Nella vita ordinaria noi raramente ci rendiamo conto che riceviamo molto di più di ciò che diamo, e che è solo con la gratitudine che la vita si arricchisce. (Dietrich Bonhoeffer)
domenica 29 maggio 2016
Aforismi Gratitudine
Non [c'è] nessun dovere maggiore del ringraziare. (Ambrogio da Milano, In morte del fratello Satiro, I,44)
Nella vita ordinaria noi raramente ci rendiamo conto che riceviamo molto di più di ciò che diamo, e che è solo con la gratitudine che la vita si arricchisce. (Dietrich Bonhoeffer)
Nella vita ordinaria noi raramente ci rendiamo conto che riceviamo molto di più di ciò che diamo, e che è solo con la gratitudine che la vita si arricchisce. (Dietrich Bonhoeffer)
Procedi con calma
Procedi con calma in mezzo al fragore ed alla fretta. Ricorda sempre quale pace può esserci nel silenzio.
Per quanto ti è possibile, senza arrenderti, sii sempre in buoni rapporti con il tuo prossimo. Manifesta la tua verità con tranquillità e chiarezza; e presta ascolto agli altri, anche agli sciocchi e agli ignoranti: perchè anche essi hanno una loro storia.
Evita le persone rumorose ed aggressive: esse rappresentano delle irritazioni per lo spirito. Non ti paragonare ad altri perchè potresti diventare vanitoso ed amaro, perchè esisteranno persone superiori e inferiori a te stesso. Goditi sia i successi che i progetti.
Mantieniti sempre interessato alla tua carriera, per quanto umile questa sia: essa rappresenta una vera e propria ricchezza nelle mutevoli fortune del tempo. Sii sempre cauto nei tuoi affari perchè il mondo è pieno di inganni. Ma non lasciare mai che ciò ti renda cieco verso quello che è la virtù: molta gente lotta per degli alti ideali; e dovunque la vita è costellata di atti d'eroismo.
Sii sempre te stesso. In particolar modo non fingere affetto. E non essere neppure cinico nei confronti dell'amore, in quanto, di fronte a tutte le aridità e le disillusioni, esso è eterno come l'erba.
Prendi benevolmente i consigli che ti derivano dall'esperienza degli anni e abbandona garbatamente le cose della giovinezza. Alimenta continuamente la forza dello spirito per proteggerti nelle avversità improvvise. Ma non angustiarti con delle chimere. Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. Al di là di una sana disciplina, sii sempre garbato con te stesso.
Tu sei un figlio dell'universo, non meno di quanto lo siano gli alberi e le stelle: tu hai diritto di essere qui. E, ti sia chiaro o no, non c'è dubbio che l'universo prima o poi ti si aprirà come dovuto.
Perciò sii in pace con Dio, qualsiasi cosa tu creda Egli sia, e quali che siano i tuoi compiti e le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita mantieniti in pace con la tua anima.
Con tutte le sue falsità, le sue ingratitudini e i suoi sogni infranti, questo rimane pur sempre ancora un mondo meraviglioso. Sii prudente e fa di tutto per essere felice.
Per quanto ti è possibile, senza arrenderti, sii sempre in buoni rapporti con il tuo prossimo. Manifesta la tua verità con tranquillità e chiarezza; e presta ascolto agli altri, anche agli sciocchi e agli ignoranti: perchè anche essi hanno una loro storia.
Evita le persone rumorose ed aggressive: esse rappresentano delle irritazioni per lo spirito. Non ti paragonare ad altri perchè potresti diventare vanitoso ed amaro, perchè esisteranno persone superiori e inferiori a te stesso. Goditi sia i successi che i progetti.
Mantieniti sempre interessato alla tua carriera, per quanto umile questa sia: essa rappresenta una vera e propria ricchezza nelle mutevoli fortune del tempo. Sii sempre cauto nei tuoi affari perchè il mondo è pieno di inganni. Ma non lasciare mai che ciò ti renda cieco verso quello che è la virtù: molta gente lotta per degli alti ideali; e dovunque la vita è costellata di atti d'eroismo.
Sii sempre te stesso. In particolar modo non fingere affetto. E non essere neppure cinico nei confronti dell'amore, in quanto, di fronte a tutte le aridità e le disillusioni, esso è eterno come l'erba.
Prendi benevolmente i consigli che ti derivano dall'esperienza degli anni e abbandona garbatamente le cose della giovinezza. Alimenta continuamente la forza dello spirito per proteggerti nelle avversità improvvise. Ma non angustiarti con delle chimere. Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. Al di là di una sana disciplina, sii sempre garbato con te stesso.
Tu sei un figlio dell'universo, non meno di quanto lo siano gli alberi e le stelle: tu hai diritto di essere qui. E, ti sia chiaro o no, non c'è dubbio che l'universo prima o poi ti si aprirà come dovuto.
Perciò sii in pace con Dio, qualsiasi cosa tu creda Egli sia, e quali che siano i tuoi compiti e le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita mantieniti in pace con la tua anima.
Con tutte le sue falsità, le sue ingratitudini e i suoi sogni infranti, questo rimane pur sempre ancora un mondo meraviglioso. Sii prudente e fa di tutto per essere felice.
venerdì 27 maggio 2016
Tutto il mondo è Betlemme
Il Natale è ormai una festa non riservata ai cristiani ma carica di una valenza antropologica. I valori della quotidianità, del tessuto della vita, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore, la fraternità sono ormai legati a questo giorno al punto che anche là dove vi è contrapposizione tra credenti e non credenti, la festa rimane tale per tutti: magari, invece di “Buon Natale!” i non credenti si augurano un più generico “Buone Feste!”, ma il clima dell’incontro, della gioia, dell’intimità è da tutti condiviso. Il Natale è un’autentica occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera: in questo senso tutti noi sappiamo benissimo “cos’è” il Natale.
Eppure ciascuno di noi ne ha un’immagine personalissima, legata ai ricordi d’infanzia e ai tanti Natali vissuti, a volti e parole di persone amate, a consuetudini che ha voluto conservare o ricreare, e ciascuno cerca di viverlo ogni anno secondo quell’immagine. Del resto, il porre l’accento sull’uno o sull’altro degli aspetti del mistero dell’incarnazione risale fino alle origini stesse della festa. È almeno dal IV secolo che i cristiani il 25 dicembre fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, aumentando così la durata della luce offerta alla terra. La notte, che dal 24 giugno aveva sempre accresciuto le sue ore, cominciava ad arretrare davanti al sole vincitore che come un prode cresceva sull’orizzonte. E siccome per i cristiani Gesù il Messia è il “sole di giustizia”, la “luce vera”, fu naturale collocare in quel giorno di festa pagana la celebrazione della natività del loro Signore. D’altronde la venuta del Messia era già stata salutata da Israele e dai profeti come “venuta, apparizione della luce”, come “luce che risplende per quelli che stanno nelle tenebre”.
Questa inculturazione del cristianesimo non è stata facile e forse il Natale dei cristiani conservò, almeno per i più, qualcosa di pagano, di estraneo alla fede se papa Leone Magno nel V secolo doveva biasimare “quei cristiani che prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore si volgono verso il sole e piegano il capo in suo onore”! La meditazione cristiana faceva di quella festa il giorno dell’incarnazione di Dio, il giorno in cui è avvenuto uno scambio: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”.
