I Magi, mentre scrutavano la volta celeste, scoprirono una nuova stella che brillò per una notte e poi sparì. Dopo qualche tempo, il cielo fu solcato da una scintilla blu che roteando emetteva splendore di porpora, finché divenne una sfera scarlatta con raggi lucenti e un vivissimo punto centrale bianco. Era il segnale della nascita del Re atteso da secoli. Lo videro i magi di Borsippa. Lo vide anche Artibano, che abitava a Ecbatana, distante dieci giorni di cammino.
Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire da Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò, per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Rè e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s’inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada. Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l’infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo apri gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è li che deve nascere il Messia, che tu vai cercando». Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell’undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso dieci giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «Ti abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto”). Artibano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto. Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l’oro, l’incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un’altra via. Il villaggio pareva deserto. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall’Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l’avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto. Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell’Egitto. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menti; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all’ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla. Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poter ritrovare la Sacra Famiglia. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi». A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l’ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un’agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c’è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei». Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?». Così il buon vecchio segui la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà». Il vecchio, non possedendo che un’unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto. Improvvisamente si udi un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case crollano; soldati e popolo fuggono terrorizzati. Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime. La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non cosi o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!”). Artibano cessò di parlare. Ma un’altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l’hai fatto a me».
Un grande respiro di sollievo gli usci dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi.
Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.
Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire da Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò, per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Rè e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s’inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada. Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l’infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo apri gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è li che deve nascere il Messia, che tu vai cercando». Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell’undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso dieci giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «Ti abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto”). Artibano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto. Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l’oro, l’incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un’altra via. Il villaggio pareva deserto. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall’Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l’avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto. Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell’Egitto. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menti; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all’ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla. Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poter ritrovare la Sacra Famiglia. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi». A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l’ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un’agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c’è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei». Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?». Così il buon vecchio segui la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà». Il vecchio, non possedendo che un’unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto. Improvvisamente si udi un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case crollano; soldati e popolo fuggono terrorizzati. Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime. La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non cosi o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!”). Artibano cessò di parlare. Ma un’altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l’hai fatto a me».
Un grande respiro di sollievo gli usci dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi.
Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.
The Story of the Other Wise Man
Henry Van Dyke (1852 – 1933), scrittore e insegnante statunitenseIn una intervista impossibile ai Re Magi, alla domanda: "…e tu, cosa offrirai al grande Re?" un fantomatico quarto sapiente risponde: "Avevo con me tre splendide perle del Golfo Persico. Ma non le ho più. Durante il cammino ho trovato tante persone vittime del bisogno e della violenza: le ho date in dono per la loro vita. Ciò che io sono, questo è il dono che offrirò!"
Antonio Riboldi, vescovo cattolico italiano
(altra versione)
I Re Magi si misero in viaggio; ognuno partiva dalla propria terra di origine, ma tutti e tre erano diretti verso la medesima destinazione: la lontana terra della Palestina, dove gli antichi libri, i segni dei tempi e quelli del cielo indicavano che sarebbe nato il Re dei Re, il bambino prodigioso. Tutti i Re Magi, oltre che veri re, erano anche dei famosi sapienti e saggi, alchimisti, medici e astrologi. Quelli che oggi chiameremmo scienziati. Erano degli illuminati che sapevano leggere gli eventi futuri esplorando il corso delle stelle, osservando le congiunzioni dei pianeti e leggendo i libri di profezie. Uno, di nome Melchiorre, quello dal viso più chiaro, veniva dalla Persia e portava in dono della mirra. Un altro, di nome Gasparre, quello dal colorito leggermente olivastro e dai capelli lisci, veniva dal lontano Oriente, dall’India e portava l’incenso del suo paese. Il terzo, Baldassarre, i cui capelli erano crespi e le labbra spesse era partito dalla leggendaria terra di Saba, recando con sé un luccicante e prezioso calice, forgiato con l’oro della Nubia. Tramite i loro messaggeri, dei veloci e affidabili piccioni viaggiatori, avevano concordato di incontrarsi, ad una certa data, presso i resti della città di Borsippa, sull’Eufrate, distrutta oltre cinque secoli prima da Ciro il Grande, dalla quale proseguire poi il viaggio in comune. Se qualcuno fosse mancato nel punto di incontro, l’accordo era di attenderlo al massimo una decina di giorni, per non giungere troppo tardi all’appuntamento finale. Infatti l’apparizione di una tenue cometa, nel cielo occidentale, indicava, per chi poteva capirlo, non solo che il Re dei Re era nato, ma anche la strada da seguire per potergli consegnare i loro doni. Questo costituiva, per i re viaggiatori, un vero problema che rallentava la loro marcia. Infatti la stella cometa era visibile solo nel cielo buio della notte e quindi i Re Magi dovevano mettersi in marcia ogni calar della sera, fermandosi alle prime luci dell’alba. Durante le soste forzate, in pieno giorno, si riparavano dal sole ardente sotto le tende. Anche se disponevano, nelle loro carovane, di guide esperte, viaggiando di notte non potevano neanche essere del tutto certi sulla strada da seguire. Ciò comportava frequenti deviazioni, aumentando l’insicurezza, l’inquietudine e la fatica del lungo viaggio. A questo punto però dobbiamo dire che esisteva, oltre ai tre già detti, un quarto Re Magio, il cui luogo d’origine era un lontano paese bagnato dalle acque del Golfo Persico. Questo santo uomo venne a conoscenza della nascita del Bambino Re più o meno nello stesso tempo degli altri tre, ma la posizione in cui si trovava rendeva difficile l’osservazione del cielo e quindi più incerto il suo