Mio caro amico. Comincerò col ringraziarvi delle tante espressioni di benevolenza di cui mi onorate nella vostra incantevole lettera, e soprattutto dei segni di confidenza che voi mi date parlandomi del vostro tenore di vita, dei vostri pensieri, dei vostri sentimenti e dello stato della vostra anima.
Tutto ciò mi interessa infinitamente, e io non saprei esprimere il piacere che voi mi avete procurato intrattenendomi su questi particolari. È veramente dolce vedere i segreti di un cuore come il vostro. Ma io crederei di non tenere nel debito conto l’affetto che mi testimoniate, se mi lasciassi andare a qualche frase che apparisse cerimoniosa. Non vi ringrazio, dunque; mi accontento di assicurarvi che il mio cuore è tutto vostro per sempre.
Senza dubbio, mio caro amico, bisognerebbe o non vivere proprio o sempre sentire, sempre amare, sempre sperare. La sensibilità sarebbe il più prezioso di tutti i doni, se lo si potesse far valere, o se ci fosse a questo mondo qualche oggetto a cui applicarlo. Vi ho detto che l’arte di non soffrire è di questi tempi la sola che mi sforzo di imparare. Questo accade precisamente perché ho rinunciato alla speranza di vivere. Se dalle prime esperienze non fossi stato convinto che quest’arte era assolutamente vana e frivola per me, io non vorrei, non conoscerei altra via che quella dell’entusiasmo. Per un certo periodo ho sentito il vuoto dell’esistenza come se si trattasse di una cosa concreta che pesasse gravemente sulla mia anima. Il nulla era la sola cosa che esistesse. Mi era sempre davanti come un fantasma terribile; io non vedevo altro che un deserto intorno a me, non concepivo come ci si potesse assoggettare alle cure che la vita quotidianamente esige, pur essendo del tutto certi che non sarebbero approdate mai a niente. Questo pensiero mi occupava tanto che io credevo per causa sua quasi di perdere la ragione.
In verità, mio caro amico, la gente non conosce affatto il proprio reale interesse. Io converrò, se si vuole, che la virtù, come tutto ciò che è bello e tutto ciò che è grande, non sia che un’illusione. Ma se questa illusione fosse comune, se tutti gli uomini credessero di potere e volessero essere virtuosi, se fossero compassionevoli, caritatevoli, generosi, magnanimi, pieni d’entusiasmo; in una parola, se tutti fossero sensibili (giacché io non faccio alcuna differenza tra la sensibilità e quello che si chiama virtù), non si sarebbe forse più felici? Ogni individuo non troverebbe mille risorse nella società? Questa, poi, non dovrebbe impegnarsi a realizzare le illusioni degli uomini per quanto le fosse possibile, dal momento che la felicità dell’uomo non può consistere in ciò che è reale?
Nell’amore, tutte le gioie che provano le animi volgari, non valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e d’emozione profonda. Ma come far sì che questo sentimento sia duraturo, o che si rinnovi spesso nella vita? dove trovare un cuore che gli corrisponda? In più d’una occasione io ho espressamente evitato per qualche giorno di incontrare l’oggetto che mi aveva affascinato in un sogno delizioso. Io sapevo che quel fascino sarebbe svanito accostandosi alla realtà. Tuttavia io pensavo sempre a quell’oggetto, ma non lo consideravo per quel che era; lo contemplavo nella mia immaginazione, tale quale mi era apparso nel sogno. Era una follia? Son io romantico? Voi giudicherete.
È vero che l’abitudine di riflettere, che è sempre propria degli spiriti sensibili, li priva spesso della facoltà d’agire e persino di gioire. La sovrabbondanza della vita interiore spinge sempre l’individuo verso l’esterno, ma al tempo stesso essa fa in modo che egli non sappia come condursi. Egli abbraccia tutto, egli vorrebbe sempre essere pervaso; viceversa tutti gli oggetti gli sfuggono, proprio perché essi sono più piccoli della sua capacità. Egli esige anche dalle sue azioni più insignificanti, dalle sue parole, dai suoi gesti, dai suoi movimenti, più grazia e più perfezione di quanto non sia possibile all’uomo raggiungere. Così, non potendo mai essere contento di sé, né cessare di esaminarsi, e diffidando sempre delle proprie forze, egli non sa fare ciò che tutti gli altri fanno.
Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla; vi amo, vi amerò sempre così teneramente, così fortemente come ho altre volte amato quei dolci oggetti che la mia immaginazione si compiaceva di creare, quei sogni nei quali voi fate consistere una parte della felicità. In effetti non spetta che all’immaginazione di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di cui egli sia capace. È vera saggezza cercare questa felicità nell’ideale, come voi fate. Quanto a me, io rimpiango il tempo in cui mi era concesso ricercarla, e vedo »»con una sorta di sgomento che la mia immaginazione sta diventando sterile, e mi rifiuta tutto quel soccorso che mi offriva in passato.
Questa lettera è già troppo lunga. Il piacere di discorrere con voi su degli argomenti che voi affrontate con tanta ragionevolezza e profondità, mi ha fatto dimenticare quella parte della vostra lettera in cui mi chiedete quali siano i nostri migliori filosofi. Io procurerò di rispondere a questa domanda in un’altra occasione. Per ciò che riguarda i teologi, io non so quasi se noi ne abbiamo, assai meno se ne abbiamo che siano eccellenti. Io ignoro persino se ci possa essere eccellenza in questa materia. Il vostro amico, il signore barone de Hert (credo di non saper scrivere il suo nome) è tornato in patria? come sta? Fategli i miei complimenti, e datemi sue notizie, vi prego. Il buon abate Cancellieri si diverte sempre a far dei libri e a pubblicarli. Mio zio Antici lascerà Roma per venire a passare l’estate a Recanati. La mia salute è buona. Io vivo qui come in un eremo; i miei libri e le mie passeggiate solitarie occupano tutto il mio tempo. La mia vita è più uniforme del movimento degli astri, più sciocca e insipida delle parole della nostra opera lirica. Addio, mio caro amico; amatemi, se è possibile, quanto voi meritate d’essere amato. Parlatemi delle vostre occupazioni, dei vostri progetti, delle vostre osservazioni filosofiche: più vi dilungherete su questi soggetti, più mi farete piacere. Io sono, con il più vivo attaccamento e la più intera devozione, il Vostro tenero e sincero amico.
Lettera indirizzata a André Jacopssen il 23 giugno 1823
Giacomo Leopardi (1798 - 1837), poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo italiano