Poi, nel secondo millennio, soprattutto in occidente, la meditazione del Natale si è progressivamente concentrata sul “bambino Gesù”, sulla sua umanità, sulla sua debolezza e sulla “novità ordinaria” costituita dal venire al mondo di un uomo: l’evento non fu più letto tanto come manifestazione, venuta di Dio, quanto come mistero della povertà, dell’umiltà, della debolezza di Dio. Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri di Dio. Il presepe è la riproposizione iconica o scultorea di quell’evento umile e povero che, se ci pensiamo bene, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Scena oggi più rara in occidente, e per lo più relegata negli ospedali, ma scena un tempo abituale anche nelle nostre famiglie... Sì, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è di per sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il “terzo”, appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. È un evento di speranza: chi vi assiste, in particolare se ormai avanti negli anni, è abitato e consolato dal pensiero che il mondo va avanti, che la vita fiorisce e si moltiplica, che un futuro migliore è possibile: segno tangibile del nostro essere immessi in una catena di generazioni. Credo sia anche per questo che il presepe ha avuto tanta fortuna nell’occidente cattolico, ma anche tanta narrazione iconografica nell’oriente ortodosso.
Nel Nord invece, dove il sole non dà evidenti segni di vittoria nel gelido inverno, la festa è segnata da un albero, l’abete, evocazione dell’albero della vita: un albero che resta vivo e verde nel bianco della neve è il vincitore sul rigore del freddo nelle steppe brulle. Ecco allora l’albero vicino alle case e alle chiese o addirittura al loro interno, addobbato di colori e di luce, quasi obbligato a fiorire e risplendere al cuore della notte invernale.
Se il modo di percepire e celebrare il Natale è cambiato nei secoli, i mutamenti si sono fatti più rapidi in questi ultimi decenni, al punto che chi è anziano può misurarli nell’arco della sua stessa esistenza. Un tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra e fino al boom economico, anni da me trascorsi nella campagna monferrina, il Natale era davvero la festa più importante dell’anno e non certo per i regali, allora tali per modo di dire e ben scarsi... Alcuni anni c’era qualcosa da donare ai figli, ma altre volte i genitori sconsolati dicevano con molta naturalezza che non c’era niente perché l’annata era stata cattiva. Quando c’erano, i regali erano frutta secca, cioccolatini, caramelle, il panettone oppure, se ci si scostava dai dolci, un quaderno più bello, una nuova penna, qualche matita colorata...
Eppure, si attendeva il Natale con ansia. All’inizio della novena si iniziava a raccogliere il muschio, a preparare il tavolo o l’angolo della casa dove allestire il presepe. Si tiravano fuori con cura dalla scatola imbottita di paglia le statuine e le si contemplava come se le si vedesse per la prima volta, poi si rispolverava qualche lampadina per illuminare la grotta e qualche anfratto del presepe. Noi bambini ci davamo da fare con un misto di eccitazione e di attenzione perché volevamo che il presepe diventasse una “nostra” opera. Si ricreava così attorno alla grotta una rappresentazione della vita del paese come la conoscevamo: la bottega del falegname, quella del fabbro e dello stagnino, il mulino, il gregge del pastore, e poi l’asino e il bue che furono i primi a rincuorare il neonato scaldandolo con il fiato. Sì, perché, così ci dicevano, quelle due bestie sono più intelligenti degli uomini: infatti, sentono l’erba crescere, mentre noi non siamo capaci di percepire i misteriosi mutamenti della natura... Insomma, era tutto il paese a essere rappresentato attorno alla grotta, come se fosse diventato per qualche giorno Betlemme, e questo messaggio si imprimeva in modo indelebile nel cuore: non si sarebbe mai cancellato, come gli eventi dell’infanzia vissuti con attesa, stupore, gioia.
Qualcuno, invece del presepe, addobbava l’albero, anche se questa usanza non era gradita al parroco, perché aveva un vago sapore “protestante”, e l’ecumenismo doveva ancora trovare spazio nella chiesa. Io li preparavo entrambi, l’uno accanto all’altro, e quando mi mancava il pino, piantavo in un vaso una scopa di saggina capovolta, la scompigliavo e la addobbavo di luci e palle colorate. Sì, nello stupore creativo di noi bambini anche la scopa, così umile e necessaria, a Natale conosceva il suo momento di gloria luminosa.
Ma ciò che faceva percepire a tutti la gioia del Natale erano i preparativi per il pranzo, anche nelle famiglie più povere: le pentole che bollivano con il cappone, le donne che si riunivano per preparare insieme i ravioli e predisporre le sette portate “canoniche”, indispensabili perché il pranzo fosse “il pranzo di Natale”, un unicum in tutto l’anno. Gli uomini invece cercavano il ceppo da mettere nel camino: non la solita legna, ma un ceppo nodoso e grande, che poteva durare dalla sera fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, quando si rientrava a casa intirizziti dal freddo, perché la chiesa non era riscaldata e per molti il tragitto fino a casa era lungo... E a quella messa andavano tutti, anche quelli che durante l’anno non si facevano mai vedere in chiesa: l’umile semplicità del Figlio di Dio, che appariva come il figlio di una coppia di poveri in viaggio, inteneriva anche i cuori più duri.
Il parroco dal canto suo sapeva cogliere quell’opportunità unica, sapeva far valere la sua autorità che stava tutta in una parola franca, schietta, nel suo sapersi fare eco della buona notizia del Natale. Così, semplicemente, chiedeva a tutti di essere più buoni, di riconciliarsi con coloro con i quali si era in lite, di perdonare le offese: non chiedeva altro, perché nel suo sapiente discernimento sapeva che per quei contadini che uscivano dal paese solo per andare al mercato nella città vicina, ciò che condizionava la loro vita e la loro felicità, oltre al pane, la casa e il vestito, erano i rapporti quotidiani con gli altri: parenti, vicini conoscenti. Sì, pace, concordia, armonia erano capite così: la pace, quella che era sperimentata con il finire della guerra, era percepita come una “grazia”: “Questo non è più un Natale di guerra – si diceva – siamo contenti e ringraziamo Dio”, ma nella consapevolezza che quel tipo di pace non dipendeva da loro, ma dai potenti che decidevano le sorti della pace e della guerra. Mentre la pace quotidiana, l’armonia nella vita familiare e nei rapporti sociali, quella sì che dipendeva da ciascuno custodirla e farla vivere. Così il parroco non dedicava parole e pensieri ai grandi del mondo, ma esortava con voce accorata quelli che lo ascoltavano anche solo in quell’occasione affinché coltivassero durante tutto l’anno quel desiderio di armonia e concordia sperimentato nella notte di Natale.
Così, anche il Dio che a volte nelle parole del parroco era il Dio irato che mandava la grandine sulla vigna di quelli che lavoravano alla domenica o che bestemmiavano, tornava al suo volto autentico: un Dio buono, che capiva gli uomini e chiedeva loro solo di essere buoni, sull’esempio di suo Figlio, Gesù. E questa immagine di un Dio umanissimo riaccendeva la speranza di una vita migliore anche in quegli uomini rudi, che silenziosi si mettevano in fila come bambini per baciare il piedino di quella che era sì solo una statua, ma capace di rievocare tutta l’inerme innocenza di un neonato.
Oggi queste usanze, così legate a una vita contadina e a un mondo più semplice e più povero che in occidente non conosciamo più, sono scomparse, e i cristiani scoprono di non essere più “padroni” del Natale, una festa ormai strappata loro di mano. Tuttavia sta proprio a loro, con la loro “differenza” nel vivere il Natale, essere i custodi del senso profondo della festa e i testimoni della speranza che celebrano: “l’uomo è un animale chiamato a diventare Dio”. Sì, attraverso un’umanizzazione della loro vita, della vita con gli altri, della vita nella polis, i cristiani saranno più fedeli che mai alla loro identità mentre coloro che cristiani non sono potranno solo beneficiare del servizio per una migliore qualità della vita offerto dai cristiani. Non si celebra la venuta di Cristo nella carne contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non vivono il Natale da cristiani perché non hanno la fede. “Non di tutti è la fede”, ci ricorda sempre l’apostolo Paolo, ma tra tutti è possibile tessere cammini di pace, di giustizia, di perdono, di ascolto reciproco.