cammino. Inoltre la sua piccola carovana era formata, a differenza degli altri che viaggiavano spediti su veloci dromedari e cavalli, soprattutto da muli e asini, che procedevano, nelle steppe desertiche della Caldea e della Mesopotamia, con passo lento, ondeggiante e faticoso. Prima di partire, il quarto Re Magio, il cui nome pare fosse Artabano, aveva pensato di portare, in omaggio al Re, la cui stella aveva visto brillare sopra il roseto di Shiraz, tre splendide perle del Golfo Persico: una bianca che sembrava splendere di luce propria sotto i raggi della luna, una blu, che restituiva i colori dell’alba e, ancora più preziosa, una nera, la quale sprigionava profondi riflessi madreperlacei che incantavano chi la osservava. Erano perle non solo splendide, ma anche grandi, quasi come uova di piccione. Artabano, che era anche il più anziano dei quattro Magi, si trovava dunque ancora lontano dalla meta, arrancando sulle terre argillose e aride del deserto, che gli altri tre, giunti al punto d’incontro e non potendo aspettare oltre, avevano proseguito, sempre seguendo la stella cometa, giungendo infine, stanchi ed affaticati, un freddo pomeriggio, con loro viva sorpresa, davanti ad una povera stalla nel villaggio di Betlemme. Rimasero a questo punto molto perplessi sul da farsi, quando il tremulo uscio si aprì e apparve, agli occhi dei Santi Uomini una piccola famiglia: un uomo stava in piedi poco oltre la soglia; sulla paglia soffice e pulita, sistemata con amorevole cura sopra una mangiatoia, stava disteso un bambino dal colorito roseo mentre la madre lo osservava con attenzione e dolcezza. Due animali, un bue ed un asinello stavano sdraiati poco distanti dal bambino e sembravano volerlo riscaldare col loro alito vaporoso e fumigante. Benché il locale fosse una stalla, aveva un aspetto pulito e nell’aria si sentiva il profumo del fieno tagliato e delle erbe, sistemate a mucchietti ai lati estremi della mangiatoia. Per primo, esitando, si fece avanti Baldassarre, accennò a qualche parola benaugurale e di omaggio e, inchinandosi, depose il calice d’oro di fianco al Bambino, che però sembrava addormentato, non si mosse, non allungò le manine verso il dono che gli era giunto da lontano. Entrò poi chi portava l’incenso, depose con delicatezza il contenitore alla destra del Bambino addormentato, ne accese una piccola porzione e a questo punto il Bambino si svegliò, ma non sorrise, anzi cominciò a tossire, a causa del fumo che penetrava nei suoi minuscoli polmoni. L’ultimo a rendere omaggio al Re neonato fu Melchiorre, che depose alla sua sinistra il vaso contenente la mirra, da cui sprigionava un intenso odore aromatico, per il quale gli occhi del piccolo si riempirono di lacrime. A parte l’immediatezza dei gesti, i tre Re Magi poterono faticosamente comunicare con Giuseppe e Maria, i genitori del Bambino a fatica, e solo tramite interpreti, perchè essi, nonostante la vastità delle loro conoscenze, non parlavano per nulla la lingua del luogo. Poiché la strada del ritorno era lunga, essi presero presto congedo dalla famigliola che viveva nella stalla e ripartirono piuttosto delusi, con l’intima e spiacevole sensazione di non essere stati considerati col giusto riguardo alle loro persone né tantomeno con la dovuta riconoscenza per la ricchezza dei doni che, varcando fiumi, montagne e pianure, percorrendo innumerevoli miglia e superando molti pericoli, avevano portato. Ben presto il tintinnio delle bardature dorate dei loro dromedari e lo scalpitio dei loro cavalli sul terreno gelato si spense per le vie del villaggio e le loro carovane scomparvero inghiottite dal buio della sera che calava sopra le montagne. Intanto, a marce forzate, anche Artabano proseguiva il suo lungo viaggio, recando sempre con sé le tre preziose perle. Una notte si fermò, per non dare nell’occhio, nei pressi di un piccolo villaggio, quando, nel cuore della notte, le fiamme di un incendio e molte urla cariche di spavento e di dolore giunsero alle sue orecchie. Svegliatosi di soprassalto a tutto quel clamore, chiese a qualche abitante del paese che cosa fosse accaduto e si sentì rispondere che in una casa un braciere acceso, rovesciandosi, aveva appiccato il fuoco alla abitazione distruggendola tra le fiamme, mentre la famiglia che vi abitava era corsa fuori disperatamente, con gli abiti bruciacchiati e perdendo, con la casa, ogni avere in essa contenuto. Il buon Re Magio si commosse di