di quella, anche se è notte.

Ben so che in lei il suolo non si trova
e che nessuno la può attraversare, anche se è notte.

Quella eterna fonte sta nascosta
in questo vivo pane per darci vita, anche se è notte.

Qui si sta, chiamando le creature,
perché di quest’acqua si sazino, in forma oscura, anche se è notte.

Questa viva fonte che io desidero
in questo pane di vita la vedo, anche se è notte.

Giovanni della Croce (1540 - 1591), al secolo Juan de Yepes Álvarez, santo, presbitero e poeta spagnolo, cofondatore dell'Ordine dei Carmelitani scalzi

giovedì 7 dicembre 2017

Com’è Dio?


Un giorno Pavel sta giocando al computer. All’improvviso si ferma, si gira, e domanda alla zia, che è lì accanto:
«Zia, com’è Dio?»
La zia lo guarda, si avvicina, se lo prende sulle ginocchia, lo abbraccia, lo tiene stretto stretto e poi gli domanda:
«Dimmi, come ti senti adesso?».
«Bene», risponde il piccolo, «molto bene!».
«Ecco, Pavel, Dio è così».
dal film “Decalogo 1”

Krzysztof Kieślowski, regista

venerdì 1 dicembre 2017

Il puledro e il fiume


Un puledro viveva nella stalla con la madre e non era mai uscito di casa. Un giorno la madre gli disse: "E' ora che tu esca e che impari a fare piccole commissioni per me. Porta questo sacchetto di grano al mulino!" Con il sacco sulla groppa, il puledro galoppava verso il mulino. Dopo un po', incontrò un fiume gonfio d'acqua.
"Che cosa devo fare? Potrò attraversare?" Si fermò incerto sulla riva. Vide un vecchio bue che brucava lì accanto. Gli si avvicinò e chiese: "Zio, posso attraversare il fiume?" "Certo, l'acqua non è profonda, mi arriva appena al ginocchio, vai tranquillo".
Il puledro quando stava sulla riva per attraversare, uno scoiattolo gli si avvicinò saltellando e gli disse: "Non passare! È pericoloso, rischi di annegare!"
"Ma il fiume è così profondo?" chiese il puledro confuso. "Certo, un amico ieri è annegato" raccontò lo scoiattolo con voce mesta.
Il puledro non sapeva a chi credere e decise di tornare a casa. "Sono tornato, perché l'acqua è molto profonda, non posso attraversare il fiume".
"Sei sicuro? Io penso invece che l'acqua sia poco profonda" replicò la madre.
"E' quello che mi ha detto il vecchio bue, ma lo scoiattolo insiste che il fiume è pericoloso". "Allora l'acqua è profonda o poco profonda? Prova a pensarci con la tua testa". "Veramente non ci ho pensato". "Figlio mio, non devi ascoltare i consigli senza riflettere con la tua testa. Puoi arrivarci da solo. Il bue è grande e grosso e pensa che il fiume sia poco profondo, mentre lo scoiattolo è piccolo e può annegare anche in una pozzanghera e pensa che sia molto profondo".
Dopo aver ascoltato le parole della madre, il cavallino galoppò verso il fiume sicuro di sé. Quando lo scoiattolo lo vide con le zampe dentro il fiume gli gridò: "Allora hai deciso di annegare?" "Voglio provare ad attraversare".
E il puledro scoprì che l'acqua del fiume non era né poco profonda come aveva detto il bue, né troppo profonda come aveva detto lo scoiattolo.
Fiaba cinese