La Stampa, 24 dicembre 2005
Enzo Bianchi, saggista italiano, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose
Eppure ciascuno di noi ne ha un’immagine personalissima, legata ai ricordi d’infanzia e ai tanti Natali vissuti, a volti e parole di persone amate, a consuetudini che ha voluto conservare o ricreare, e ciascuno cerca di viverlo ogni anno secondo quell’immagine. Del resto, il porre l’accento sull’uno o sull’altro degli aspetti del mistero dell’incarnazione risale fino alle origini stesse della festa. È almeno dal IV secolo che i cristiani il 25 dicembre fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, aumentando così la durata della luce offerta alla terra. La notte, che dal 24 giugno aveva sempre accresciuto le sue ore, cominciava ad arretrare davanti al sole vincitore che come un prode cresceva sull’orizzonte. E siccome per i cristiani Gesù il Messia è il “sole di giustizia”, la “luce vera”, fu naturale collocare in quel giorno di festa pagana la celebrazione della natività del loro Signore. D’altronde la venuta del Messia era già stata salutata da Israele e dai profeti come “venuta, apparizione della luce”, come “luce che risplende per quelli che stanno nelle tenebre”.
Questa inculturazione del cristianesimo non è stata facile e forse il Natale dei cristiani conservò, almeno per i più, qualcosa di pagano, di estraneo alla fede se papa Leone Magno nel V secolo doveva biasimare “quei cristiani che prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore si volgono verso il sole e piegano il capo in suo onore”! La meditazione cristiana faceva di quella festa il giorno dell’incarnazione di Dio, il giorno in cui è avvenuto uno scambio: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”.
Poi, nel secondo millennio, soprattutto in occidente, la meditazione del Natale si è progressivamente concentrata sul “bambino Gesù”, sulla sua umanità, sulla sua debolezza e sulla “novità ordinaria” costituita dal venire al mondo di un uomo: l’evento non fu più letto tanto come manifestazione, venuta di Dio, quanto come mistero della povertà, dell’umiltà, della debolezza di Dio. Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri di Dio. Il presepe è la riproposizione iconica o scultorea di quell’evento umile e povero che, se ci pensiamo bene, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Scena oggi più rara in occidente, e per lo più relegata negli ospedali, ma scena un tempo abituale anche nelle nostre famiglie... Sì, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è di per sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il “terzo”, appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. È un evento di speranza: chi vi assiste, in particolare se ormai avanti negli anni, è abitato e consolato dal pensiero che il mondo va avanti, che la vita fiorisce e si moltiplica, che un futuro migliore è possibile: segno tangibile del nostro essere immessi in una catena di generazioni. Credo sia anche per questo che il presepe ha avuto tanta fortuna nell’occidente cattolico, ma anche tanta narrazione iconografica nell’oriente ortodosso.
Nel Nord invece, dove il sole non dà evidenti segni di vittoria nel gelido inverno, la festa è segnata da un albero, l’abete, evocazione dell’albero della vita: un albero che resta vivo e verde nel bianco della neve è il vincitore sul rigore del freddo nelle steppe brulle. Ecco allora l’albero vicino alle case e alle chiese o addirittura al loro interno, addobbato di colori e di luce, quasi obbligato a fiorire e risplendere al cuore della notte invernale.
Se il modo di percepire e celebrare il Natale è cambiato nei secoli, i mutamenti si sono fatti più rapidi in questi ultimi decenni, al punto che chi è anziano può misurarli nell’arco della sua stessa esistenza. Un tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra e fino al boom economico, anni da me trascorsi nella campagna monferrina, il Natale era davvero la festa più importante dell’anno e non certo per i regali, allora tali per modo di dire e ben scarsi... Alcuni anni c’era qualcosa da donare ai figli, ma altre volte i genitori sconsolati dicevano con molta naturalezza che non c’era niente perché l’annata era stata cattiva. Quando c’erano, i regali erano frutta secca, cioccolatini, caramelle, il panettone oppure, se ci si scostava dai dolci, un quaderno più bello, una nuova penna, qualche matita colorata...
Eppure, si attendeva il Natale con ansia. All’inizio della novena si iniziava a raccogliere il muschio, a preparare il tavolo o l’angolo della casa dove allestire il presepe. Si tiravano fuori con cura dalla scatola imbottita di paglia le statuine e le si contemplava come se le si vedesse per la prima volta, poi si rispolverava qualche lampadina per illuminare la grotta e qualche anfratto del presepe. Noi bambini ci davamo da fare con un misto di eccitazione e di attenzione perché volevamo che il presepe diventasse una “nostra” opera. Si ricreava così attorno alla grotta una rappresentazione della vita del paese come la conoscevamo: la bottega del falegname, quella del fabbro e dello stagnino, il mulino, il gregge del pastore, e poi l’asino e il bue che furono i primi a rincuorare il neonato scaldandolo con il fiato. Sì, perché, così ci dicevano, quelle due bestie sono più intelligenti degli uomini: infatti, sentono l’erba crescere, mentre noi non siamo capaci di percepire i misteriosi mutamenti della natura... Insomma, era tutto il paese a essere rappresentato attorno alla grotta, come se fosse diventato per qualche giorno Betlemme, e questo messaggio si imprimeva in modo indelebile nel cuore: non si sarebbe mai cancellato, come gli eventi dell’infanzia vissuti con attesa, stupore, gioia.
Qualcuno, invece del presepe, addobbava l’albero, anche se questa usanza non era gradita al parroco, perché aveva un vago sapore “protestante”, e l’ecumenismo doveva ancora trovare spazio nella chiesa. Io li preparavo entrambi, l’uno accanto all’altro, e quando mi mancava il pino, piantavo in un vaso una scopa di saggina capovolta, la scompigliavo e la addobbavo di luci e palle colorate. Sì, nello stupore creativo di noi bambini anche la scopa, così umile e necessaria, a Natale conosceva il suo momento di gloria luminosa.
Ma ciò che faceva percepire a tutti la gioia del Natale erano i preparativi per il pranzo, anche nelle famiglie più povere: le pentole che bollivano con il cappone, le donne che si riunivano per preparare insieme i ravioli e predisporre le sette portate “canoniche”, indispensabili perché il pranzo fosse “il pranzo di Natale”, un unicum in tutto l’anno. Gli uomini invece cercavano il ceppo da mettere nel camino: non la solita legna, ma un ceppo nodoso e grande, che poteva durare dalla sera fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, quando si rientrava a casa intirizziti dal freddo, perché la chiesa non era riscaldata e per molti il tragitto fino a casa era lungo... E a quella messa andavano tutti, anche quelli che durante l’anno non si facevano mai vedere in chiesa: l’umile semplicità del Figlio di Dio, che appariva come il figlio di una coppia di poveri in viaggio, inteneriva anche i cuori più duri.