fronte al disastro che aveva colpito questa famiglia, in cui erano presenti anche bambini molto piccoli; tirò allora fuori la perla meno pregiata, quella bianca e la consegnò al capofamiglia, giudicandone il valore sufficiente sia per ricostruire la casa che per rivestire la famigliola e dotarla anche di un minimo di denaro. Il padre e gli altri componenti della famiglia, smarriti e increduli di fronte a tanta generosità, non sapevano come fare per ringraziare il loro provvido e caritatevole benefattore e non cessavano di colmarlo delle loro benedizioni. Ripreso il lungo cammino, Artabano si trovava ormai ai confini della Palestina, quando gli si parò di fronte uno spettacolo inconsueto: alcuni individui, che sembravano far parte dell’autorità del luogo, stavano trascinando via un uomo incatenato, tra le urla disperate della moglie e dei figli. Si trattava – gli dissero – di un povero contadino al quale la prolungata siccità dell’estate e il maltempo dell’autunno avevamo rovinato il raccolto per cui egli era stato costretto a indebitarsi per poter sfamare la sua famiglia, i suoi figli. Veniva quindi tratto in schiavitù affinché col suo lavoro forzato potesse risarcire i suoi numerosi creditori. Il Re Magio stette appena a pensare, ma la sua risoluzione fu rapida: consegnò prontamente agli uomini che scortavano lo schiavo la perla blu, affinché col ricavato della sua vendita fossero pagati tutti i debiti del pover’uomo, restandogli anche del denaro sufficiente perchè questi potesse riprendersi dal suo stato di indigenza. Rimaneva al buon Artabano una sola perla, la più pregiata, quella nera. Ma il destino gli si parò incontro, quasi giunto alla fine del suo interminabile viaggio. Ormai in vista del paesello di Betlemme, udì, percorrendo una deserta strada ai cui lati enormi rocce si ergevano, separate da siepi di secco fogliame spinoso e da ruvide piante di ginestre, urla disperate che provenivano da una piccola conca. Qui lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi appariva agghiacciante: alcuni soldati, per ordine del re Erode, come scoprì in seguito, avevano ricevuto l’ordine tassativo di uccidere tutti i bambini più piccoli dei due anni. In ottemperanza a questo scellerato comando alcuni di essi, dopo aver bruciato una casetta posta nei dintorni, stavano per decapitare, tenendolo per un piedino, un bambino, la cui madre piangeva e supplicava inutilmente la sghignazzante ed oscena soldataglia. Non c’era tempo da perdere e d’altronde il Re Magio, a parte la veneranda età, non era un uomo d’azione e non poteva sicuramente aver ragione con la forza di questi feroci e ruvidi soldati. Gli era però rimasta la perla nera, che tolse senza esitare dalla cintura e consegnò subitamente ai soldati, a patto che riconsegnassero sano e salvo il bambino alla madre. A quei rozzi individui l’offerta non parve vera: c’era veramente da diventare ricchi col ricavato di un oggetto così prezioso! La madre, riavuto il figlioletto, si gettò ai piedi di Artabano per ringraziarlo, farfugliò sconnessamente qualcosa tra le lacrime, poi fuggì scomparendo nella notte. Le luci del crepuscolo di quel freddo giorno invernale stavano sfumando nelle prime ombre della sera, quando Artabano, il quarto Re Magio, giunto dopo un interminabile viaggio dal lontano Golfo Persico, si trovò davanti la porta socchiusa della stalla, dove i segni celesti indicavano senza porre dubbio alcuno la presenza del Re Bambino. Il santo uomo non fece neanche in tempo a chiedersi che cosa doveva dire o fare, non conoscendo per di più la lingua del luogo, che la porta si aprì completamente e la figura di Giuseppe si stagliò nel vano, un sorriso accogliente delineato nei tratti del suo viso. Anche se fuori le strade erano vagamente illuminate da qualche isolata torcia di legno resinoso e fumigante, l’interno della stalla era pervaso da una sottile luminosità che faceva risaltare rendendolo ben visibile ogni oggetto, ogni essere inanimato o vivente. Accanto alla parete di fondo della piccola stanza, in una mangiatoia piena di paglia che luccicava come filigrana dorata, era sdraiato un bambino dal colorito roseo, dalle labbra sottili atteggiate al sorriso, i cui occhi cilestrini si spalancarono restando intensamente fissi in quelli di Artabano, appena entrato, che fissava la scena con imbarazzo, timore e sconcerto. Una giovanissima donna molto bella stava vicina al bimbo, seduta su un ceppo di legno e un