Il parroco dal canto suo sapeva cogliere quell’opportunità unica, sapeva far valere la sua autorità che stava tutta in una parola franca, schietta, nel suo sapersi fare eco della buona notizia del Natale. Così, semplicemente, chiedeva a tutti di essere più buoni, di riconciliarsi con coloro con i quali si era in lite, di perdonare le offese: non chiedeva altro, perché nel suo sapiente discernimento sapeva che per quei contadini che uscivano dal paese solo per andare al mercato nella città vicina, ciò che condizionava la loro vita e la loro felicità, oltre al pane, la casa e il vestito, erano i rapporti quotidiani con gli altri: parenti, vicini conoscenti. Sì, pace, concordia, armonia erano capite così: la pace, quella che era sperimentata con il finire della guerra, era percepita come una “grazia”: “Questo non è più un Natale di guerra – si diceva – siamo contenti e ringraziamo Dio”, ma nella consapevolezza che quel tipo di pace non dipendeva da loro, ma dai potenti che decidevano le sorti della pace e della guerra. Mentre la pace quotidiana, l’armonia nella vita familiare e nei rapporti sociali, quella sì che dipendeva da ciascuno custodirla e farla vivere. Così il parroco non dedicava parole e pensieri ai grandi del mondo, ma esortava con voce accorata quelli che lo ascoltavano anche solo in quell’occasione affinché coltivassero durante tutto l’anno quel desiderio di armonia e concordia sperimentato nella notte di Natale.
Così, anche il Dio che a volte nelle parole del parroco era il Dio irato che mandava la grandine sulla vigna di quelli che lavoravano alla domenica o che bestemmiavano, tornava al suo volto autentico: un Dio buono, che capiva gli uomini e chiedeva loro solo di essere buoni, sull’esempio di suo Figlio, Gesù. E questa immagine di un Dio umanissimo riaccendeva la speranza di una vita migliore anche in quegli uomini rudi, che silenziosi si mettevano in fila come bambini per baciare il piedino di quella che era sì solo una statua, ma capace di rievocare tutta l’inerme innocenza di un neonato.
Oggi queste usanze, così legate a una vita contadina e a un mondo più semplice e più povero che in occidente non conosciamo più, sono scomparse, e i cristiani scoprono di non essere più “padroni” del Natale, una festa ormai strappata loro di mano. Tuttavia sta proprio a loro, con la loro “differenza” nel vivere il Natale, essere i custodi del senso profondo della festa e i testimoni della speranza che celebrano: “l’uomo è un animale chiamato a diventare Dio”. Sì, attraverso un’umanizzazione della loro vita, della vita con gli altri, della vita nella polis, i cristiani saranno più fedeli che mai alla loro identità mentre coloro che cristiani non sono potranno solo beneficiare del servizio per una migliore qualità della vita offerto dai cristiani. Non si celebra la venuta di Cristo nella carne contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non vivono il Natale da cristiani perché non hanno la fede. “Non di tutti è la fede”, ci ricorda sempre l’apostolo Paolo, ma tra tutti è possibile tessere cammini di pace, di giustizia, di perdono, di ascolto reciproco.
La Stampa, 24 dicembre 2005
Enzo Bianchi, saggista italiano, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose
Preghiera di ringraziamento
La fede cristiana è costitutivamente eucaristica e solo chi rende grazie fa l’esperienza della salvezza, cioè dell’azione di Dio nella propria vita. E poiché la fede è relazione personale, di un’intera esistenza, con Dio...
Nell’episodio evangelico dei dieci lebbrosi guariti da Gesù (Luca 17,II-19) si afferma che a uno solo di loro si rivolgono le parole del Signore: «La tua fede ti ha salvato» (Luca 17,19): è colui che, vistosi guarito, è tornato indietro per ringraziare Gesù. La fede cristiana è costitutivamente eucaristica e solo chi rende grazie fa l’esperienza della salvezza, cioè dell’azione di Dio nella propria vita. E poiché la fede è relazione personale, di un’intera esistenza, con Dio, la dimensione dell’azione di grazie non riguarda solo la forma di certe preghiere da fare, ma deve arrivare a impregnare l’essere stesso della persona. È ciò che chiede Paolo: «Siate eucaristici!» (Colossesi 3,15).
Pur così fondamentale, il ringraziamento è tutt’altro che facile! Dal punto di vista antropologico esso è linguaggio non spontaneo nel bambino. Il ringraziamento suppone infatti il senso dell’alterità, la messa in crisi del proprio narcisismo, la capacità di entrare in rapporto con un «tu»: solo a una persona, infatti, si dice «grazie»! È grato colui che ha messo a morte l’immagine di sé come di uno che «non deve niente a nessuno»; è grato colui che riconosce di non poter disporre a piacimento della realtà esterna e degli altri. Nel rapporto con il Signore la capacità eucaristica indica la maturità di fede del credente che riconosce che «tutto è grazia», che l’amore del Signore precede, accompagna e segue la propria vita. L’azione di grazie scaturisce in modo naturale dall’evento centrale della fede cristiana: il dono del Figlio Gesù Cristo che Dio Padre, nel suo immenso amore, ha fatto all’umanità (cfr. Giovanni 3,16). È il dono salvifico che suscita nell’uomo il ringraziamento e fa dell’eucaristia l’azione ecclesiale per eccellenza. «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, renderti grazie sempre e dovunque, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Gesù Cristo, nostro Signore.» Questa formulazione dei prefazi del Rituale Romano indica bene il perenne movimento del ringraziamento cristiano. E poiché l’eucaristia, in particolare la preghiera eucaristica, è il modello della preghiera cristiana, il cristiano è chiamato a fare della sua esistenza un’occasione di rendimento di grazie. Infatti, dice Paolo, «che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1 Corinti 4,7). Alla gratuità di Dio verso l’uomo risponde dunque il riconoscimento del dono e la riconoscenza, la gratitudine dell’uomo. Potremmo dire che anche il ringraziamento umano è dono di Dio: «Noi dobbiamo a Dio la gratitudine di avere la gratitudine», recita una preghiera della liturgia ebraica.
Il ringraziamento è dunque la modalità spirituale peculiare con cui il cristiano si rapporta al mondo, alle cose, agli altri. Ecco perché un gesto assolutamente vitale come il pasto quotidiano è sempre segnato da una preghiera di ringraziamento. Il ringraziamento a Dio al momento del pasto (la «preghiera della tavola») è una confessione di fede: essa esprime che sono dono di Dio tanto la vita quanto il senso della vita. La vita che ci viene trasmessa dal cibo, il senso della vita rappresentato dalla relazione che lega le persone riunite convivialmente per il pasto comune. Vita e senso della vita che nell’eucaristia sono sintetizzati nella persona del Cristo vivente che si dona come cibo di vita eterna ricreando le relazioni di comunione tra i membri dell’assemblea. Al dono della vita piena nel Figlio il cristiano risponde dunque ringraziando per essere stato creato e per il dono della fede. Si pensi alla tradizionale preghiera del mattino: «Vi adoro, mio Dio, e vi amo con tutto il cuore. Vi ringrazio di avermi creato, fatto cristiano, e conservato in questa notte».
Ma soprattutto il cristiano risponde al dono di Dio facendo della propria vita un dono, un ringraziamento, un’eucaristia vivente. Davvero, la preghiera di ringraziamento non è solo risposta puntuale a eventi in cui si discerne la presenza e l’azione di Dio nella propria vita, ma è attitudine profonda di un’esistenza che apre la propria quotidiana trama alla trasfigurazione del Regno veniente. Fino a trasfigurare la morte in evento di nascita a vita nuova. Al momento del martirio l’ultima parola di Cipriano di Cartagine fu «Deo gratias»; Giovanni Crisostomo concluse la sua travagliata esistenza con le stesse parole di ringraziamento a Dio; Chiara di Assisi spirò dopo aver pregato: «Ti ringrazio, Signore, di avermi creata». La loro vita si è compiuta come un’eucaristia. Se dunque è vero che la preghiera di ringraziamento considera il passato, ciò che Dio ha fatto per noi, sicché essa è retrospettiva e nasce dalla memoria, è però altrettanto vero che essa apre al futuro, alla speranza, e si configura come la dimensione peculiare di vivere cristianamente il presente, lo spazio stesso della vita!
Le parole della spiritualità
Enzo Bianchi, saggista italiano, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose
venerdì 13 maggio 2016
Ti prego, accendimi!
Un giorno un modesto fiammifero si avvicinò a una bellissima candela bianca, con
lo stoppino teso in alto verso il cielo.
Il fiammifero rivolgendosi alla candela disse: «Ho l'incarico di accenderti».
«Oh no! - rispose la candela spaventata - se brucio, i miei giorni saranno contati, e nessuno ammirerà più la mia bellezza».
Il fiammifero replicò: «Vuoi rimanere tutta la vita fredda e dura, senza aver vissuto prima?»
«Ma bruciare fa male e consuma le mie forze», Sussurrò la candela insicura e piena di paura.
«È vero!» rispose il fiammifero. «Ma è proprio questo il segreto della nostra vocazione: io e te siamo chiamati a essere luce.
Quello che io posso fare da solo è ben poco. Esisto soltanto per accendere il fuoco in te. Se mi impedisci ciò, la mia vita sarà priva di senso.
Tu sei una candela e il tuo compito è splendere per gli altri e offrire calore. Tutto quello che dai con dolcezza, amore e altruismo, viene trasformato in luce.
Non vai persa quando ti abbandoni. Altri continueranno a portare avanti il tuo fuoco. Solo se ti rifiuti di bruciare, perirai».
La candela comprese e senza esitare protese lo stoppino al fiammifero e disse: «Ti prego, accendimi!»
E una calda luce li circondò.
giovedì 12 maggio 2016
C'è sempre qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo...
- Che mestiere hai detto che fa il tuo babbo?
- Il povero!
- E quanto guadagna a fare il povero?
- Guadagna tanto da non avere mai un centesimo in tasca!
- Oh come fa a campare?
- Per comprarmi l'abbecedario ha venduto la su casacca, che fra toppe e rammendi era tutto una piaga...hai capito?
- Dì a tuo padre quando lo vedrai domani che se vuole lavorare con me gli fo fare fortuna nelle lontane Americhe, parola mia. Ehi! Dagli queste da parte mia così capisce che dico sul serio.
- Cosa sono?
- Cinque monete d'oro.
- Sono tante?
- Non son tante ma nemmeno poche.
- Vorrei comprare al mio babbo una casacca d'oro e d'argento con i bottoni di brillanti...
- Allora credo che siano poche...
(....)
- Addio Pinocchio, ricordati di salutarmi il tuo babbo e stai attento a non perdere quelle monete. Non farle vedere a nessuno, hai capito? E bada Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono e ricordati che c'è sempre qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo...
Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
Carlo Collodi [ Carlo Lorenzini ] (1826 – 1890), scrittore e giornalista italiano
giovedì 5 maggio 2016
La vita è lunga abbastanza se sai farne buon uso
Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla.
Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso.
De brevitate vitae ad Paulinum
Lucio Anneo Seneca, (4 a.C. – 65), filosofo, politico e drammaturgo romano
lunedì 2 maggio 2016
Non amo che le rose che non colsi
Cocotte
I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto…
II.
«Piccolino, che fai solo soletto?»
«Sto giocando al Diluvio Universale.»
Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d’un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.
Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!
«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…
«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co-co-tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co-co-tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
III.
Un giorno – giorni dopo – mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.
IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni,
dopo vent’anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso… Dove sei, cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?
Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l’ultimo amante disertò l’alcova…
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d’un bacio e d’un confetto,
dopo vent’anni, oggi ti ritrova
in sogno, e t’ama, in sogno, e dice: T’amo!
Da quel mattino dell’infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t’aspetta, o creatura!
Vieni! Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state… Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent’anni or sono!
Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia…
Vieni! T’accoglierà l’anima sazia.
Fa ch’io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò; rifiorirà, nell’atto,
sulla tua bocca l’ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d’allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.
Cocotte, da I Colloqui, del 1911
Guido Gozzano (1883 - 1916), poeta italiano
Lettera a San Giuseppe
Caro San Giuseppe,
scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te. Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze. Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole.
Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte. Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano un’eternità, ma forse era proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato e a darle vita era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva rinchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno od il ferro, ma il tempo; e che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio fosse quello di addomesticare i giorni comprimendoli nella materia e crearsi per un istinto di conservazione riserve di tempo negli otri delle cose prodotti dalle sue mani. Il tempo allora era imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenze di vita se non proprio l’accento della parola. Le cose nascevano perciò lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio, prima un atto d’amore, dolcissimo e breve, poi nove mesi.
Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante rapidità, squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti.
Non parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero. Si, Giuseppe! È proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere. Ecco, attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tutto tessuto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù, ma non per quando nascerà, per quando sarà grande: gliela prepara fin d’ora, prima già che lui nasca. Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a punto ombra. Forse sono fatti a punto a croce.
Una cosa, però, intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre. Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, fin da adesso, racchiusa nello scrigno di quella tunica. Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi da noi, anche i ricami vengono fatti in serie. C’è una ditta, la quale ha inventato una macchina che fa i punti perfetti, e non soltanto quelli! E se tu dopo aver comprato in un negozio della città di san Francesco, un guanciale disegnato o a “punto assisi”, la notte pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da un’anonima ricamatrice, bella come Santa Chiara, ti illudi amaramente.
Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo dell’amore, della fantasia, della bellezza, dell’arte. Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno! Oh Dio! Riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme. E perfino che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore! E lo lasciamo dire solo ai poeti! Ma se oggi qui da noi di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più, quanto perché ormai non si ripara più nulla.
Vedi Giuseppe in questi pochi minuti da che sto parlando con te sono già entrati nella tua bottega un bambino in lacrime con la ruzzola a cui rifare l’asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, un contadino con un mastello a cui si è infracidito una doga, un carrettiere col mozzo di una ruota che si è sgranato dai raggi. Da noi non si usa più!
Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto se nelle sue viscere non racchiude un’anima d’amore, per quale scopo accanirsi a ridare la vita ad un corpo già nato cadavere. La nostra la chiamiamo perciò la civiltà dell’usa e getta! Al televisore che sta in cucina si è fulminato un relè, niente paura! Viene messo da parte e sostituito con un altro che ha il video registratore incorporato.
Alla bambola che sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico perché si sono scaricate le pile, poco importa! Portala al bidone della spazzatura! Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tanto di certificato di nascita, si sposano, fanno all’amore e vanno nei campeggi estivi. Al fucile giocattolo regalato al bambino il giorno di natale è caduto il grilletto? Presto fatto! Per la Befana sarà pronto un mitra col nastro delle pallottole attorno al carrello, o addirittura un sottomarino lanciamissili con la verifica computerizzata degli obiettivi colpiti. Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli! Porta via al macero, senza scrupoli.
Anzi no! Un momento! Tra giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Così ci liberiamo il guardaroba da ingombri fastidiosi, e poi, diamine! Aiutiamo la gente!facendo contento il Signore il quale ha detto che i poveri li abbiamo sempre con noi.
Un angolo di paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando, sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue. Ma che c’è Giuseppe! Vedo che ti sei fermato col martello, brandito a mezz’aria, e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con uno sguardo di disgusto. Ho capito! Quel tuo sguardo vuol dire: “mi fate pietà”! Altro che usa e getta, valicando davvero ogni limite, avete invertito la fase in “getta e usa”, visto che siete così abbietti da snaturare perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra libidine di possesso.