tenue sorriso aleggiava sul suo volto e sulla bocca appena socchiusa, che lasciava intravedere i denti, bianchissimi e perfetti. Due bestie, un bue e un asino trovavano anch’esse posto in quello strano ambiente, ma sembravano voler svanire nella penombra ai lati del piccolo ambiente, quasi a lasciare maggiore spazio al nuovo arrivato. Alle orecchie di Artabano giungevano distintamente le lontane note di una arcana e suggestiva melodia che rendeva la scena ancora più magica ed irreale. Quanto tempo passò, immobile, il buon Re Magio non avrebbe saputo dire, forse parecchi minuti, più probabilmente solo qualche istante. Alla fine si fece coraggio, varcò la soglia della piccola stalla, allargando le braccia in un gesto che sembrava ieratico, ma che in realtà esprimeva tutto il suo disappunto, mutato quasi in disperazione: dopo aver marciato attraverso lande pericolose e desolate, nelle notti gelide e nei giorni arroventati dal sole, era giunto al cospetto del Re Bambino a mani vuote, lui grande Re, rispettato per la sua potenza, onorato per la sua conoscenza, stimato per la sua saggezza, famoso per la sua ricchezza, si presentava alla stregua di un pezzente, con le mani assolutamente, desolatamente vuote. Come per salvarsi, fece il gesto automatico di cercare una perla nella sua cintura ma non trovò nulla: gli rispose solo il contatto col ruvido cuoio. A questo punto pensò che una spiegazione, se non una giustificazione, fosse necessaria e aprì le labbra per iniziare il racconto delle sue peripezie. Ma non fece in tempo: Maria si alzò in piedi presentandogli le palme aperte delle mani, come per calmarlo e quasi a ingiungergli, dolcemente, il silenzio. Giuseppe prese a rassettare la paglia per la notte, poi la voce della donna risuonò chiara e squillante, mentre la luce nella stanza si faceva più vivida e la musica nelle orecchie dello stupito Re lasciò il posto alle parole di Maria, che vi fecero eco, nitide e gradevoli: “Sappiamo già tutto! Un azzurro messaggero alato ti ha preceduto, all’alba, davanti a questa porta, portandoci un racconto: la Verità dei tuoi Gesti, la Generosità delle tue Scelte, il Coraggio delle tue Decisioni, soprattutto la Carità delle tue Azioni. Sono proprio questi i Doni che ci attendevamo da te!”. Rimase qualche momento in silenzio, davanti allo sbigottito Artabano, che realizzò appena come la donna gli stesse parlando direttamente nella sua lingua. Poi ella, alzando la mano destra e indicandolo con l’indice teso concluse, senza enfasi ma con inaspettato calore: “Veramente non sarebbe stato possibile chiederti di più!”. La giovanissima donna fece qualche passo indietro, volse lo sguardo in quello del Figlio che la ricambiò col suo sorriso, poi sollevandolo delicatamente dalla paglia della mangiatoia, andò a deporlo con deliberata decisione sulle braccia dello sconcertato Re Magio. Egli capì, non sapeva come, che non c’era bisogno di spiegazioni: in verità non c’era mai stato. Minuscole bollicine di saliva scoppiettarono allegramente ai lati della boccuccia aperta e scrissero la felicità sulle gote rosate del Re Bambino che, tendendo verso l’Uomo le piccole braccia con le manine aperte, sembrava voler toccare il suo viso, sussurrargli qualcosa all’orecchio. Lacrime di commozione colmarono di soppiatto le rughe scavate dal tempo nel volto marmoreo del Vecchio Re e giunsero ad ammorbidire le sue labbra screpolate dal sole del deserto, dal vento delle pianure, dal gelo delle montagne. Si sentì distintamente, negli attimi di un silenzio assoluto che improvvisamente abbracciò il mondo intero, il battito delle loro ciglia, così diverse, così uguali.
I due Re si scambiarono, sorridendosi reciprocamente, un profondo sguardo di intesa, in cui tutto era compreso.
(Riduzione di Daniele Signorini)
Nel un suo famoso racconto, The Story of the Other Wise Man, Henry van Dyke, narra di un quarto Re Mago, Artaban de Médée. Altre leggende russe e finlandesi dicono che il quarto Re Mago è... Babbo Natale: non avendo potuto seguire la cometa per via della distanza, non si è recato a Betlemme, ma comunque porta doni ai bambini ogni Natale.
RispondiEliminaSpetta allo scrittore francese Michel Tournier il quarto mago più insolito: è Taor, principe di Mangalore, nel Sud dell'India. Partito per scoprire la ricetta di un dolce, il loukoum al pistacchio, girò tanto a lungo da arrivare trentatrè anni dopo la nascita di Gesù, in tempo per scoprire l'Eucarestia.