Si, hai ragione falegname di Nazaret. Siamo proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie. Traffichiamo persino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e con una oscena mascherata di gratuità ci illudiamo di riscattarci dal nostro interminabile inverno dell’amore. E guarda che non ti ho detto tutto! Perché ho ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a mezz’aria. Se infatti dovessi raccontarti di quelle operazioni filantropiche tenute a battesimo dalla televisione, son sicuro che metterei a dura prova la tua tenuta di “uomo non-violento”.
Che vuoi farci! Questi si, sono i misteri buffi, di cui dovremmo vergognarci e contro cui dovremmo ribellarci e nel cui oceano stiamo tutti facendo naufragio. Ma se oggi qui da noi, in questo crepuscolo tormentato del secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché sparite non è solo perché non si genera più e neppure perché non si ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la carezza.
Mi spiego! Vedi Giuseppe, da quando sono entrato nella tua bottega, quante carezze non hai fatto su quel legno denudato dalla pialla! Tutte le volte che l’hai strisciato con il ferro, subito vi sei passato sopra con la mano, leggera come la luce che trema sulle acque: non saprei bene se per proteggerne la verecondia; o per velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza.
E anche ora, mentre ti parlo, passi e ripassi con le dita sugli spigoli smussati dallo scalpello, e ne levighi le asprezze, col medesimo amore con cui la pecora madre asciuga con la lingua l’agnello appena nato. Poi cicatrizzi le ferite del legno, provocate dal trapano e dai chiodi, con gli stucchi, canforati come unguenti d’Arabia. Vi stendi sopra il balsamo delle vernici, che impregnano l’aria d’un acre profumo, e continui a blandire con la colla gli assi di faggio che ora luccicano come uno specchio. Quante carezze: con le palme della mano, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo.
Oggi purtroppo da noi, non si carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce. Le mani incapaci di dono, sono divenute artigli, le braccia troppo lunghe per amplessi oblativi, si sono ridotte a rostri che uncinano, senza pietà, gli occhi prosciugati di lacrime ed inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci, lo sguardo trasuda libidine di possesso, e il dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema binario che regola le aritmetiche del tornaconto e gestisce l’ufficio ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani. Perciò si violenta tutto!
E non soltanto le cose, il cui spessore di sostanza si è così rinsecchito da lasciare vibrare soltanto l’immagine esteriore. Ma anche le persone! Il corpo, degradato a merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per prodotti di consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia, commercializza la donna. E con i postulati di marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la sessualità, riducendola ad una variabile della cupidigia di potere.
Non c’è da meravigliarsi perciò che tra le allucinanti simbologie di questa civiltà dei consumi Rambo costituisca la testa di serie nelle graduatorie più gettonate della violenza. E tanto meno c’è da scandalizzarci, se stanno così le cose che il Presidente Regan abbia detto, sia pure scherzando, che dopo aver visto Rambo, sa che cosa fare la prossima volta che dei cittadini americani verranno presi in ostaggio. Vedo, però che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea.
E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te. No, non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che fu; anzi, se ti ho dato quest’impressione di fuga all’indietro non giudicarmi un introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione; bastano già gli psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa della loro logica, impietosa, almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di falegname!
Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita. E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta.
Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga? O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice? Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi? E la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di felicità. Ti scriveva lettere d’amore? Forse si! E il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi una notte hai preso il coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: “Alzati amica mia, mia bella e vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tuia voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro.
E la tua amica, la tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto. Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava. Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre. Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
Spero che dietro quegli assi di castagno appoggiati alla parete non ci sia nascosto qualche rabbino, esperto di teologia, se no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi davanti all’“arcisinagogo”! Ma io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei.
Ma ora Giuseppe, cambiamo discorso! Sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza. Frattanto colgo il destro di questa interruzione per osservare che sono davvero fortunato, dal momento che il Signore mi sta mettendo sotto gli occhi i simboli giusti nel momento giusto!
Stavamo parlando di condivisione, ed ecco il segno più classico: il pane! Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio! Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali; deposto nel fondo di una bisaccia riconcilia il viandante con la vita; offerto in elemosina al mendico, gli regala un’esperienza, sia pure fugace di fraternità; donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è fame di solidarietà; raccolto nelle sporte, dopo un pasto miracolo sull’erba verde, sta ad indicare che a chi sa fare la divisione, gli riesce bene anche la moltiplicazione!
E’ proprio vero, Giuseppe. Il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni giorno quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di Dio. E’ per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia. Insegnaci, allora, a condividere il pane con i fratelli poveri, in questo nostro mondo, dove purtroppo muoiono ancora più di cinquanta milioni di persone per fame. Il pane da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra: viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso dai poveri, ammuffisce nelle credenze degli avidi, non allieta la madia degli umili, si accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce sulle bocche di tutti! Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è sparito sulle mense desolate dell’Eritrea.
Trabocca senza pudore negli opulenti cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della Terra! Viene diviso anche; sì, viene diviso, come gesto munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha diritto, con i canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia! Hai sentito mai dire, Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon, si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a valle con pro rose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il giordano strariperebbe, rompendo gli argini, e l’arsura dell’intera Palestina, verrebbe per sempre placata! E allora! Visto che presso l’Altissimo, ce ne sono poco di santi così referenziati come te, perché non provochi un fenomeno simile, scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane.
E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa del Duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria degli esclusi.
Oggi più che mai vogliamo sperimentarti così, quale Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della chiesa dei derelitti, degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini, dei terzomondiari, degli sfrattati, degli sfruttati, dei prigionieri, e degli inquilini di tutte le più squallide periferie dell’umanità. Capisco che se non mi rispondi non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è attardata nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di contemplarla per un istante. Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle.
Ogni sera, così, lei fa il carico per accendere il forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di granturco per la cena. Ma, a proposito, ora che siamo rimasti soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio illudendoti di ascoltare un vagito?
Oh, figlio della casa di Davide, raffrena la tua impazienza: il bambino che sta per nascere è sì un Dio gratuito, tanto gratuito che spunterà come rugiada sul vello, ma tu devi attendere ancora, e anche la culla deve attendere; anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido, costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre: sarà troppo piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro legno del resto saranno cullate le membra del Dio fatto uomo! Ma stavolta non spetta a te costruirlo! Vedo che la notizia non ti turba granché.
Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di Dio, da non provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa. Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive e continui ad attendere come dono, come semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto, o nubi mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il Salvatore.
Anche la tua vita si è fatta dono. Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne, sembra appena l’acconto di un avaro. Un dono così libero che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua genealogia, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di Gesù. Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore. Un dono così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia, contempla solo la voce in uscita.
Tu non chiedi nulla per te. Neppure da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico d’amore, dai tutto senza calcolo, e non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani interessi di gloria per tutta l’eternità. Ssssttt....!!! Silenzio Giuseppe, un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo otre di vino, e dice: “Ho attraversato tutta la Giudea e la Samaria, e debbo raggiungere, prima che sia notte la terra di Zabulon. Ti ho portato un po’ di vino, dalle vigne di Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. E’ di quello buono. Bevilo Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un figlio”. Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi un altro simbolo, quello della gratuità e della festa.
Dopo il pane della fornaia, ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore dell’uomo. Mah, vedo Giuseppe che ti accingi a chiudere, perché hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per riempirlo d’acqua alla fonte vicina. Io allora approfitto della tua assenza per leggere in negativo quel simbolo della letizia, appoggiato sul bancone, e chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera nella tua bottega di Nazaret, non sia stata un’evasione puramente letteraria, in un mondo, che con quello in cui mi tocca vivere, non ha nulla da spartire.
Ci vuole infatti un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia ad un’esistenza troppo faticosa da vivere? Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcol! Sicché in un mondo regolato dai petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che irta con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza persino il rischio delle popolazioni, i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale. In un mondo del genere, come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere! Si amoreggia con il fatalismo! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza più stupore, senza spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando.
Crediamo di scegliere e invece siamo scelti! Si muore per anemia cronica di gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la Festa! E le letizie diventano sbornie! Gli incontri frastuoni e i rapporti umani, orge da lupa mari! Meno male Giuseppe che hai fatto presto a tornare dalla fonte.
Vedi in tua assenza sono stato colto da un pauroso deficit di speranza e ho temuto addirittura di dover uscire dalla tua bottega per la tangente del pessimismo! Ma ora che sei rientrato anche il vino di Engaddi, lassù sul bancone, torna a rosseggia di letizia pasquale e risplende come simbolo della festa. Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l’ha regalato; ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che sta per nascere. Un giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei poveri, e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno. Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco, in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro, e anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco! Non è acqua inquinata quella! Le piogge acide, le discariche industriali e gli additivi chimici l’hanno ancora preservata, lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica.
Dammi della tua acqua, la quale è molto utile, et humile, et pretiosa et casta. Ma dammela soprattutto perché, da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, in una sera di tradimenti, del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore che è la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e della festa. E visto che ci siamo, dammi anche di quel pane! No, non tutto! Spezzamelo Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà prima di morire, e la speranza traboccherà sulla terra.
L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’ stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua, vino e pane! Si è fatto tardi, Giuseppe.
Si è fatto tardi, Giuseppe. Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. sul cedro del tuo giardino. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna.
Tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi. E poi c’è Maria che ti aspetta. E poi c’è Maria che ti aspetta. Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. o. Falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da morire! E dille che anch’io le voglio bene. Da morire!
Buona notte, Giuseppe! Buona notte, Giuseppe!
Don Tonino Bello, vescovo italiano (1935 - 1993)
scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te. Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze. Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole.
Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte. Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano un’eternità, ma forse era proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato e a darle vita era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva rinchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno od il ferro, ma il tempo; e che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio fosse quello di addomesticare i giorni comprimendoli nella materia e crearsi per un istinto di conservazione riserve di tempo negli otri delle cose prodotti dalle sue mani. Il tempo allora era imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenze di vita se non proprio l’accento della parola. Le cose nascevano perciò lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio, prima un atto d’amore, dolcissimo e breve, poi nove mesi.
Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante rapidità, squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti.
Non parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero. Si, Giuseppe! È proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere. Ecco, attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tutto tessuto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù, ma non per quando nascerà, per quando sarà grande: gliela prepara fin d’ora, prima già che lui nasca. Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a punto ombra. Forse sono fatti a punto a croce.
Una cosa, però, intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre. Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, fin da adesso, racchiusa nello scrigno di quella tunica. Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi da noi, anche i ricami vengono fatti in serie. C’è una ditta, la quale ha inventato una macchina che fa i punti perfetti, e non soltanto quelli! E se tu dopo aver comprato in un negozio della città di san Francesco, un guanciale disegnato o a “punto assisi”, la notte pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da un’anonima ricamatrice, bella come Santa Chiara, ti illudi amaramente.
Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo dell’amore, della fantasia, della bellezza, dell’arte. Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno! Oh Dio! Riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme. E perfino che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore! E lo lasciamo dire solo ai poeti! Ma se oggi qui da noi di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più, quanto perché ormai non si ripara più nulla.
Vedi Giuseppe in questi pochi minuti da che sto parlando con te sono già entrati nella tua bottega un bambino in lacrime con la ruzzola a cui rifare l’asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, un contadino con un mastello a cui si è infracidito una doga, un carrettiere col mozzo di una ruota che si è sgranato dai raggi. Da noi non si usa più!
Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto se nelle sue viscere non racchiude un’anima d’amore, per quale scopo accanirsi a ridare la vita ad un corpo già nato cadavere. La nostra la chiamiamo perciò la civiltà dell’usa e getta! Al televisore che sta in cucina si è fulminato un relè, niente paura! Viene messo da parte e sostituito con un altro che ha il video registratore incorporato.
Alla bambola che sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico perché si sono scaricate le pile, poco importa! Portala al bidone della spazzatura! Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tanto di certificato di nascita, si sposano, fanno all’amore e vanno nei campeggi estivi. Al fucile giocattolo regalato al bambino il giorno di natale è caduto il grilletto? Presto fatto! Per la Befana sarà pronto un mitra col nastro delle pallottole attorno al carrello, o addirittura un sottomarino lanciamissili con la verifica computerizzata degli obiettivi colpiti. Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli! Porta via al macero, senza scrupoli.
Anzi no! Un momento! Tra giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Così ci liberiamo il guardaroba da ingombri fastidiosi, e poi, diamine! Aiutiamo la gente!facendo contento il Signore il quale ha detto che i poveri li abbiamo sempre con noi.
Un angolo di paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando, sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue. Ma che c’è Giuseppe! Vedo che ti sei fermato col martello, brandito a mezz’aria, e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con uno sguardo di disgusto. Ho capito! Quel tuo sguardo vuol dire: “mi fate pietà”! Altro che usa e getta, valicando davvero ogni limite, avete invertito la fase in “getta e usa”, visto che siete così abbietti da snaturare perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra libidine di possesso.
Si, hai ragione falegname di Nazaret. Siamo proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie. Traffichiamo persino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e con una oscena mascherata di gratuità ci illudiamo di riscattarci dal nostro interminabile inverno dell’amore. E guarda che non ti ho detto tutto! Perché ho ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a mezz’aria. Se infatti dovessi raccontarti di quelle operazioni filantropiche tenute a battesimo dalla televisione, son sicuro che metterei a dura prova la tua tenuta di “uomo non-violento”.
Che vuoi farci! Questi si, sono i misteri buffi, di cui dovremmo vergognarci e contro cui dovremmo ribellarci e nel cui oceano stiamo tutti facendo naufragio. Ma se oggi qui da noi, in questo crepuscolo tormentato del secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché sparite non è solo perché non si genera più e neppure perché non si ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la carezza.
Mi spiego! Vedi Giuseppe, da quando sono entrato nella tua bottega, quante carezze non hai fatto su quel legno denudato dalla pialla! Tutte le volte che l’hai strisciato con il ferro, subito vi sei passato sopra con la mano, leggera come la luce che trema sulle acque: non saprei bene se per proteggerne la verecondia; o per velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza.
E anche ora, mentre ti parlo, passi e ripassi con le dita sugli spigoli smussati dallo scalpello, e ne levighi le asprezze, col medesimo amore con cui la pecora madre asciuga con la lingua l’agnello appena nato. Poi cicatrizzi le ferite del legno, provocate dal trapano e dai chiodi, con gli stucchi, canforati come unguenti d’Arabia. Vi stendi sopra il balsamo delle vernici, che impregnano l’aria d’un acre profumo, e continui a blandire con la colla gli assi di faggio che ora luccicano come uno specchio. Quante carezze: con le palme della mano, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo.
Oggi purtroppo da noi, non si carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce. Le mani incapaci di dono, sono divenute artigli, le braccia troppo lunghe per amplessi oblativi, si sono ridotte a rostri che uncinano, senza pietà, gli occhi prosciugati di lacrime ed inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci, lo sguardo trasuda libidine di possesso, e il dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema binario che regola le aritmetiche del tornaconto e gestisce l’ufficio ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani. Perciò si violenta tutto!
E non soltanto le cose, il cui spessore di sostanza si è così rinsecchito da lasciare vibrare soltanto l’immagine esteriore. Ma anche le persone! Il corpo, degradato a merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per prodotti di consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia, commercializza la donna. E con i postulati di marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la sessualità, riducendola ad una variabile della cupidigia di potere.
Non c’è da meravigliarsi perciò che tra le allucinanti simbologie di questa civiltà dei consumi Rambo costituisca la testa di serie nelle graduatorie più gettonate della violenza. E tanto meno c’è da scandalizzarci, se stanno così le cose che il Presidente Regan abbia detto, sia pure scherzando, che dopo aver visto Rambo, sa che cosa fare la prossima volta che dei cittadini americani verranno presi in ostaggio. Vedo, però che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea.
E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te. No, non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che fu; anzi, se ti ho dato quest’impressione di fuga all’indietro non giudicarmi un introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione; bastano già gli psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa della loro logica, impietosa, almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di falegname!
Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita. E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta.
Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga? O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice? Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi? E la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di felicità. Ti scriveva lettere d’amore? Forse si! E il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi una notte hai preso il coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: “Alzati amica mia, mia bella e vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tuia voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro.
E la tua amica, la tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto. Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava. Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre. Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
Spero che dietro quegli assi di castagno appoggiati alla parete non ci sia nascosto qualche rabbino, esperto di teologia, se no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi davanti all’“arcisinagogo”! Ma io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei.
Ma ora Giuseppe, cambiamo discorso! Sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza. Frattanto colgo il destro di questa interruzione per osservare che sono davvero fortunato, dal momento che il Signore mi sta mettendo sotto gli occhi i simboli giusti nel momento giusto!
Stavamo parlando di condivisione, ed ecco il segno più classico: il pane! Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio! Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali; deposto nel fondo di una bisaccia riconcilia il viandante con la vita; offerto in elemosina al mendico, gli regala un’esperienza, sia pure fugace di fraternità; donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è fame di solidarietà; raccolto nelle sporte, dopo un pasto miracolo sull’erba verde, sta ad indicare che a chi sa fare la divisione, gli riesce bene anche la moltiplicazione!
E’ proprio vero, Giuseppe. Il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni giorno quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di Dio. E’ per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia. Insegnaci, allora, a condividere il pane con i fratelli poveri, in questo nostro mondo, dove purtroppo muoiono ancora più di cinquanta milioni di persone per fame. Il pane da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra: viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso dai poveri, ammuffisce nelle credenze degli avidi, non allieta la madia degli umili, si accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce sulle bocche di tutti! Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è sparito sulle mense desolate dell’Eritrea.
Trabocca senza pudore negli opulenti cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della Terra! Viene diviso anche; sì, viene diviso, come gesto munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha diritto, con i canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia! Hai sentito mai dire, Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon, si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a valle con pro rose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il giordano strariperebbe, rompendo gli argini, e l’arsura dell’intera Palestina, verrebbe per sempre placata! E allora! Visto che presso l’Altissimo, ce ne sono poco di santi così referenziati come te, perché non provochi un fenomeno simile, scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane.
E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa del Duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria degli esclusi.
Oggi più che mai vogliamo sperimentarti così, quale Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della chiesa dei derelitti, degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini, dei terzomondiari, degli sfrattati, degli sfruttati, dei prigionieri, e degli inquilini di tutte le più squallide periferie dell’umanità. Capisco che se non mi rispondi non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è attardata nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di contemplarla per un istante. Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle.
Ogni sera, così, lei fa il carico per accendere il forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di granturco per la cena. Ma, a proposito, ora che siamo rimasti soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio illudendoti di ascoltare un vagito?
Oh, figlio della casa di Davide, raffrena la tua impazienza: il bambino che sta per nascere è sì un Dio gratuito, tanto gratuito che spunterà come rugiada sul vello, ma tu devi attendere ancora, e anche la culla deve attendere; anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido, costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre: sarà troppo piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro legno del resto saranno cullate le membra del Dio fatto uomo! Ma stavolta non spetta a te costruirlo! Vedo che la notizia non ti turba granché.
Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di Dio, da non provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa. Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive e continui ad attendere come dono, come semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto, o nubi mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il Salvatore.
Anche la tua vita si è fatta dono. Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne, sembra appena l’acconto di un avaro. Un dono così libero che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua genealogia, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di Gesù. Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore. Un dono così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia, contempla solo la voce in uscita.
Tu non chiedi nulla per te. Neppure da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico d’amore, dai tutto senza calcolo, e non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani interessi di gloria per tutta l’eternità. Ssssttt....!!! Silenzio Giuseppe, un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo otre di vino, e dice: “Ho attraversato tutta la Giudea e la Samaria, e debbo raggiungere, prima che sia notte la terra di Zabulon. Ti ho portato un po’ di vino, dalle vigne di Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. E’ di quello buono. Bevilo Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un figlio”. Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi un altro simbolo, quello della gratuità e della festa.
Dopo il pane della fornaia, ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore dell’uomo. Mah, vedo Giuseppe che ti accingi a chiudere, perché hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per riempirlo d’acqua alla fonte vicina. Io allora approfitto della tua assenza per leggere in negativo quel simbolo della letizia, appoggiato sul bancone, e chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera nella tua bottega di Nazaret, non sia stata un’evasione puramente letteraria, in un mondo, che con quello in cui mi tocca vivere, non ha nulla da spartire.
Ci vuole infatti un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia ad un’esistenza troppo faticosa da vivere? Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcol! Sicché in un mondo regolato dai petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che irta con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza persino il rischio delle popolazioni, i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale. In un mondo del genere, come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere! Si amoreggia con il fatalismo! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza più stupore, senza spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando.
Crediamo di scegliere e invece siamo scelti! Si muore per anemia cronica di gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la Festa! E le letizie diventano sbornie! Gli incontri frastuoni e i rapporti umani, orge da lupa mari! Meno male Giuseppe che hai fatto presto a tornare dalla fonte.
Vedi in tua assenza sono stato colto da un pauroso deficit di speranza e ho temuto addirittura di dover uscire dalla tua bottega per la tangente del pessimismo! Ma ora che sei rientrato anche il vino di Engaddi, lassù sul bancone, torna a rosseggia di letizia pasquale e risplende come simbolo della festa. Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l’ha regalato; ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che sta per nascere. Un giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei poveri, e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno. Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco, in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro, e anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco! Non è acqua inquinata quella! Le piogge acide, le discariche industriali e gli additivi chimici l’hanno ancora preservata, lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica.
Dammi della tua acqua, la quale è molto utile, et humile, et pretiosa et casta. Ma dammela soprattutto perché, da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, in una sera di tradimenti, del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore che è la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e della festa. E visto che ci siamo, dammi anche di quel pane! No, non tutto! Spezzamelo Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà prima di morire, e la speranza traboccherà sulla terra.
L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’ stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua, vino e pane! Si è fatto tardi, Giuseppe.
Si è fatto tardi, Giuseppe. Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. sul cedro del tuo giardino. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna.
Tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi. E poi c’è Maria che ti aspetta. E poi c’è Maria che ti aspetta. Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. o. Falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da morire! E dille che anch’io le voglio bene. Da morire!
Buona notte, Giuseppe! Buona notte, Giuseppe!
La carezza di Dio (4 Marzo 1990)
Iscriviti a:
Post (Atom)